La COP28 e un anno da record
La 28esima edizione della Conferenza delle Parti, che riunisce ogni anno i leader mondiali per discutere di cambiamento climatico, è finita lo scorso 13 dicembre, tra applausi e critiche, chiudendo così un anno da (preoccupanti) record: il 2023, secondo i dati Copernicus, è stato infatti l’anno più caldo mai registrato.
Ogni COP comporta la negoziazione di numerosissime decisioni e dichiarazioni, che spaziano dalla scelta delle date e dei luoghi delle COP a venire, a guide o decisioni relative all’implementazione o alla governance di meccanismi precedentemente concordati, o, nelle COP più importanti, a nuove ambizioni sull’azione climatica.
Nella storia delle COP, alcune sono state importantissime: basti pensare alla COP3, dove è stato firmato il Protocollo di Kyoto, o alla COP21, che ha portato alla firma dell’Accordo di Parigi. Per la varietà dei temi trattati e per il tempo necessario per mettere d’accordo le 198 Parti (197 Stati più l’Unione Europea) firmatarie dell’UNFCCC, non ogni COP porta a delle decisioni mediaticamente (e diplomaticamente) rilevanti o con il potere di influenzare radicalmente il corso dell’azione climatica degli Stati. Questa COP aveva il potenziale di essere una di quelle da ricordare, nel futuro, in questa lista, e, in parte, così è stato.
La COP28, infatti, tra gli altri, aveva il compito di fare il primo bilancio globale dei progressi collettivi nella direzione del raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi del 2015, il cosiddetto Global Stocktake (GST). Questo documento, oltre a fare il punto sull’azione climatica, ha come obiettivo quello di offrire indicazioni alle Parti per aggiornare e migliorare a livello nazionale la loro ambizione climatica, in vista della presentazione dei nuovi NDC (le Nationally Determined Contributions – ovvero i documenti tramite cui i Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi dichiarano le proprie ambizioni climatiche e le proprie strategie di decarbonizzazione), che avrà luogo durante la COP30 a Belèm (Brasile) – un’altra COP da osservare con attenzione. Nel GST le Parti hanno concordato sul fatto che la rotta attuale porterà a un aumento delle temperature ben superiore al 1,5° dettati dall’Accordo di Parigi, e quindi sulla necessità di rinegoziare una serie di obiettivi per aumentare l’ambizione climatica. Allo stesso tempo, però, il linguaggio del testo finale contiene inviti all’azione molto limitati: dei 196 paragrafi la maggior parte utilizza verbi non operativi, come ‘richiama’, ‘nota’, ‘accoglie’, che non hanno implicazioni pratiche sulle azioni che i Paesi firmatari devono intraprendere.
Mitigazione
Nel fare il punto sui progressi collettivi in termini di riduzione globale delle emissioni in rapporto agli obiettivi climatici, il Global Stocktake ha sottolineato come le Parti non siano ancora collettivamente allineate al raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, ribadendo che «è necessario limitare [entro la fine del secolo] il riscaldamento globale a 1,5°C senza superarlo o con un superamento limitato» e richiedendo riduzioni delle emissioni globali «pari al 43% entro il 2030 e il 60% al 2035, raggiungendo il net zero a metà secolo».
In particolare, durante questa COP, molta attenzione è stata prestata alle emissioni diverse dalla CO2, e in particolare al metano, il secondo maggior responsabile del riscaldamento climatico dopo l’anidride carbonica. Infatti, sebbene meno presente nell’atmosfera (quasi 2 ppm – parti di unità di massa per milione di unità di massa totale –, contro le circa 420 ppm di CO2) e con una vita atmosferica molto più breve (circa dodici anni, contro i secoli della CO2), in termini di potere climalterante una tonnellata di metano equivale a 28-36 tonnellate di CO2 su un periodo di cento anni. Il GST invita a ridurre sostanzialmente le emissioni non-CO2, in particolare quelle di metano, a livello globale entro il 2030, senza però indicare un target di riduzione preciso.
La menzione del metano è particolarmente rilevante nel contesto di una COP che aveva tra i propri obiettivi quello di creare un accordo che tenesse dentro tutti gli Stati e i portatori di interesse, comprese le aziende Oil&Gas, che inevitabilmente dovranno essere al centro della transizione energetica e può essere letta come uno dei compromessi con i paesi produttori di idrocarburi. Infatti, del circa 60% delle emissioni di metano che hanno origine antropica, una buona parte proviene dal settore energetico, in cui le emissioni derivanti dalle operazioni di estrazione del petrolio e del gas possono essere ridotte in modo economicamente vantaggioso.
Uno dei punti su cui è mancato un consenso è stato l’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, che prevede diversi meccanismi per facilitare la cooperazione volontaria tra gli Stati per ridurre le emissioni di gas climalteranti tramite meccanismi di mercato e non. Nello specifico, le Parti non sono riuscite a raggiungere un accordo sugli articoli che dovrebbero governare i mercati del carbonio, che sono il 6.2, che regola i mercati interstatali, consentendo agli stati di scambiare bilateralmente i propri risultati in termini di mitigazione, e il 6.4, che riguarda la strutturazione di un mercato di crediti di carbonio da progetti internazionale.
I combustibili fossili sono stati, come previsto, uno dei punti più dibattuti nella negoziazione del Global Stocktake alla COP28. Al centro delle battaglie negoziali c’è stato quello che nella versione finale del GST è l’articolo 28, parte della sezione sulla mitigazione. Questo articolo indica alle Parti le strategie necessarie per raggiungere una riduzione «profonda, rapida e sostenuta» delle emissioni di gas a effetto serra in linea con l’obiettivo di 1,5°. Tra le due opzioni terminologiche discusse per i combustibili fossili, phase out, eliminazione, e phase down, riduzione, è stata scelta una terza opzione transitioning away, allontanarsi, con la precisazione in energy systems, che sembra lasciare aperte delle vie d’uscita per continuare a utilizzare i combustibili fossili in settori altri da quello strettamente energetico, come la produzione di plastiche o di fertilizzanti chimici.
Accanto all’allontanamento dai combustibili fossili, viene affermata la necessità di triplicare la capacità rinnovabile installata a livello mondiale e duplicare il tasso medio annuo globale di miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030. Con un approccio di neutralità tecnologica, viene posto come obiettivo l’accelerazione delle tecnologie a zero e basse emissioni, comprese, tra l’altro, le energie rinnovabili, il nucleare, le tecnologie di abbattimento e rimozione come la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, in particolare nei settori più difficili da decarbonizzare, e la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio.
Adattamento
Una delle decisioni più importanti che sono risultate dalla COP28 è un framework sull’adattamento, che ha il fine di orientare gli sforzi degli Stati verso la protezione di persone ed ecosistemi dagli effetti del cambiamento climatico. È stata infatti approvata una nuova decisione sul Global Goal on Adaptation (GGA), concordando un framework che i Paesi possono utilizzare per guidare i propri sforzi di adattamento, in cui sono stati inclusi diversi temi: acqua, cibo, salute, ecosistemi, infrastrutture, eradicazione della povertà, patrimonio culturale.
Uno dei temi più discussi è stata la (mancata) inclusione nel GGA di meccanismi di finanziamento dei programmi di adattamento per i Paesi in via di sviluppo. I flussi finanziari che dai Paesi sviluppati arrivano nei Paesi in via di sviluppo per l’adattamento, infatti, secondo le stime dell’UNEP, sono di 18 volte inferiori a quelli che sarebbero necessari.
Finanza climatica
Uno dei temi più dibattuti durante (e dopo) la COP28 è stato la finanza per il clima. A causa dello squilibrio tra responsabilità storiche delle emissioni ed esposizione agli effetti del cambiamento climatico tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo, nel contesto delle COP l’espressione “finanza per il clima” è spesso sinonimo di trasferimenti finanziari dai primi ai secondi.
Tra i vari fondi con questo obiettivo, durante la COP28 è stato operazionalizzato il fondo per le perdite e i danni (Loss and Damage Fund). Le Parti hanno concordato che il fondo sarà ospitato nella Banca Mondiale per almeno quattro anni, rimanendo però un’entità indipendente sotto il meccanismo finanziario dell’UNFCCC. Alla fine della COP28 questo fondo ha raggiunto 770,6 milioni di dollari, tramite i contributi di Paesi che su base volontaria hanno annunciato donazioni in diversa misura al fondo. Questo contributo, però, equivale a circa lo 0,2% dei bisogni annuali dei Paesi in via di sviluppo per le perdite e i danni, che sono stimati intorno a 400 miliardi di dollari.
Il testo del Global Stocktake ha inoltre sottolineato l’importanza di nuovi strumenti di finanziamento, affermando che «l’aumento di nuovi e ulteriori finanziamenti basati su sovvenzioni, agevolazioni e strumenti che non ricadono sul debito rimangono fondamentali per sostenere i Paesi in via di sviluppo, in particolare nella fase di transizione verso un’economia giusta ed equa. Viene riconosciuta una connessione positiva tra la disponibilità di un sufficiente spazio fiscale e l’azione per il clima». Si è così affermato nella narrativa delle Parti alla COP che per coprire il gap tra le risorse disponibili e quelle necessarie per i Paesi in via di sviluppo per raggiungere i propri obiettivi climatici (stimate a 2,4 mila miliardi di dollari entro il 2030 per i Paesi in via di sviluppo, Cina esclusa) sarà necessario non solo uno sforzo congiunto delle agenzie di cooperazione e dei governi dei paesi sviluppati, insieme ai vari organismi multilaterali, fra cui Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, ma anche una riforma dell’architettura finanziaria internazionale e strumenti finanziari innovativi. Questo tema sarà centrale durante la prossima COP e, prima, durante gli incontri primaverili delle banche multilaterali di sviluppo e il G7 e il G20.
Prospettive future
Sebbene la COP28 sia quindi risultata in un riconoscimento dell’urgenza della crisi climatica e della necessità di riformare il sistema energetico e quello finanziario per far fronte alle necessità di mitigazione e adattamento, è stata anche al centro di numerose polemiche, in particolare per la scelta di ospitarla in uno tra i maggiori Stati produttori di petrolio, e con un presidente, il Sultano Al Jaber, che oltre a essere ministro dell’Energia degli Emirati Arabi Uniti è amministratore delegato di Adnoc, la società statale di petrolio e gas.
Il dito dei media rimarrà probabilmente puntato sul ruolo delle aziende Oil&Gas anche l’anno prossimo. La COP29, infatti, avrà sede dall’11 al 22 novembre 2024 a Baku, in Azerbaigian, uno Stato che ricava circa due terzi delle sue entrate dai combustibili fossili. A presiederla sarà una figura molto simile al Sultano Al Jaber: il ministro dell’Ambiente Mukhtar Babayev, che ha alle spalle ventisei anni in Socar, la società azera di idrocarburi, dove ha lavorato come vicepresidente per gli affari ecologici, con il compito però di tentare di limitare e recuperare i danni ambientali causati dall’azienda. L’approccio alla questione climatica appare in qualche modo simile nella forma a quello del presidente della COP emiratina: cambiare l’atteggiamento delle aziende di idrocarburi nei confronti dell’ambiente, pur continuando a sviluppare la produzione di petrolio e gas. A differenza del Sultano Al Jaber, però, Babayev è un nuovo arrivato nella diplomazia del clima, così come il giovanissimo negoziatore che ha selezionato, Yalchin Rafiyev: sembra infatti che il vice-ministro degli Esteri, di trentasei anni, abbia partecipato per la prima volta a un vertice sul clima all’incontro di Bonn del 2023.
La COP29, però, si terrà in un contesto politico internazionale sempre più teso. Il suo risultato (e ancor più quello della COP30 a Belèm nel 2025, dove i Paesi dovranno presentare le loro nuove ambizioni climatiche) sarà fortemente influenzato da come andranno le tornate elettorali dei prossimi mesi. Il 2024 sarà un anno elettorale storico, con elezioni in 50 Paesi (tra cui Stati Uniti, India, Messico e Sudafrica, ma anche nell’Unione Europea e in alcuni suoi stati membri) che porteranno alle urne più di due miliardi di elettori. In un contesto politico polarizzato, in particolare sulla questione climatica, i risultati di queste elezioni saranno cruciali per determinare l’orientamento dei governi, la loro narrativa sul clima e la loro postura nei negoziati internazionali.