Se il senso comune vuole che il compito della scienza sia studiare o conoscere la natura, da decenni la sociologia della scienza ci ha mostrato che il modo di conoscere la natura è da sempre stato intervento sulla natura stessa. Divenendo così problematica qualsiasi disputa essenzialista su ciò che sia la natura e ciò che possa essere considerato naturale, il problema come aveva ben detto Latour, rifacendosi al repertorio dei movimenti ecologisti, era quindi di trovare una nuova definizione di ‘politica della natura’ 1.
A vari cicli di mobilitazione, i movimenti ecologisti hanno posto nella pratica tali questioni, mostrando il legame tra scienza e tecnologia, come strumento di conoscenza e trasformazione della realtà, e i gruppi sociali che definendone strumenti e finalità garantivano un certo ordine e un certo funzionamento della società. Se durante gli anni del ‘keynesianesimo scientifico’ – grandi investimenti statali in scienza e tecnologia – la critica eco-pacifista si dirigeva verso quello che si definiva il complesso militare-industriale, a oggi, in un’epoca di neoliberismo scientifico, quel tipo di critica si è rinnovata verso sfide che la tecno-scienza definita dalle grandi corporation ha esteso con le biotecnologie dall’ambiente naturale – la biodiversità – alle forme di vita più intime – la singolarità della natura umana.
Nel mostrare l’entità insieme globale e locale di numerose questioni ambientali, l’arcipelago dei nuovi conflitti locali ha visto emergere nei primi decenni degli anni Duemila nuove reti di comitati di cittadini, movimenti e organizzazioni ambientaliste che hanno riproposto il tema del rapporto specifico tra attivismo e conoscenza scientifica, tra rappresentanza e competenza scientifica sul tema della natura.
In molti casi però, il dibattito pubblico si è limitato a riproporre categorie antiquate, dove le letture di questi bisogni di democrazia ambientale proponevano ipotesi semplicistiche come la ‘sindrome’ Nimby, a tratti declinata come ‘egoismo’ (mancanza di senso civico) o ‘psicologismo’ (paure irrazionali verso la tecnologia). A tale lettura, spesso si accompagnavano distinzioni di campo dove a un non definito ‘ambientalismo ideologico’ veniva opposto un non di meno deterministico ‘ambientalismo scientifico’ – come se la scienza fosse un fenomeno così univocamente definibile.
Letture che, anche se viste al di fuori dell’agone degli interessi in gioco, non risultano adeguate a rendere conto in maniera chiara dell’intrinseco rapporto di co-produzione tra domanda scientifica e domanda politica nelle odierne questioni ecologiche, ancor di più in un modo di produzione tipico dell’attuale fase di ‘neoliberismo scientifico’ dove la cosiddetta ‘tecno-scienza’, quell’unione sempre più organica tra ricerca scientifica e applicazione tecnologica, comporta impatti diretti sul concetto stesso di vita, sull’idea di presenza umana sulla Terra, su ciò che consideriamo ‘naturale’ e ciò che può essere quindi modificabile e mercificabile.
Il rapporto tra scienza e movimenti sociali conta numerosi casi ed esperienze, tali ormai da considerare necessaria una sociologia politica della scienza che si focalizzi sulle dimensioni sociali della produzione di sapere e che vada al di là di un focus sugli scienziati stessi, per valutare il ruolo dei pubblici coinvolti, e le loro ‘expertise laiche’ nella co-produzione. È il caso dell’ ‘epidemiologia popolare’ americana e del suo ruolo fondamentale nel porre il tema della giustizia sulla nocività ambientale.
Le questioni ecologiche ci mostrano che non esiste questione che non sia insieme locale e globale, legando esperienze e saperi locali con saperi professionali, quadri teorici e politici che spieghino in aggregato il cambiamento climatico, la finitezza delle risorse, i rischi per la sopravvivenza umana sulla Terra.
Nonostante per molti anni sia circolata una lettura parziale e ideologica dei conflitti ambientali locali, l’arcipelago di comitati spontanei sorti attorno a progetti infrastrutturali – altrimenti detti ‘Grandi Opere’ – non sono mai stati isole localmente atomizzate, egoistiche o psico-logistiche, irrazionali opposizioni al progresso tecnologico.
Sono semmai da sempre state parte, per l’appunto, di un ‘arcipelago verde’ assai peculiare, di non facile collocazione all’interno della varietà di culture verdi storicamente emerse a livello globale quanto locale.
In Italia, la diffusione di questi movimenti locali contro le grandi opere va spiegata attraverso due dimensioni generali, una di tipo strutturale e l’altra più processuale e politica. La prima, ha a che vedere con il tessuto di risorse associative e di identità locali radicate in una lunga storia di comunione tra patrimonio storico-culturale e naturale che sono i territori e che costituiscono la struttura civica di un Paese fatto di piccoli comuni. Questa prima dimensione si intrecciava con la mancata risposta governativa a una seconda crescente esigenza che si registrava a livello globale: la necessità di innovazione procedurale e politica, attraverso nuovi strumenti, per rispondere alla complessità della pianificazione dello sviluppo territoriale e ambientale e che richiedeva nuove forme di controllo democratico da parte di comunità locali e territori.
Gli anni Duemila però sono inaugurati dalla legge Obiettivo del 2001 che, escludendo le autorità locali dalla partecipazione e dal dibattito su progetti infrastrutturali a impatto ambientale, andava in chiara controtendenza con i nuovi standard delle democrazie contemporanee che anche a livello europeo chiedevano nuove forme di trasparenza, diritti di informazione e partecipazione 2.
E pensare che invece il tema dei nuovi strumenti di partecipazione nel governo del territorio aveva animato il dibattito dei movimenti ambientalisti già a inizio anni Ottanta, con molteplici e diverse sperimentazioni, dal dibattito sulla ‘valutazione costruttiva delle tecnologie’ elaborato da scienziati critici olandesi, fino alle esperienze di bilancio partecipato a Porto Alegre, pietra miliare dell’innovazione democratica nata dalla fusione tra scienziati sociali e politici e militanti progressisti brasiliani. Innovazioni che avevano già da tempo trovato una traduzione in nuove forme di governo incentrate su nuovi criteri di maggior trasparenza, estensione della partecipazione e controllo democratico della rappresentanza.
E se già dopo poco tempo poteva risultare addirittura ‘critico’ il successo delle nuove forme di democrazia partecipativa la cui grande diffusione pone oggi il tema della distinzione tra forme autenticamente democratiche e strumentali 3, figurarsi quindi come potesse giustificarsi la legittimità di sistemi politici come quello italiano che sulle opere infrastrutturali operava una netta restaurazione verso un sistema chiuso alla partecipazione.
Già nel 1995 in Francia era stata creata la Commission Nationale du débat public per effetto della legge Barnier, che sanciva la necessità di trovare nuove modalità di partecipazione su questioni d’interesse pubblico riguardanti i territori e le comunità locali. Per quanto discussa e forse persino giudicata come parziale, essa complementava l’azione pubblica dello Stato su questioni che intrecciavano sia problemi di ‘democrazia tecnica’ 4 – come far entrare scienza e tecnologia in democrazia – e di ‘democrazia della prossimità’ – come risolvere conflitti tra interessi dello Stato e dei territori.
Nel 1998 la Convenzione di Aarhus formalizzava a livello europeo i principi di informazione e partecipazione pubblica ai processi decisionali e di accesso alla giustizia in materia ambientale. Con la Legge Obiettivo del 2001 ad opera del governo Berlusconi, l’accentramento delle competenze rendeva più opachi i criteri di progettazione, riduceva le forme di controllo, rendendo marginali le procedure di valutazione d’impatto ambientale e conferendo al general contractor incaricato di realizzare l’opera il potere di valutarsi da sé 5.
È in queste condizioni che va dunque spiegato la dinamica di diffusione di reti di mobilitazione locale diffuse sui territori italiani, così come la conflittualità che portava a intraprendere nuove relazioni tra attivismo ed expertise a livello locale, a contrario di ideologiche letture su presunti deficit civici o sindromi Nimby. Mettendo a fuoco la politicità dentro la tecnicità di numerose questioni ecologiche, ecco che l’expertise di questi comitati e movimenti metteva in luce tutti i limiti di una democrazia che ancora doveva affrontare un serio dibattito sulla ridefinizione dei rapporti tra politica e scienza, evitando il ricorso a opzioni tecnocratiche che nascondono opache finalità politiche e sociali, andando oltre il determinismo di ciò che dietro vaghi appelli sulla ‘non democraticità della scienza’ offrono letture monolitiche.
Che si tratti di nuovi progetti di rigassificatori o di nuove strategie di contrasto al surriscaldamento globale, le questioni ecologiche odierne ci chiedono dunque di andare oltre queste tendenze alla polarizzazione e di ripensare simmetricamente tecno-scienza e democrazia nel loro carattere controverso, aperto all’incertezza, invitando a forme di dialogo ispirate al principio di precauzione e all’umiltà scientifica in grado di garantire quella trasparenza che è insieme valore delle forme più avanzate di scienza e democrazia.
Note
- B. Latour, Politiques de la nature. Comment faire entrer les sciences en démocratie, La Découverte, Paris, 1999
- In Italia, uno dei rari ed interessanti esperimenti che andarono in direzione di una democrazia deliberativa fu la legge approvata dal Consiglio Regionale della Toscana nel 2007 come Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali. Esperimento che però, oltre a rimanere piuttosto isolato a livello locale, è stato poco applicato sulle principali e più rilevanti questioni territoriali.
- G. Baiocchi ed E. Ganuza, Popular Democracy. The Paradox of Participation, Stanford, University Press, Stanford, 2016.
- Y, Barthes, M. Callon e P. Lescoumes, Agir dans un monde uncertain. Essai sur la démocratie technique, Le Seuil, Paris, 2001
- La legge verrà abrogata nel 2016 con l’istituzione di un nuovo codice per gli appalti, dopo essere stata definita ‘criminogena’ dall’Autorità nazionale per l’anticorruzione Raffaele Cantone.