Parafrasando l’antropologo Marcel Mauss, il cambiamento climatico è forse uno dei ‘fatti sociali totali’ più rilevanti del nostro tempo. Se è immediatamente chiara la totalità a cui si riferisce – la sopravvivenza del Pianeta stesso – più complessa è la questione della sua definizione sociale. Definirlo tale – un fatto sociale – espone facilmente a numerosi rischi. In primis, quello di essere additati pubblicamente come ‘relativisti’, fare il gioco dei minimizzatori, degli scettici o dei negazionisti. E questo paradosso è già un primo indice della sua rilevanza pubblica e del suo definitivo riconoscimento sociale come ‘problema’.
La storia del cambiamento climatico come problema pubblico è rilevante per mostrarci come sempre più la distinzione tra ‘fatti sociali’ e ‘fatti naturali’ venga meno e, per dirla con Latour, gli stessi abbiano natura ‘ibrida’1. Questo è in parte il risultato di ricerche che nelle scienze sociali hanno ridefinito il modo di guardare ai rapporti tra ambiente e uomo oltre una prospettiva naturalisticamente naïve. L’ascesa del campo della sociologia dell’ambiente nei tardi anni Sessanta ha contribuito a superare un duplice determinismo delle teorie tradizionali. Innanzitutto, in seno alle scienze sociali stesse ha permesso il superamento di un modello dell’ ‘esenzionalismo umano’ (human exemptionalism)2, per cui l’ambiente veniva derubricato a oggetto di studio delle scienze naturali. A questo deficit si aggiungeva simmetricamente quello delle scienze naturali, i cui modelli del comportamento umano erano ridotti a considerazioni marginali e sottoteorizzate.
Un primo esempio a riguardo è proprio il cambiamento climatico. La sua definizione emerge verso la fine degli anni Ottanta insieme al sorgere di un’intera comunità epistemica internazionale, prevalentemente ascrivibile al campo dell’ingegneria geofisica e informatica. Nel 1986 questa rete di scienziati e ingegneri si identificava come IGBP, International Geosphere-Biosphere Program, quindi non menzionando nel proprio nome il problema del ‘cambiamento climatico’, che assumerà un tratto distintivo in un secondo luogo. A unificare studiosi di scienze dure e ingegneri è soprattutto l’uso di sofisticati programmi di osservazione informatica delle emissioni. Contro un senso comune dove la scienza scopre, la tecnologia applica e la società riceve, si può dire che è invece proprio grazie alla ‘vasta macchina’ che mette insieme modelli computerizzati e raccoglie dati che si costituisce e socializza la comunità che studia il cambiamento climatico. L’entità di tali osservazioni genera in pochi anni un’eco difficilmente ignorabile e due anni dopo quella rete diventa l’Intergovernmental Panel on Climate Change del 1988: il cambiamento climatico è l’elemento d’identità principale che tiene assieme quella comunità, oltre a quel ‘intergovernamentale’ che ne modifica – e non di poco – le relazioni con la sfera politica. Il modello principe su cui si struttura la definizione è il celebre modello Bretherton, nome derivato dal matematico che lo ha formalizzato.
Sotto forma di grafico, il modello mostra tanto quanto nasconde: se è visibile il dominio delle dimensioni fisiche e geologiche, colpisce altrettanto quell’oscuro rettangolo denominato ‘attività umane’ relegato al margine destro, come una variabile tra le altre.
La definizione di ‘attività umane’ rimane nel modello vittima di un certo strutturalismo tipico delle scienze fisiche e geologiche, che si occupano di cambiamenti su larga scala spaziale e temporale. Se da un lato gli avanzamenti del modello Bretherton hanno contribuito a dare legittimità scientifica al problema e hanno il merito di introdurre il tema delle ‘attività umane’, al contempo sin dall’inizio mostrano i limiti di natura disciplinare. In una comunità epistemica dominata da geologi, fisici e informatici non c’è traccia dei modelli delle scienze sociali.
Il modello Bretherton non può allora che andare incontro a un certo riduzionismo, derivato dalle teorie dei sistemi concepite in campo ingegneristico: riduzione della società a un complesso meccanicistico, puramente orientato all’adattamento e all’integrazione di funzioni vitali fondamentali. Per certi versi, appare una versione semplificata dello struttural-funzionalismo di Parsons e del suo orientamento ‘consensualista’, incapace di mostrare la discrezionalità e criticità dei rapporti di forza su cui poggia il funzionamento dell’ordine sociale. Quella gabbia struttural-funzionalista in sociologia aveva già mostrato i suoi limiti a cavallo del Sessantotto: il conflitto è una patologia transitoria del sistema o forse una dimensione inalienabile dello stesso? Ironia della storia, il funzionalismo rientrava mutatis mutandis due decenni dopo dentro i paradigmi di un problema come il cambiamento climatico, ignoto al grande sociologo di Harvard.
Molte categorie delle scienze naturali, seppur di grande appetibilità metaforica, mal si adattano a spiegare il mondo umano, il cui funzionamento si può intendere certo con tendenze strutturali ma a cui partecipano attori individuali e collettivi provvisti di intenzionalità, volontà e motivazioni che compongono interessi e valori, si organizzano in ideologie e visioni del mondo tutt’altro che omogenee e il cui destino è votato a trovare regole e strumenti accettabili per governarne il conflitto.
Eppure su tale riduzionismo fisico-biologico sono emerse categorie, come quella di ‘resilienza’, che recentemente hanno assunto una centralità linguistica anche nella definizione di strumenti di governance europea. Ma la resilienza è un’altra categoria che riduce deterministicamente le forme di risposta sociale ai problemi. In società, il problema non è semplicemente, come nell’ingegneria dei materiali, in quale modo rispondere a un urto esterno, ma in che maniera modificare i rapporti di forza che generano una pressione specifica.
Il cambiamento climatico è stato forgiato dai limiti di questi paradigmi primigeni ispirati a un campo dai confini incerti, detto ‘scienza della sostenibilità del sistema umano-naturale’ (in inglese CHANS – Coupled Human-Natural System Sustainability Science). Nell’evoluzione della ricerca e nell’ampliamento della comunità epistemica del IPCC si sono sommati poi saperi di tipo economico, che hanno tentato di spiegare il problema del cambiamento climatico con approcci ispirati dalle teorie dell’attore razionale. Tale complesso di strumenti si basa sull’assunto scientifico che sia possibile affrontare il problema sulla base di incentivi e disincentivi, calcolati aggregando preferenze e interessi razionali stabilite dagli attori identificati come alla base del problema. Se sicuramente alcuni strumenti di mercato hanno avuto il merito di spostare l’asse su una dimensione più sociale, come quella delle strutture dell’economia, una gran parte di quegli strumenti finisce per mostrare nuovi limiti. Soprattutto, il campo economico non mette in discussione come i calcoli di mercato siano il risultato di un campo di forze che preesistono al mercato stesso (già Durkheim ci spiegava che “non tutto è contrattuale nel contratto”). La razionalità che ne consegue non può che essere definita a partire da un ordine sociale auspicabile, dove gli auspici non sono mai del tutto posti in discussione (o per lo meno danno per scontato che siano quelli delle forme di governance attualmente esistenti). È una razionalità spesso definita in senso strumentale come “utilità”, che è sempre “limitata”, calcolata entro certi vincoli (di informazione, di risorse, di scale di temporalità) e osservabile ex post, a decisione avvenuta e a seguire interpretata.
Ma è così facile calcolare l’utilità della natura per una sua sottospecie come l’uomo? Ed è possibile monetizzare la vita di intere specie o pezzi di biosfera, il cui valore eccede quello economico tracciato dagli uomini?
Il tema stesso ha portato a riconsiderare nuovi termini per descrivere l’epoca segnata dai cambiamenti climatici indotti dall’uomo. Nonostante sia oggetto di controversie, il nuovo dibattito sull’Antropocene non è che lo sviluppo ulteriore dell’evoluzione del dibattito sul cambiamento climatico e sul rapporto tra Uomo e Natura3.
Se non è più distinguibile il confine tra ciò che è effetto di processi umani e ciò che effetto di processi naturali, il cambiamento climatico non può rimanere confinato a questioni, pur fondamentali, di calcolo ingegneristico o economicistico.
Se anche l’antropologia ha ridiscusso i confini tra natura e cultura4 andando verso un’idea di codeterminazione simmetrica, si avverte sempre più la necessità di una riflessione sul tipo di saperi che definiscono un ‘fatto sociale totale’, che quindi accoglie dentro di sé una pluralità di culture. Sempre più necessari sono saperi dotati di un’adeguata forma di riflessività, dove la stessa idea di natura deve accogliere la molteplicità delle culture. La necessità di rappresentanza e di voce delle forme di ‘conoscenza indigena’ – che riguarda anche il legame tra forme di civiltà dominanti e forme di sapere autorevole – è già oggetto di dibattito anche in un’altra comunità epistemica di rilievo come l’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Eco-System Services (IPBES).
Nell’evoluzione di tale dibattito nuovi tipi di discorso investono quelli che un tempo erano fatti naturali definiti dai modelli delle scienze geofisiche e osservati dai computer prodotti nei grandi centri di ricerca occidentali.
Ciò che dentro il modello di Bretherton era il comparto ‘attività umane’ – un’autentica black box – è stato definitivamente aperto come un vaso di Pandora e questo non ha fatto che arricchire la definizione dell’oggetto in questione, che passa da contenuto di ricerca tra tecnici a questione mondana di governo. Così come nel dibattito sulla natura e le questioni ambientali i confini tra artificialità e naturalità scemano, anche sul cambiamento climatico la dialettica tra ‘protezione’, ‘conservazione’, ‘modernizzazione ecologica’ o ‘decrescita’ è finalmente riconosciuta come un negoziato, oggetto di un dibattito e governo arricchito da un pluralismo scientifico e politico rispetto alle sue fasi precedenti. Oltre una triplice illusione: che le soluzioni provengano direttamente da una non specificata ‘scienza’ che non riflette su quale ‘società’ e ‘natura’ ha in mente e intende servire.
Note
- B. Latour, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, Eleuthera, 1995.
- W. R Catton e Jr., R.E. Dunlap, Environmental Sociology: A New Paradigm, in ‘The American Sociologist’, 13, 1978, pp.41-49.
- E Lövbrand. et al., Who speaks for the future of the Earth? How critical social science can extend the conversation on the Anthropocene, in ‘Global Environmental Change’, 32, 2015, pp. 211-218.
- P. Descola, Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2021 (ed. or. 2005).