Pur coprendo solo il 20-25% dei consumi energetici italiani (e una percentuale ancora minore dei consumi energetici a livello globale), l’energia elettrica è oggi al centro di un dibattito che le attribuisce un rilievo fondamentale all’interno del processo di decarbonizzazione. Ciò avviene per una serie di ragioni. In primo luogo, negli ultimi anni il vettore elettrico sta conoscendo una vera e propria espansione nel settore energetico. In particolare, stiamo assistendo a una elettrificazione dei consumi finali, come possiamo notare tutti nella nostra vita quotidiana, per esempio con il passaggio nelle case dal piano cottura a gas a quello a induzione o dall’auto con motore endotermico a quella elettrica. Il vettore elettrico infatti presenta numerosi vantaggi. Il primo è connesso all’efficienza energetica, che è mediamente superiore – e in alcuni casi molto superiore – rispetto a quella degli altri vettori energetici. Il secondo vantaggio riguarda la salute. Prendiamo ancora ad esempio il piano cottura a gas: quando si utilizza per cucinare si producono non solo anidride carbonica, ma anche altri piccoli inquinanti che creano indoor pollution, cioè inquinamento all’interno delle mura domestiche. Con il piano a induzione questo non succede e le esternalità negative sono vicine allo zero. Inoltre, il vettore elettrico è quello che meglio si sposa con le nuove tecnologie, dal momento che serve per il funzionamento di tutte le moderne appliances, gli strumenti e gli oggetti che usiamo quotidianamente, dal telefono all’aria condizionata, dalla tv a Internet. Si sposa bene con l’Information Technology ed è alla base dell’Internet of Things, mettendo tutto in rete.
Decarbonizzare il comparto elettrico
Oltre a prendere in esame utenti e consumi finali, per affrontare il dibattito sul vettore elettrico, occorre tenere in considerazione anche come avviene la produzione di energia elettrica. L’elettricità può essere generata da differenti fonti di energia: carbone, gas, petrolio, biomassa, geotermico, acqua, vento e sole. Rispetto ad altre forme di energia rinnovabile, le fonti rinnovabili con le quali si produce elettricità utilizzano le tecnologie a più avanzato stato di maturità. Ciò significa che oggi produrre elettricità con le rinnovabili è conveniente, ovvero costa come le altre modalità di produzione, se non addirittura meno. In Italia il comparto elettrico si sta espandendo, trainando le rinnovabili; per questo molti scenari di decarbonizzazione del settore energetico per il nostro Paese mettono al centro il vettore elettrico. È proprio questa la sfida del comparto elettrico italiano: decarbonizzarsi. In questa direzione l’Italia deve centrare entro il 2030 alcuni obiettivi, riportati dal PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima), approvato lo scorso luglio. Secondo il documento, nel settore elettrico la quota di consumi coperta dalle fonti rinnovabili dovrebbe raggiungere a livello annuale il 63,4%, trainando tutto il comparto delle FER. Questo significherebbe una produzione elettrica rinnovabile al 2030 di circa 237 TWh, comprensivi di circa 10 TWh destinati alla produzione di idrogeno verde. Ovviamente si tratta di target da raggiungere nel contesto di un mercato liberalizzato, come è quello dell’energia elettrica. Nel recente passato, l’Unione Europea ha incentivato l’uso delle rinnovabili attraverso un meccanismo abbastanza semplice, quello dell’attribuzione di un prezzo alle esternalità ambientali negative della generazione elettrica. Bruxelles ha dato vita, nel 2005, al mercato europeo delle emissioni (EU Emissions Trading System, anche noto con l’acronimo EU ETS). Il sistema prevede la quotazione monetaria delle emissioni di inquinanti e gas a effetto serra e il commercio delle quote di emissione tra Stati diversi. Attualmente ogni tonnellata di CO2 ha un valore di poco superiore a 60 euro. L’UE fissa semplicemente un tetto massimo complessivo alle emissioni consentite sul territorio europeo nei settori di applicazione del sistema; questo massimale viene ridotto ogni anno in linea con gli obiettivi europei di taglio delle emissioni. Gli Stati che emettono di più rispetto alle quote che detengono sono soggetti a sanzione.
Un secondo meccanismo di incentivi è stato messo in campo in Italia, al fine di favorire gli investimenti in tecnologie rinnovabili e, in particolare, nel fotovoltaico, nell’eolico e nel nuovo mini idroelettrico. Negli anni scorsi GSE – Gestore dei Servizi energetici (società per azioni partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze) acquistava dagli stessi produttori l’elettricità generata da fonti rinnovabili a un prezzo garantito, attraverso diversi meccanismi (Conti energia eccetera) che tenevano conto anche delle dimensioni degli impianti. Da cinque o sei anni, cioè da quando le rinnovabili sono diventate competitive a livello di costi e la loro installazione non richiede più alcun meccanismo di incentivazione, GSE opera con una nuova modalità per fare in modo che l’Italia raggiunga i target relativi all’installazione di rinnovabili: bandisce aste per nuova capacità, fissando un prezzo massimo e richiedendo ai produttori di offrire a sconto. A seconda degli indirizzi di politica energetica e di politica di governo del territorio, le aste possono promuovere determinate tipologie di impianti, come per esempio gli impianti a terra o l’agrivoltaico. Il prezzo garantito dall’asta risulta più basso di quello di Borsa elettrica, che ingloba anche quello da pagare da parte di chi emette.
Come funziona la Borsa elettrica
La Borsa elettrica (IPEX – Italian Power Exchange) è un sistema organizzato di offerte, di vendita e di acquisto di energia elettrica, istituito nel 2004 e presieduto dal Gestore dei mercati energetici (GME). Nel sistema l’incontro tra domanda (ovvero chi intende acquistare energia elettrica) e offerta (ovvero chi vende energia elettrica) avviene attraverso il sistema del prezzo marginale. Nel dettaglio, ogni soggetto presenta offerte, indicando la quantità e il prezzo massimo e minimo che è disposto a pagare o a ottenere per la quantità che vuole acquistare o vendere. A questo punto l’algoritmo di Borsa definisce un equilibrio tra domanda e offerta, individuando appunto il prezzo di equilibrio, che è quello marginale, perché è quello che rende il sistema efficiente. La vendita di energia elettrica viene effettuata ogni giorno per il giorno successivo ricorrendo a una contrattazione su base oraria.
Nel nostro Paese il prezzo dell’energia elettrica è mediamente più alto rispetto a quello di molti Paesi europei, in particolare in questo momento storico. Questo perché – in virtù dei meccanismi di formazione del prezzo dell’energia – il prezzo di equilibrio riflette il costo marginale, cioè il costo sostenuto per produrre un MegaWatt ora in più di elettricità, dell’ultimo impianto che deve entrare in esercizio per soddisfare la domanda. Se quest’ultimo impianto è alimentato a gas, nel costo marginale saranno compresi anche i costi del combustibile e delle emissioni. Se invece l’ultimo impianto che deve entrare in esercizio per soddisfare la domanda fosse alimentato a energie rinnovabili, il costo marginale sarebbe vicino allo zero: in questi sistemi infatti i costi di gestione per produrre una singola unità in più di energia non devono includere né il costo del combustibile, né quello delle emissioni. Paradossalmente nell’ipotesi in cui il 99% dell’elettricità offerta in Borsa fosse prodotta dalle rinnovabili e l’1% – l’ultimo MegaWatt ora – sia generato dal gas, il prezzo di Borsa continuerà a essere fissato dal gas. In Italia purtroppo la nostra capacità di generazione di energia elettrica è storicamente sbilanciata sul gas (nel 2023 il 45% dell’elettricità consumata a livello nazionale è stata generata da centrali a gas e anche nei primi mesi del 2024 la tecnologia marginale dominante, ovvero quella che ha fissato il prezzo dell’elettricità nel 60% delle ore, è rappresentato dalle centrali a gas): ciò significa che è necessario sempre che sia operativa una centrale elettrica a gas e questo determina un rialzo del prezzo. Questa situazione non si verifica invece in molti altri Paesi europei, dove per produrre energia elettrica si utilizzano in alcuni casi le rinnovabili e il nucleare, in altri le rinnovabili e il carbone, o ancora le rinnovabili e le biomasse. Oltre a essere sbilanciata sul gas, l’Italia ha scelto di sviluppare in particolar modo in passato l’idroelettrico e oggi il fotovoltaico, con tutte le criticità che questo comporta: gli impianti fotovoltaici infatti producono energia solo nelle ore diurne e, in caso di meteo avverso, la loro capacità di produzione diminuisce in modo rilevante.
Ridurre il prezzo dell’energia elettrica in Italia
Allora, come si può affrontare la sfida della riduzione del prezzo dell’energia elettrica? La prima strada è facilmente intuibile: occorre aumentare l’installazione di impianti di energia rinnovabile, in grado sempre più di fissare il prezzo marginale. Una seconda via è quella di aumentare le importazioni di energia elettrica, che all’estero viene venduta a un prezzo minore, migliorando al contempo le infrastrutture di interconnessione con gli altri Paesi. Una terza via è quella di trovare il modo di ridurre il costo del gas. Un possibile impatto positivo potrebbe essere legato alla riduzione della domanda. Attualmente il mercato del gas è in equilibrio tra domanda e offerta, dunque più sarà forte il commitment nel diminuire la domanda, più il prezzo dovrà scendere. Poi c’è il tema della cattura e dello stoccaggio della CO2 (Carbon Capture and Storage – CSS), di cui Eni e Snam hanno presentato un primo progetto italiano nel settembre scorso. Questa tecnologia – che ha l’obiettivo di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera, trasportarla e infine iniettata in formazioni geologiche profonde adatte a contenerla definitivamente – ha dei costi fissi ancora elevati, ma abbattendo le emissioni di oltre il 90%, permetterebbe di non pagare le tariffe ETS, facendo crollare in questo modo il prezzo di Borsa. Per imporsi, in Italia, la tecnologia CSS dovrà però vincere la sfida dell’accettabilità sociale. Una sfida che, in realtà, riguarda anche altre tecnologie che potrebbero essere impiegate per la transizione: per esempio, i pannelli fotovoltaici e le pale eoliche sono stati al centro di critiche perché considerati da alcuni molto impattanti sull’estetica del paesaggio e sulla sopravvivenza di alcune specie animali (uccelli migratori, in primis). Ma la transizione energetica ormai non è più differibile: al di là degli obiettivi sul piano ambientale, il nostro Paese rallentarla significherebbe conservare questa eccessiva esposizione sul gas e quindi continuare a pagare l’elettricità più di quanto avviene negli altri Paesi europei. Per questo motivo, occorre vincere la sfida dell’accettabilità sociale, con un coinvolgimento profondo delle comunità locali: non basta infatti implementare iniziative ‘riparative’ sul territorio, ma è necessario coinvolgere i residenti con modalità innovative, per esempio facendoli diventare veri e propri azionisti di progetti green. Queste iniziative sono già molto diffuse nei Paesi del Nord Europa, come per esempio la Danimarca.
Le sfide della rete elettrica e i sistemi di accumulo
Infine, in un sistema energetico in cui si farà ampio uso delle rinnovabili, si porranno altre nuove sfide: da una parte, sarà necessaria una modernizzazione delle reti, dall’altra l’elevato impiego del fotovoltaico porrà il problema dello stoccaggio dell’energia prodotta. Serviranno dunque dei sistemi di accumulo, come impianti idroelettrici di pompaggio oppure batterie per lo stoccaggio elettrochimico. Se attualmente i primi già competitivi dal punto di vista economico, per le batterie i costi sono ancora troppo elevati. Inoltre, il loro funzionamento si basa su una tecnologia sviluppata soprattutto in Cina. Alcuni considerano questi due fattori come elementi critici per l’utilizzo di questi sistemi. Si stima invece che il prezzo delle batterie di accumulo diventerà assolutamente competitivo nei prossimi tre-quattro anni. Inoltre, occorre fare una valutazione in termini non solo di politica energetica, ma anche di politica industriale: nel caso in cui in Italia si decidesse di installare batterie di produzione cinese, si verrebbe a creare una dipendenza molto diversa da quella che il nostro Paese ha sviluppato – per esempio – nei confronti del petrolio saudita. Il petrolio, infatti, è un combustibile che può essere stoccato solo limitatamente: dopo gli shock petroliferi degli anni Settanta, l’International Energy Agency ha stimato che oggi ciascun Paese ha scorte strategiche per un massimo di 100-120 giorni. L’acquisto di una tecnologia, invece, come quella fotovoltaica o quella delle batterie per lo stoccaggio di energia, non mette in crisi la sicurezza energetica di un Paese (o di un intero continente) perché evita la possibilità di un esaurimento di scorte e quindi di emergenze sul lato dell’approvvigionamento, nel caso di tensioni geopolitiche con la Cina. I tempi per la risoluzione di eventuali controversie potranno anche essere più dilatati, dal momento che l’Italia (o l’Unione Europea) non sarà più sotto ricatto, con il timore di un’interruzione improvvisa delle forniture. In questo modo ridurre il prezzo dell’energia, grazie all’uso massiccio di rinnovabili, potrà essere un volano per il rilancio di prodotti made in Italy ad alto valore aggiunto.