A cosa servono gli obiettivi

Gli obiettivi dell'Agenda 2030 sono essenziali per cambiare il percorso all'economia mondiale e creare una collaborazione a livello globale.

Agenda 2030

Autore

Jeffrey Sachs

Data

1 Settembre 2022

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6' di lettura

DATA

1 Settembre 2022

ARGOMENTO

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Giugno 2016 – Nel mondo tutti sono turbati quando si parla di clima. Se dite a una platea di 150 ambasciatori delle Nazioni Unite, «ognuno di voi viene da un Paese con un clima fuori squadra», vedrete tutti annuire e poi, una alla volta, emergeranno le storie di ciascuno. C’è chi non capisce perché non sia piovuto negli ultimi anni o perché la stagione delle piogge sia stata più breve, i raccolti più scarsi e le alluvioni più devastanti.

Si ha la sensazione che gli eventi estremi siano fuori controllo e che qualcosa sia arrivato fino a noi, qualcosa di reale che non appartiene al futuro ma al presente. Penso che gli Obiettivi posti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite siano essenziali almeno per due ragioni: perché dobbiamo cambiare percorso, modificare la traiettoria dell’economia mondiale e anche perché dobbiamo creare una collaborazione a livello globale.

In questo momento non lo stiamo facendo e, il mio Paese in particolare, gli Stati Uniti, è stato finora il miglior esempio di non collaborazione. Siamo bravissimi quando si tratta di guerre, ma poco interessati a cooperare sulla lotta al cambiamento climatico.

Considero quest’Agenda non solo come iniziativa essenziale di per sé, ma anche come lente per vedere il mondo sotto una luce diversa, che non sia quella della guerra. In altre parole, se lavoriamo insieme, se l’Italia lavora con la Libia, l’Egitto e i Paesi nordafricani su problem solving di questioni pratiche, fabbisogno energetico, disponibilità idrica, creazione di lavoro eccetera, ciò che attualmente viene chiamato un «inevitabile scontro di civiltà» non sembrerà più così inevitabile.

Penso che trovare una soluzione ai problemi che tutti vorrebbero disperatamente dirimere sia la nostra migliore speranza. Lo dico in base alla mia esperienza personale che vorrei condividere con voi: non esiste Paese al mondo, indipendentemente dalla cultura del suo popolo o dalla sua posizione geopolitica, che in questo momento non sia preoccupato dell’attuale condizione ambientale

Disoccupazione e innovazione in Italia 

L’SDG 8 – «Promuovere una crescita economica forte, inclusiva e sostenibile, il pieno impiego produttivo e lavoro decente per tutti» – prevede un lavoro dignitoso per tutti. Questo ci riporta alla questione della disoccupazione. Non scenderò nei dettagli, se non per spiegare perché reputo raggiungibili tutti gli Obiettivi indicati dall’Agenda.

Se poi consideriamo l’SDG 1 – «Porre fine alla povertà ovunque e in tutte le sue forme» –, i dati a nostra disposizione ci confermano che, secondo la Banca Mondiale, essa è scesa dal 40% – anzi dal 37% nel 1990 – al 9% nel 2015. La Cina ha dato un forte impulso in questa direzione, riducendo il suo tasso di povertà dal 60% al 6% circa. Questo significa che, facendo degli investimenti mirati, è possibile ridurre notevolmente la povertà nel giro di una generazione.

Nel magnifico studio della Banca Mondiale uscito l’anno scorso troviamo altre informazioni da cui ricavare utili indicazioni. Per esempio, per quanto riguarda il rapporto tra crescita economica e qualità dell’istruzione, la posizione dell’Italia è vicina a quella di Francia, Inghilterra, Spagna e Belgio. Il suo punteggio – risultato di test standardizzati che si sono svolti in 70 Paesi – è accettabile, ma ben lontano da quello di Singapore, Taiwan, Corea, Cina e Malesia. Più alto è il punteggio, più veloce è la crescita: oggi le eccellenze della conoscenza scientifica si trovano, infatti, proprio in questi Paesi. Penso che in questo caso si debba parlare di un rapporto causale: crescita come effetto dell’istruzione, un effetto reale.

Si tratta di una constatazione interessante anche da una prospettiva europea per una politica dell’innovazione. Inoltre, se misuriamo l’innovazione tecnica, anche in modo approssimativo, sulla base dei brevetti, notiamo una forte correlazione tra essa e la creazione di posti di lavoro. 

Il bacino del Mediterraneo 

James Hansen e altri climatologi sostengono che i nostri obiettivi sono insufficienti per arrestare lo scioglimento dei ghiacci nei prossimi dieci anni, e neppure tra cinquanta. Ma tra cento o duecento anni, nella zona occidentale dell’Antartide e in Groenlandia, si potrebbe sciogliere una quantità di ghiaccio tale da innalzare il livello del mare di parecchi metri.

La verità è che, se continuiamo così, la maggior parte delle principali città del mondo sarà distrutta e, naturalmente, anche gran parte del patrimonio artistico italiano. Venezia non avrebbe la minima possibilità di sopravvivere, ma anche molti altri luoghi sarebbero in pericolo. Si tratta, quindi, di un problema estremamente serio e reale. In più, ogni giorno la scienza scopre qualche nuovo elemento a sostegno di questa tesi. Naturalmente ci sono altre ragioni, a parte l’incremento del livello del mare, che inducono a preoccuparsi dell’aumento delle temperature. L’area del bacino Mediterraneo, per esempio, è sempre più sottoposta a stress idrico: le precipitazioni si riducono e il caldo aumenta. Il problema è che il Mediterraneo è un’area del Pianeta in riferimento alla quale tutti i modelli concordano nel prevedere un clima sempre più secco.

In base alle indicazioni dei climatologi, è una caratteristica della circolazione d’aria sopra l’Equatore, la cosiddetta «circolazione di Hadley»: l’aria calda e umida sale nella zona equatoriale per poi scendere, fredda e secca, sulle regioni desertiche. Questo fenomeno è ampliato dall’aumento della temperatura dovuto ai cambiamenti climatici, tanto che il Mediterraneo assomiglia sempre più a un deserto. Questo processo è già in atto. Le precipitazioni nel bacino del Mediterraneo si sono ridotte, ma non penso che il resto dell’Europa sia consapevole di questo e lo riconosca come un problema reale. Io continuo a credere che l’Europa sia governata principalmente dai Paesi del Nord, che non comprendono la realtà del Mediterraneo.

E questo mi preoccupa, perché il Nord è generalmente sensibile a questi problemi, ma non li avverte come se fossero suoi.

La posizione dell’Italia rispetto agli SDGs

Ma dove si colloca l’Italia rispetto agli SDGs?

Nella «pagella» della Fondazione Bertelsmann 1, l’Italia risulta posizionata nella parte bassa della graduatoria, al 26esimo posto su 34. Non so se possa essere consolante sapere che gli Stati Uniti si collocano al 29esimo posto. Ma negli Stati Uniti regnano le disuguaglianze, è un Paese non sostenibile sotto il profilo ambientale e non ha un diffuso livello d’istruzione di qualità. L’Italia è messa un po’ meglio, ma in cima alla classifica ci sono, come sempre, Svezia, Norvegia e Danimarca. Questo dato emerge in ogni ricerca. La stessa cosa per il tasso di povertà: l’Italia al 23esimo posto, gli Stati Uniti al 30esimo. Per quanto riguarda la povertà, l’Italia è leggermente sotto la media, mentre la posizione degli Stati Uniti è peggiore perché riflette le politiche del capitalismo più estremo.

Per decenni il mio Paese non si è preso cura della dimensione sociale e ambientale e questo ha profondamente logorato la società americana. Ed è sotto la media per quanto riguarda l’aspettativa di vita in buona salute, al contrario dell’Italia, che è invece ai primi posti, grazie all’ottima alimentazione, alle città a misura d’uomo e al suo meraviglioso stile di vita. Uno stile che non va cambiato, ma promosso, «esportato» nel mondo. In riferimento al livello di soddisfazione della vita, sempre secondo la «pagella Bertelsmann», le cose non vanno bene per l’Italia. La vita non è più tanto dolce. E neppure nell’ultimo rapporto mondiale sulla felicità il punteggio dell’Italia migliora. La spiegazione possiamo trovarla, questa è la mia opinione, in un’altra tabella, quella che si riferisce alla corruzione.

La classifica vede ai primi posti ancora una volta i soliti noti: Danimarca, Finlandia, Svezia e Norvegia, ma anche Nuova Zelanda, dove se un ministro usa la carta di credito sbagliata, dà le dimissioni e la cosa finisce lì. Gran parte del mondo fatica a capire il perché, ma è così. Purtroppo l’Italia si colloca in fondo alla classifica, subito dopo la Grecia e prima del Messico, che chiude la lista. L’indice considerato si riferisce alla percezione della corruzione. Lascio a voi decidere se sia corretta; di sicuro abbiamo riscontrato che la felicità dipende fortemente dalla percezione dell’onestà del governo. Si tratta di un vero rapporto causa-effetto. Ecco perché amiamo il modello di Siena, l’«Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo» di Ambrogio Lorenzetti. Il nostro emblema è questo, ma c’è ancora tanto lavoro da fare in Italia.

Mi chiedo e vi chiedo: è possibile usare la tecnologia per migliorare seriamente la governance? È possibile avere maggiore trasparenza attraverso un uso più diffuso delle informazioni online, più e-governance per rendere più accessibili procedimenti pubblici che sono attualmente opachi? È di questo che si tratta e una delle sfide che penso l’Italia dovrebbe affrontare per gli SDGs è come utilizzare la tecnologia per la governance. Perché questo è probabilmente anche alla base degli altri problemi che ha.

Si potrebbe prevedere una più massiccia presenza online degli enti pubblici, dell’e-governance e rendere pubblici i documenti che potrebbero bloccare i beni dei corrotti. Vorrei aggiungere ancora un elemento: i punteggi PISA (Program for International Student Assessment). PISA è il programma per la valutazione internazionale degli studenti delle scuole superiori, usato per i confronti tra i Paesi dell’OCSE. L’Italia è 24esima su 34 Paesi ad alto reddito. Non è un buon risultato.

Il ruolo dell’università 

I governi molto raramente sono degli innovatori e, in effetti, il ruolo dei ministeri è d’implementare la legislazione, non quello d’innovare. L’innovazione deve quindi venire dal mondo delle imprese, da quello delle università, dalla società civile o, più propriamente, dal lavoro congiunto di queste tre istituzioni. Il nodo cruciale è questo. Io amo l’ambiente universitario, ci lavoro ormai da quarantaquattro anni. Non ho mai svolto nessun altro lavoro: ci sono entrato da studente quarantaquattro anni fa e ci sono rimasto. Penso che le università offrano conoscenze ed expertise e ospitino studenti giovani e idealisti molto brillanti che rinnovano l’istituzione anno dopo anno.

L’ambiente universitario garantisce, inoltre, un certo livello di obiettività e di estraneità al gioco politico e rende quindi possibile pensare in una prospettiva temporale più ampia. Le imprese sono vitali, giocano molteplici ruoli, ma sono convinto che quelle di successo lo siano perché guardano avanti e cercano di immaginare come sarà il futuro tra dieci o vent’anni, per prepararsi a essere leader in quel mondo. Non sono certo quelle che stanno a galla grazie alle lobby e che cercano di rallentare il cambiamento. Questo modo di fare impresa può funzionare per un po’ di tempo, ma non permette di diventare leader. La nostra industria del carbone, per esempio, è ormai alla bancarotta ed era assolutamente prevedibile che andasse a finire così, perché non c’è posto per il carbone se vogliamo restare sotto la soglia dei 2°C.

Per venticinque anni la posizione dell’industria è stata quella di resistere, di ignorare il cambiamento climatico, come se non fosse un problema o perlomeno un «suo» problema. Per un po’ è riuscita anche a ricavarne un guadagno, ma alla fine ha dovuto farci i conti e ha capito che l’innovazione permette di cavalcare l’onda successiva. Io penso che gli SDGs possano generare grandi innovazioni e le migliori imprese tra vent’anni saranno quelle che avranno afferrato questa opportunità dicendo: «Sappiamo che è necessario». Poco alla volta, passo dopo passo, il mondo andrà in questa direzione; magari non seguirà una traiettoria lineare o totalmente prevedibile, ma la direzione sarà quella.

Quindi, riuscendo ad anticipare i tempi e a realizzare dei prodotti effettivamente utili per raggiungere gli Obiettivi SDGs, può venire fuori qualcosa di buono. Ho anche scoperto che, se i governi venissero posti di fronte a percorsi realistici e confrontabili, si potrebbe scegliere la soluzione più giusta. La mia sfiducia nei confronti dei politici non è quindi totale, ma condizionata. Non mi aspetto leadership, ma followership. Mi aspetto che i politici si facciano guidare e che sostengano delle iniziative importanti e portatrici di un cambiamento nella società per il bene futuro del Paese.

Io penso che l’Agenda ONU sia importante a tal punto che tutti dobbiamo contribuire a realizzarla non solo perché si tratta di un bene pubblico globale, ma anche perché chi si tirerà indietro si troverà nella stessa posizione di quei Paesi europei non innovatori, con un alto tasso di disoccupazione, con un futuro economico incerto e che per di più stanno subendo una trasformazione politica negativa, perché non vedono esattamente quale possa essere il loro ruolo. Pensando all’Europa, constato che Bruxelles non porta più avanti una visione positiva di cambiamento.

Il piano Juncker è scomparso. È naufragato da un giorno all’altro nel bel mezzo della crisi dei rifugiati siriani. Ma l’Europa non può limitarsi a opporsi, sperando poi di cavarsela. Realisticamente, da un punto di vista globale, l’Europa è in cima alla lista degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Perché l’economia sociale di mercato è il modello di sviluppo dell’economia europea e la maggior parte degli SDGs riflette quest’approccio. L’Europa dovrebbe quindi considerare gli SDGs una grande opportunità per rafforzare la sua economia, ma anche per irrobustire la leadership economica europea a livello globale. Non penso sia una cosa semplice.

Concludo dicendo che l’Italia dovrebbe prendere in considerazione questi Obiettivi non solo per affrontare le proprie criticità o gli ambiti nei quali essa e il resto dell’Europa devono apportare dei cambiamenti (per esempio, nel sistema energetico), ma anche come strumento per esercitare una leadership nel Mediterraneo, area che ha bisogno di una visione nuova che certo non verrà da Bruxelles.


Fonte/Testo originale: Sachs Jeffrey, ‘A cosa servono gli obiettivi’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 1, giugno 2016, Il Mulino.

Il testo pubblicato, di cui abbiamo mantenuto il tono discorsivo, è un estratto dell’intervento fatto dall’autore il 14 marzo scorso a Milano, presso la Fondazione ENI Enrico Mattei, in occasione del lancio di SDSN Italy. Non è stato rivisto dall’autore.

Note

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