Fragile profondo oceano: la corsa ai metalli

Autore

Maria Alessandra Panzera

Data

30 Ottobre 2024

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5' di lettura

DATA

30 Ottobre 2024

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Negli ultimi anni, il dibattito sull’estrazione mineraria di cobalto, nichel e manganese dei noduli polimetallici presenti nei fondali marini in massiccia quantità è divenuto sempre più rilevante, spinto dalla crescente domanda di metalli per supportare la transizione ecologica. Tecnologie come pannelli fotovoltaici, auto elettriche e turbine eoliche, contengono, infatti, questi componenti, essenziali anche per l’elettronica e dispositivi come smartphone, computer e altri apparecchi. Tuttavia, un aumento della domanda ha sollevato preoccupazioni sugli impatti ambientali delle operazioni nei fondali e sull’efficacia dei quadri normativi attuali nel mitigarli.

L’estrazione dei fondali marini: un nuovo capitolo del capitalismo estrattivo

Seguendo l’analisi di Jason Moore (2009), che critica l’espansione continua della logica estrattiva verso nuovi orizzonti geografici, l’estrazione mineraria dei fondali marini rappresenta l’ultima frontiera del capitalismo ecologico. Questo modello è descritto come un perpetuarsi di crisi ambientali, derivanti dallo sfruttamento e l’esaurimento delle risorse naturali, risolte in modo ricorrente con una rinnovata espansione geografica in nuovi luoghi di sfruttamento per l’accumulo di capitale. Un corso d’azione che non solo esaurisce le risorse naturali, ma sposta anche il peso delle crisi ecologiche su ecosistemi ancora inesplorati e vulnerabili, come quelli dei fondali marini. 

Impatto ambientale: un ecosistema fragile in pericolo

Le ricerche scientifiche mostrano i potenziali impatti significativi dell’estrazione mineraria sugli ecosistemi dei fondali. La perdita di biodiversità, la dispersione di sedimenti tossici e l’interruzione di processi ecologici vitali (anche per la terraferma), come lo stoccaggio del carbonio, sono tra le principali preoccupazioni evidenziate dagli studi. 

Si stima che oltre 230.000 specie abitino questi ambienti e studi suggeriscono che l’estrazione potrebbe portare all’estinzione di molte di esse, e di altre non ancora scoperte. Gli effetti a lungo termine non sono ancora compresi, ma stime indicano che le comunità marine potrebbero impiegare decenni o addirittura secoli per riprendersi, se non perire del tutto. 

Durante le operazioni minerarie, il sollevamento di sedimenti genererebbe nuvole di particelle che possono diffondersi su vaste aree, fino a 100 chilometri di distanza dalla zona di estrazione, bloccando filtri naturali e riducendo il cibo per le comunità microbiche, cruciali per la salute dell’ecosistema, con conseguenze sul cambiamento climatico stesso. Infatti, alcuni microrganismi svolgono un ruolo essenziale nella regolazione del ciclo del carbonio e nel sequestro del metano, un potente gas serra e la loro presenza sui noduli polimetallici contribuisce a stabilizzare la chimica dell’oceano rimuovendo metalli tossici dall’acqua. 

Quadri normativi e nuove tecnologie: efficaci o insufficienti?

Il quadro normativo internazionale attuale è stabilito principalmente dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS). La UNCLOS sancisce che le risorse situate al di fuori delle giurisdizioni nazionali, inclusi i fondali marini, sono patrimonio comune dell’umanità, e l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (ISA), istituita dalla UNCLOS, è l’organismo incaricato di regolare le attività di esplorazione ed estrazione. 

L’ISA ha concesso numerose licenze per l’esplorazione mineraria, concentrandosi in particolare sulla zona Clarion-Clipperton nel Pacifico settentrionale, una regione ricca di noduli polimetallici. Numerosi esperti hanno però espresso dubbi sulla capacità di questi organismi di affrontare efficacemente questa sfida. 

L’approccio precauzionale, introdotto dalla Dichiarazione di Rio del 1992, guida le politiche della ISA nel prevenire danni ambientali anche in assenza di certezze scientifiche. Tuttavia, a pressione economica di Stati e aziende pronte a sfruttare le risorse dei fondali potrebbe comprometterne l’efficacia, influenzando la governance globale a scapito della sostenibilità. La ISA dovrebbe inoltre considerare gli impatti cumulativi delle attività minerarie su scala più ampia, al di là delle aree direttamente interessate. La mancanza di dati quantitativi e di una solida base scientifica rende difficile sviluppare regolamenti efficaci e strategie di monitoraggio adeguate per mitigare gli impatti ambientali.

Nonostante ciò, alcuni esperti ritengono che l’innovazione tecnologica possa mitigare gli impatti ambientali dell’estrazione mineraria dei fondali marini. Veicoli autonomi avanzati e pratiche di estrazione più attente potrebbero ridurre la dispersione dei sedimenti e limitare i danni agli habitat marini. Dato però il livello di incertezza e i rischi ambientali, una proposta sempre più discussa è l’adozione di una moratoria, fino a quando non sarà possibile condurre valutazioni complete sugli impatti ambientali.

Verso una nuova ecologia politica?

Alla luce delle implicazioni ambientali dell’estrazione mineraria dei fondali marini, è chiaro che ci troviamo di fronte a una scelta cruciale. Da un lato, la transizione ecologica richiede metalli e risorse, i quali si possono trovare in abbondanza sui fondali oceanici; dall’altro, gli ecosistemi marini profondi rappresentano una delle ultime frontiere naturali relativamente intatte del pianeta, il cui solo 5% è stato topograficamente mappato, e il loro sfruttamento potrebbe avere conseguenze irreversibili. 

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