Con l’espressione, ‘finanza per il clima’, ci si riferisce a due diverse componenti: da una parte agli investimenti per il clima, che indicano appunto tutti gli investimenti in beni fisici e infrastrutture verdi necessari per raggiungere le zero emissioni entro il 2050 e per mitigare gli effetti del cambiamento climatico; dall’altra agli strumenti finanziari per il clima, che invece comprendono le risorse locali, nazionali o transnazionali, provenienti da fonti di finanziamento pubbliche o private o alternative, necessarie per finanziare gli investimenti per il clima. Il tema della finanza per il clima sarà uno dei temi al centro della discussione durante la Cop29, in programma a Baku, in Azerbaijan, dall’11 al 22 novembre.
Quanti investimenti servono per arrivare al net zero?
Secondo recenti stime di McKinsey, saranno necessari a livello globale tra i 9.000 e i 12.000 miliardi di dollari di investimenti ogni anno entro il 2030; una cifra pari a circa il 12% del Pil mondiale. Per raggiungere questa somma la politica svolge un ruolo fondamentale, sia mettendo a disposizione una parte delle risorse finanziarie necessarie sia nel delineare un quadro regolatorio stabile che attragga i capitali privati. Misure come l’Inflation Reduction Act (IRA), approvato negli Stati Uniti nel 2022, che stanzia più di 370 miliardi di dollari pubblici, o il Green Deal dell’Unione europea, che potrebbe mobilitare più di 1.000 miliardi di euro in fondi pubblici e privati, puntano su alcune delle fonti possibili di finanziamento di questi investimenti. Nel contesto delle Cop, l’espressione ‘finanza per il clima’ spesso diventa sinonimo di trasferimenti finanziari da Paesi ricchi a Paesi a basso/medio reddito. Questo perché, all’interno di questi summit, uno dei temi più dibattuti è quello della necessità di sostenere finanziariamente i Paesi in via di sviluppo nelle loro azioni sia di mitigazione sia di adattamento. Quasi tutti i Paesi in via di sviluppo, infatti, non dispongono di sufficienti risorse proprie e faticano ad attrarre capitali privati. Pertanto, a coprire questo gap sono chiamate le Agenzie di cooperazione e i governi dei Paesi sviluppati, insieme a vari organismi multilaterali, in primis la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, e ai privati.
Le cifre
Alla Cop di Copenaghen del 2009, e poi nel summit di Parigi nel 2015, i Paesi sviluppati si sono impegnati a versare almeno 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2025. A oggi però questa quota non è mai stata raggiunta e solo negli ultimi anni si è arrivati a una cifra vicina – seppur inferiore – ai 100 miliardi. Nel 2021 sono stati mobilitati quasi 90 miliardi di dollari, dopo molti anni in cui i versamenti sono stati meno della metà di quelli previsti. Queste cifre sono però irrisorie se paragonate a quelle necessarie. L’High-Level Expert Group on Climate Finance (istituito nell’ambito delle Cop con il fine di proporre opzioni di policy e raccomandazioni per incoraggiare investimenti pubblici e privati necessari per conseguire gli obiettivi di Parigi) stima che entro il 2030 saranno necessari 2.400 miliardi di dollari di finanziamenti per i Paesi classificati come mercati emergenti e i paesi in via di sviluppo (EMDC), a esclusione della Cina, affinché possano raggiungere i loro obiettivi climatici, così come definiti negli NDCs, i Nationally determined contributions, ovvero gli obiettivi di mitigazione nazionale. In questo contesto, secondo l’Agenzia del Commercio dell’ONU (UNCTAD), sono quattro le priorità da affrontare. La prima e più urgente è rappresentata dalla riduzione del debito pubblico dei Paesi a basso reddito: il 60% di questi è infatti in difficoltà o sull’orlo di una crisi finanziaria e si stima che ogni anno spendano cinque volte di più per il debito che per l’adattamento al clima, minando la resilienza futura e le prospettive di crescita dello Stato. La seconda priorità è una riforma del Fondo Monetario Internazionale che preveda modi alternativi di impiegare i Diritti Speciali di Prelievo, al fine di massimizzare il loro impatto sul clima e sullo sviluppo, pur mantenendo i loro vantaggi come forma di liquidità priva di condizionalità e di debito. Si potrebbero anche prendere in considerazione approcci più ambiziosi, come per esempio nuove classi di attività dei Diritti Speciali di Prelievo con scopi specifici, come la resilienza climatica. La terza priorità è quella di migliorare l’efficacia delle varie banche di sviluppo, sostenute dai governi a tutti i livelli –multilaterale, regionale e nazionale– nel sostenere e finanziare i progetti climatici. Infine, la quarta priorità è quella di mobilitare i finanziamenti privati verso gli obiettivi climatici. Oltre all’uso di incentivi, è necessaria una disciplina sotto forma di misure normative per guidare gli investimenti e favorire l’allineamento dei flussi finanziari privati con gli obiettivi climatici delle Cop.
Sul tema abbiamo intervistato Avinash Persaud, inviato speciale per il clima delle Barbados, consigliere del primo ministro Mia Mottley e tra i promotori della Bridgetown Initiative, un progetto che prende appunto il nome della capitale del Paese caraibico e chiede una riforma finanziaria climatica all’interno dell’UNFCCC.
A oggi quali sono le principali criticità della finanza per il clima?
Uno dei motivi per cui i progressi su mitigazione e adattamento sono ancora troppo lenti è la mancanza di finanziamenti. La transizione verde e l’aumento della resilienza sono infatti attività ad alta intensità di capitale: occorrono molti soldi e subito. Per questo motivo negli ultimi anni l’azione climatica ha visto un’accelerazione più decisa nei Paesi sviluppati rispetto a quelli in via di sviluppo, dove il costo del capitale è più elevato. Ecco perché la finanza per il clima negli ultimi anni è passata dall’essere alla periferia del dibattito sul cambiamento climatico, all’essere il tema principale della prossima Cop. È importante anche evidenziare – e questo ha a che fare anche con il concetto di giustizia – un punto di vista storico: il cambiamento climatico odierno è causato dalle emissioni prodotte storicamente dai Paesi sviluppati, che si sono arricchiti, a partire dalla Rivoluzione industriale, anche inquinando l’atmosfera: oggi sono invece i Paesi in via di sviluppo ad aumentare la propria domanda di energia, anche per uscire dalla povertà.
Come si possono mobilitare i finanziamenti necessari per la transizione verde?
Attualmente esiste un divario tra i fondi necessari per la transizione ecologica dei Paesi a basso reddito, pari a circa 2.400 miliardi di dollari l’anno, e quelli oggi stanziati a livello globale, ovvero 200 miliardi di dollari. Per colmare questo gap occorre considerare tre categorie di investimenti climatici: la prima riguarda i progetti che generano ricavi; la seconda le iniziative che non lo fanno ma portano risparmi (per esempio, la costruzione di una diga: non è possibile far pagare l’accesso a una diga perché è un asset che deve proteggere tutti, ma è un progetto che fa risparmiare denaro perché limita le conseguenze degli eventi estremi climatici); la terza comprende progetti che non generano ricavi, non implicano risparmi ma comportano solamente dei costi.
A coprire questi tre gruppi di investimenti devono essere attori diversi. Più della metà dei 2.400 miliardi di dollari annui necessari per la transizione genereranno entrate e dovranno quindi essere mobilitati dal settore privato. Un’altra parte non genererà entrate, ma risparmi (nell’ordine di 1 a 7: per ogni dollaro speso oggi per l’adattamento climatico, se ne risparmieranno 7 in futuro) e andrà quindi presa in prestito dalle Banche Multilaterali di Sviluppo, usando i risparmi per pagare gli interessi. L’Italia è uno dei maggiori investitori delle Banche Multilaterali di Sviluppo. Della terza parte, in crescita, che comprende principalmente le spese per coprire le perdite e i danni che ammontano oggi a circa 150 miliardi di dollari l’anno, dovrà essere responsabile il settore pubblico perché queste spese non genereranno entrate né risparmi.
Cosa manca nel discorso sulla finanza per il clima?
Non concordiamo con i Paesi sviluppati sul fatto che tutta la finanza per lo sviluppo debba essere indirizzata verso progetti low-carbon. I Paesi in via di sviluppo, più esposti ai danni e alle perdite, necessitano di ingenti investimenti per progetti per l’adattamento, che per propria natura non sono a basse emissioni. Dobbiamo poter prendere in prestito denaro per essere resilienti; altrimenti saremo colpiti ancora tante e tante volte da questi disastri, affonderemo sotto oceani di morte mentre il livello del mare continua a crescere.
Quali sono le sfide in termini di finanziamenti secondo la Bridgetown Initiative?
L’iniziativa di Bridgetown, che le Barbados hanno contribuito a guidare, non riguarda solo le piccole isole, ma segue le trasformazioni del mondo. Pensiamo a grandi Stati emergenti, come India, Brasile, Sudafrica, Messico e Indonesia, come facciamo ad assicurare di far arrivare in quei Paesi soldi privati internazionali? Dobbiamo portare le Banche Multilaterali di Sviluppo a trovare dei modi per garantire gli investitori che scommettono su quei Paesi per progetti green. Quello aiuterà a portare il flusso di denaro. È anche necessario che le Banche di Sviluppo siano tre volte più grandi (triplicando i circa 100 miliardi di dollari che attualmente prestano). Per proteggere i Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico occorrono poi nuove forme di entrate, come per esempio un’imposta sulle emissioni del commercio marittimo e dell’aviazione. Senza questi finanziamenti, presto nel mondo ci sarà un miliardo di rifugiati climatici.