Cop 27. Appuntamento con scarse aspettative. Una governance delicata

Il sistema di raccolta del consenso tra i Paesi non aiuta, ma forzare l’unanimità non ha dato buoni risultati.

pale eoliche e transizione energetica

Autore

Alessandro Lanza

Data

14 Novembre 2022

AUTORE

TEMPO DI LETTURA

4' di lettura

DATA

14 Novembre 2022

ARGOMENTO

CONDIVIDI

Parole chiave Politiche, Ambiente, Cambiamento climatico

Puntuale come l’inizio del campionato di calcio o come il giorno della Befana da 27 anni a questa parte, più o meno in questa stagione, si celebra il rito della COP. Dovrebbe essere noto che l’acronimo COP sta per Conference of Parties dove per Parti si devono intendere i paesi che firmarono la convenzione quadro sui cambiamenti climatici nel 1992 a Rio de Janeiro. Considerata la complessità del documento firmato in Brasile e il fatto che si trattasse di una accordo quadro, i paesi firmatari decisero saggiamente di incontrarsi una volta all’anno attraverso questo meccanismo – ribattezzato per l’appunto COP – per cercare di addivenire a soluzioni più avanzate, cercare di finalizzare meglio il documento e gettare le basi per accordi più precisi, maggiormente vincolati, più cogenti rispetto al risultato da raggiungere ovvero il controllo delle emissioni di anidride carbonica e di altri gas serra causa fondamentale del cambiamento climatico.


Non è questa la sede per ripercorrere tutta la storia lunga be tortuosa delle COP. Alcune sono più importanti di altre. Anzi: qualche COP va ricordata per i risultati che è riuscita a conseguire (COP 3, per esempio, che si tenne a Kyoto nel dicembre del 1997 da cui scaturì il celebre protocollo), oppure Parigi (COP15), i cui positivi risultati devono ancora dispiegarsi pienamente.
Altre, molte altre, andrebbero semplicemente dimenticate. Le ragioni per la quale si creano queste dinamiche di successo e di insuccesso sono presto dette. Si tratta di incontri di natura tecnico-politica in cui la situazione specifica dello stato della politica di ogni singolo Paese conta. Dopo il protocollo di Kyoto (firmato per gli Stati Uniti da un’amministrazione democratica e nonostante questo mai sottoposto all’approvazione del Congresso per la certezza che sarebbe stato bocciato), venne un decennio di amministrazione repubblicana con George W. Bush che per molti anni non ha voluto far assumere agli Stati Uniti la leadership sui temi del cambiamento climatico. Date le dimensioni e l’importanza sul quadro già strategico complessivo di questo Paese, era questo che ci si aspettava. Vanno anche considerate le posizioni di politica interna di ogni singola amministrazione. L’amministrazione Bush ha gestito la tragedia dell’attentato alle le torri gemelle e la guerra del Golfo e ben si comprende dunque che l’attenzione dell’opinione pubblica non era proprio rivolta al tema del cambiamento climatico.


Questa alternanza delle amministrazioni, almeno nei paesi democratici, ha decisamente creato una altalena di posizioni politiche che hanno finito per influenzare, come nel caso degli Stati Uniti, l’insieme della negoziazione. E non bisogna nemmeno ricorrere alle celebri sciocchezze di Trump sul cambiamento climatico (‘New York is freesing. What the hell hell is going on with Global Warming? Please come back fast, we need you’) per riconoscere un’amministrazione che in quattro anni di potere ha minato tutte le conquiste fatte dagli Stati Uniti sul tema, riuscendo a uscire dal negoziato sul clima sabotandone in ogni modo i possibili successi.

Il presidente Biden ha cercato di metterci riparo ma è evidente che le elezioni di medio termine stanno condizionando la posizione gli Stati Uniti nel corso della COP 27 che in questi giorni si sta tenendo in Egitto. Tutti i Paesi, e non solo gli Stati Uniti, cambiano amministrazione di tanto in tanto e questo ha provocato un rallentamento nella formazione di un’opinione forte sul tema del cambiamento climatico. I progressi ci sono, ma sono molto lenti, troppo lenti, rispetto alle necessità del mondo. Non aiuta nemmeno il sistema di raccolta del consenso tra Paesi: le Nazioni Unite trovano un loro accordo per ‘consenso’, ovvero i Paesi devono essere tutti d’accordo (per unanimità e non per maggioranza). Quando l’amministrazione americana durante la conferenza di Copenhagen cercò di forzare questa architettura proponendo un accordo sostanzialmente con quattro parti, ovvero Stati Uniti, Cina, India e Unione Europea, l’accordo fallì miseramente, la conferenza venne ribattezzata Flopenhagen: il multilateralismo continua ad imperare.


Difficile poter riassumere quali siano le aspettative connesse a questa riunione. Come spesso accade l’agenda è lunga e complessa, ma volendola sintetizzare esistono dei temi generali, su cui si ritorna spesso e volentieri, per esempio i sistemi in cui i Paesi industrializzati dovrebbero ripagare quelli in via di sviluppo per i danni creati al clima. Esistono anche temi specifici: quest’anno per esempio sarà presumibilmente una COP orientata ai tempi dell’Africa.


Riguardo agli assenti, spicca il nome di Greta Thunberg: per l’attivista svedese la Cop è solo greenwashing. Sembrava non dovesse partecipare neppure il premier britannico Rishi Sunak, che invece alla fine ci sarà, probabilmente in seguito alle pressioni internazionali e del suo stesso partito. L’inversione di marcia potrebbe aprire la strada alla presenza di re Carlo, cui la ex premier Liz Truss aveva chiesto di non partecipare. Presenti anche Joe Biden e John Kerry (inviato speciale per le questioni sul clima degli Stati Uniti), assente Xi Jinping. Annunciata la star Leonardo Di Caprio, che tornerebbe dopo l’apparizione dell’anno scorso.


Dal punto di vista dei fondi messi a disposizione va sottolineato che – come altri Paesi – l’Italia ha annunciato una dotazione da 840 milioni di euro l’anno per cinque anni, progetto che è stato presentato ufficialmente proprio a Sharm durante la COP alla quale ha partecipato la premier Giorgia Meloni. La leader sarà chiamata nei prossimi mesi a esprimere coi fatti il peso che la questione climatica avrà nel suo esecutivo, considerando che il programma elettorale comune del centrodestra era piuttosto vago al riguardo.

Leggi anche
Clima
Coordinate
6′ di lettura

Choke points

di Sergio Vergalli
Clima
Orme
3′ di lettura

Alfredo Todisco e la «Primavera dell’ecologia»

di Alessandra Favazzo
Clima
Editoriali
7′ di lettura

Performance scolastiche degli studenti e caldo estremo

di Rosario Maria Ballatore, Alessandro Palma, Daniela Vuri
Economia
Viva Voce

Abbigliamento circolare per l’outdoor

di Giulio Piovanelli
5′ di lettura
Scienza
Viva Voce

La bioeconomia che verrà

di Stefano Bertacchi
4′ di lettura
Società
Viva Voce

La sfida delle monete complementari italiane 

di Cristina Toti
8′ di lettura
Scienza
Viva Voce

Virus biotech per la medicina

di Stefano Bertacchi
5′ di lettura
Clima
Viva Voce

Recupero di terre rare da RAEE: progressi e criticità

di Sergio Corbetta, Enrico Folin
5′ di lettura
Società
Viva Voce

Diari di apartheid. La città a due volti.

di Gloria Ballestrasse
4′ di lettura

Credits

Ux Design: Susanna Legrenzi
Grafica: Maurizio Maselli / Artworkweb
Web development: Synesthesia