Siccità è la parola più ricorrente in questo periodo. La preoccupazione è grande. Ieri era solo un problema di altri, dei Paesi del Sud del mondo distanti e con un regime climatico diverso. E poi, non siamo il Paese che ha più giorni e corsi d’acqua di ogni altro paese europeo. Peccato che la carenza di infrastrutture, più volte denunciata, è rimasta tale e le perdite di distribuzione dell’acqua messa in rete ammontavano nel 2020 al 42%.
Ci sono voluti due anni di precipitazioni scarse perché ci si rendesse conto che l’acqua non è una risorsa sempre a nostra disposizione e che quindi va ‘governata’, specialmente oggi che le anomalie meteorologiche sono da ascrivere tra gli effetti più considerevoli del cambiamento climatico.
Il testo di James G. Ballard che presentiamo contiene alcune delle più efficaci pagine del suo romanzo di fantascienza The Drought uscito nel 1965. Ballard è stato uno dei maggiori esponenti della new wave della fantascienza inglese degli anni Sessanta, convinto di aver trovato in quel genere il registro giusto per il suo immaginario.
Alla fine di quel decennio, la svolta. Dichiarò che la fantascienza dopo i primi passi di Armstrong sulla luna era stata raggiunta dal ‘presente’, realtà molto più interessante di ogni altra storia che si svolgerà in altri pianeti tra un migliaio di anni.
Secondo Ballard, «la fantascienza aveva previsto tutto in anticipo» e quindi il futuro era diventato «troppo noioso», prevedibile. Perché non occuparsi degli spazi mentali umani, dello «spazio situato nella nostra testa». E seguendo questa linea è stato lui stesso a definire questa svolta nel suo lavoro: «Sono un meteorologo del tempo psicologico».
The Drohut appartiene ancora alla fase in cui Ballard parla del futuro possibile come efficiente chiave di accesso al presente: un mondo con fiumi in secca, laghi svuotati, mari acidi e dove ogni forma di vita fa fatica a sopravvivere. (PA)
La siccità che affliggeva il mondo ormai da cinque mesi era al culmine di una serie di prolungate siccità che avevano colpito con sempre maggiore frequenza tutto il globo durante il decennio precedente. Dieci anni prima si era verificata una terribile carestia mondiale quando le precipitazioni stagionali, attese in alcune importanti zone agricole, non si erano verificate. A una a una, regioni distanti tra loro come il Saskatchewan e la vallata della Loira, il Kazakhstan e la zona coltivata a te intorno a Madras, si erano trasformate in distese di polvere. Nei mesi successivi erano caduti solo pochi centimetri di pioggia, e due anni dopo quelle terre erano diventate completamente desertiche. Le popolazioni si erano trasferite altrove, e i nuovi deserti erano stati abbandonati a sé stessi.
Il moltiplicarsi di queste zone aride, e la difficoltà sempre maggiore di compensare le riserve alimentari mondiali, aveva consigliato la creazione di un controllo meteorologico mondiale.
Un rapporto dell’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura delle Nazioni unite aveva dimostrato che il livello dei fiumi e di tutte le acque era in diminuzione ovunque. I sei milioni e mezzo di chilometri quadrati irrigati dal Rio delle Amazzoni si erano ridotti di meno della metà. Decine di suoi affluenti si erano inariditi completamente, e ricognizioni aeree avevano mostrato che buona parte della foresta pluviale si era già inaridita e pietrificata. A Karthum, nel Sudan, il Nilo Bianco era di sei metri sottoil livello del minimo di dieci anni prima ed erano aperti sbocchi più bassi nello sbarramento di cemento della diga di Assuan.
Malgrado i tentativi da parte di tutte le nazioni per provocare la pioggia, le precipitazioni erano diventate sempre più scarse. Infine, quando era stato chiaro che non poteva piovere perché non c’erano nuvole, non si era più tentato niente. A questo punto l’attenzione era stata rivolta all’originaria fonte di pioggia, la superficie dell’oceano, da cui l’acqua avrebbe dovuto evaporare. Era bastato un superficiale esame scientifico per capire che le origini della siccità andavano ricercate proprio lì.
Si era scoperto che sulla superficie delle acque di tutti gli oceani del mondo, a una distanza di circa millecinquecento chilometri dalla costa, si stendeva una sottile ma elastica pellicola monomolecolare formata da un complesso di polimeri saturi a catena lunga, sviluppatasi a causa dell’enorme quantità di rifiuti industriali scaricata negli oceani durante i cinquant’anni precedenti. La robusta membrana, permeabile all’ossigeno, era distesa sul pelo dell’acqua e ne impediva quasi completamente l’evaporazione.
Benché la struttura di questi polimeri fosse stata presto identificata, non si era trovato il modo di rimuoverli. Le concatenazioni sature prodotte nel perfetto bagno organico costituito dal mare erano del tutto inattive e formavano un sigillo perfetto, che si rompeva solo quando l’acqua veniva disturbata in modo violento.
Flotte di navi e motopescherecci equipaggiati con flagelli rotanti avevano cominciato a spostarsi su e giù lungo le coste del Pacifico nell’America del nord, e lungo quelli dell’Europa occidentale, ma senza ottenere effetti durevoli. Anche la rimozione di un’intera superficie dell’acqua aveva dato solo un vantaggio temporaneo…la pellicola si riformava in pochissimo tempo per estensione laterale delle aree vicine.
Il meccanismo di formazione di questi polimeri rimaneva oscuro, ma milioni di tonnellate di rifiuti industriali altamente reattivi (particelle di petrolio, catalizzatori contaminati e solventi) venivano ancora gettati in mare, dove si mescolavano con i materiali di scarico delle centrali atomiche e con le acque di scolo. Da questa miscela, il mare ricavava quella pellicola spessa solo pochi atomi, ma robusta a sufficienza per devastare le terre che una volta esso irrigava1.