I limiti di capacità della transizione energetica

Il processo di decarbonizzazione implica una forte elettrificazione del sistema produttivo. La sostituzione fossili-rinnovabili non avviene in modo sufficientemente veloce. Le cause sono diverse.

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Sergio Vergalli

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17 Giugno 2025

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17 Giugno 2025

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Londra, 1911, piazza del Parlamento. Una leggera nebbia confonde lo sguardo e raffredda le ossa. Alcune carrozze nere transitano al lato della strada. Le ruote incedono nel selciato, sollevando alcune gocce di acqua che poi scendono e volteggiano lungo i raggi. Due donne con un cappello bianco e gonne lunghe e scure, conversano camminando lentamente. Sullo sfondo il palazzo di Westminster ed il Big Ben. La figura di un uomo di spalle si staglia a fianco della Torre dell’Orologio. Indossa una tuba, un soprabito scuro e nella sua mano destra afferra saldamente un bastone. Nella sinistra volteggia alcuni fogli con scritti vari numeri e mappe geografiche. Il suo nome è Winston Churchill ed è attualmente il Primo Lord dell’Ammiragliato britannico, il capo politico della Royal Navy, la marina militare del Regno Unito. Sta dirigendosi verso il Parlamento. In pochi anni rivoluzionerà il trasporto navale. Ma non solo. 

Mosul, 1911. Nella sabbia ocra spazzata dal vento torrido, delle donne con indosso le loro abaya scure, camminano portando sul capo alcune ceste. Il cocente sole disegna una scacchiera di luci e ombre fra le case. Sullo sfondo la Grande Moschea di al-Nuri: il suo minareto sembra piegarsi all’incedere del tempo. La città della Mesopotamia, presso la quale transitò anche Marco Polo verso la seconda metà del XIII secolo, è sotto il dominio dell’Impero Ottomano e il suo destino è in parte disegnato nei fogli e nelle mappe che Churchill sta portando a Westminster. 

Nel 1911 Churchill temeva che il rafforzamento della flotta tedesca avrebbe ridotto l’egemonia inglese sui mari. Per tal motivo si convinse che fosse necessario rafforzare la Royal Navy e, fra le varie migliorie introdotte, decise di far modificare i motori di tutte le navi, passando dal combustibile a carbone alla nafta, un derivato del petrolio. Uno studio condotto su sua richiesta aveva concluso che il nuovo combustibile avrebbe permesso di raggiungere una velocità di 25 nodi, contro i 21 nodi che si potevano ottenere col carbone. Oltre a ciò, il petrolio avrebbe garantito alle navi una maggiore autonomia e flessibilità logistica. La nafta infatti ha delle caratteristiche che la rendevano preferibile rispetto al carbone: ha una maggiore densità energetica, cioè produce maggiore energia per unità di volume ed è più facile da trasportare e distribuire, dato che è una risorsa che si presenta in forma liquida. Per percorrere un determinato tragitto una nave alimentata a carbone avrebbe necessitato una maggiore quantità di carburante. Questo implicava che in tratte molto lunghe, bisognava fare molte soste per l’approvvigionamento del propellente ed era importante avere molti porti sicuri in cui avere dei depositi di carbone. E l’impero britannico era molto vasto da controllare. La nafta ridusse quindi il numero di soste, garantendo una maggiore velocità di crociera e un miglior controllo dei mari. La scelta fu vincente perché rese la Royal Navy superiore alla marina tedesca ma non fu priva di problemi. Infatti la Gran Bretagna aveva molta disponibilità di carbone ma nessun giacimento petrolifero. Tutto l’oro nero utilizzato veniva importato dagli Stati Uniti. Questa carenza implicò, nel 1912, un allargamento degli interessi del Regno Unito verso nuovi territori, in particolare verso l’area della Mesopotamia, a seguito della scoperta dei primi giacimenti di petrolio nelle province di Mosul e Baghdad, facenti parte dell’Impero Ottomano. Successivamente Churchill, nel giugno del 1914, propose alla Camera dei Comuni l’insolita decisione di entrare negli affari petroliferi e di acquistare la maggioranza assoluta della società britannica Anglo-Persian Oil Company (APOC). Il governo britannico condivise la proposta ed acquistò il 51% della APOC, che noi ora conosciamo con il nome di BP. La partecipazione governativa in una società privata fu un evento senza precedenti per l’Inghilterra (se si esclude l’acquisizione della Compagnia del Canale di Suez, ma questa è un’altra storia) perché andava contro i principi della libera concorrenza. 

Da questa decisione così importante emergono alcune riflessioni in merito alla transizione energetica. La prima è relativa al concetto di ‘sicurezza energetica’ tornato prepotentemente in auge dopo la crisi Russo-Ucraina ma che, di fatto, è sempre rimasto nell’agenda della geopolitica globale. L’energia è talmente importante per le scelte economico-politiche di un Paese, che spesso diventa necessario portarla sotto il controllo del Governo, in modo da garantirne costante accessibilità. 

La seconda riflessione riguarda l’idea di sostituire una risorsa energetica con un’altra. È possibile farlo, in genere, se si riesce ad avere sufficiente disponibilità di una fonte alternativa e se si ha la tecnologia necessaria per favorire una sostituzione in tempi mediamente brevi. Ovviamente, maggiore è la scala della modifica da apportare, maggiori saranno tempi e difficoltà. Dal punto di vista economico la sostituzione è facilitata se si passa a una risorsa più performante che produce più energia con minori costi e che garantisce maggiore flessibilità. Così è avvenuto nel passaggio da carbone a petrolio. Più complicato è invece il processo inverso, cioè muoversi verso una risorsa con minore densità energetica. Rifletteremo su questo punto nel corso dell’articolo. Una terza riflessione riguarda la fattibilità dell’obiettivo: quanto esso sia realmente raggiungibile. Talvolta, infatti, vengono identificati dei target ambiziosi che servono come stimolo per un miglioramento. Un ulteriore punto è relativo all’urgenza dell’azione, al potere di convincimento o coercitivo di chi impone la scelta e alle conseguenze relative ad un fallimento. Nel caso della Royal Navy, il rischio era perdere in breve tempo il controllo dei mari, cioè la principale fonte di ricchezza dell’Inghilterra. Con tutte le dovute proporzioni, questo aneddoto ci porta a riflettere sugli obiettivi che le autorità definiscono per perseguire la transizione energetica. Il più noto è la riduzione a zero delle emissioni nette in Europa entro il 2050 (il cosiddetto Net Zero Emission). Abbiamo sufficienti risorse e tecnologie per sostituire gran parte delle fonti fossili? Sicuramente il tempo a nostra disposizione oggi sembra sufficiente ma la crescita economica spinge la domanda e, al momento, l’offerta di energie rinnovabili non sembra riuscire ad accelerare in modo adeguato. Ci sono infatti alcuni elementi che rallentano il processo e che potrebbero altresì non permettere il pieno perseguimento dell’obiettivo. Raggruppiamo queste casistiche sotto la definizione di ‘vincoli di capacità’. Con questo termine alludiamo a tutte quelle forme di attrito che possono verificarsi nella sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili e nel processo di decarbonizzazione che implica necessariamente una forte elettrificazione del sistema economico. I vincoli possono essere di carattere geografico quando la sostituzione di una fonte fossile con una rinnovabile comporta l’utilizzo di una maggiore superficie, passando da una risorsa a maggior densità energetica, come gas o petrolio, a una caratterizzata da una minore densità, come l’eolico, o il fotovoltaico. Per dare qualche riferimento, svolgiamo un semplice esercizio teorico: se volessimo coprire tutta l’energia elettrica consumata in Italia esclusivamente con quella prodotta dal fotovoltaico dovremmo utilizzare una superficie di circa 2300 kmq, circa 2/3 della Val d’Aosta. In realtà ne servirebbe anche di più, perché, a causa dello sbilanciamento di produzione fra estate e inverno nella stagione calda occorrerebbe produrre abbastanza da compensare il calo invernale, per esempio convertendo l’elettricità in idrogeno e poi riutilizzandolo quando di sole ce n’è meno. E non è detto che sia così semplice riuscire a distribuire i pannelli sulla penisola italiana perché non tutte le zone sono disponibili, sia perché sono aree boschive o impervie oppure aree a forte urbanizzazione con vincolo paesaggistico, etc. In ogni caso la superficie da utilizzare per la produzione energetica è molte volte più grande dello status quo: a titolo di esempio, a parità di energia prodotta un impianto fotovoltaico occupa circa 20 volte la superficie di una centrale a gas. Ovviamente si tratta di un esercizio puramente speculativo ma che fa riflettere sui tempi e i problemi della sostituzione. Un calcolo corretto dovrebbe tenere in considerazione di tutte le specificità delle fonti energetiche la cui efficienza differisce a seconda dell’area geografica, delle condizioni del territorio, degli aspetti ambientali, dell’urbanizzazione, e così via. Per dare qualche esempio, per l’eolico onshore il suolo potenzialmente occupato può variare di molto a seconda che si consideri solamente l’area effettivamente occupata dalle turbine oppure si tenga conto anche dell’area necessaria per distanziare le turbine tra loro in un unico sito. Un discorso simile si potrebbe fare anche per il fotovoltaico a terra in quanto, per esempio nel caso dell’agrivoltaico, il terreno non è del tutto ‘occupato’ oppure per il fotovoltaico sui tetti, dato che, in questo caso non si calcolerebbe una ulteriore occupazione del suolo, essendo già utilizzato per le abitazioni. Resta comunque il fatto che non tutto il territorio che si crede sia disponibile lo è effettivamente e di conseguenza c’è una profonda differenza tra la capacità installata potenziale e reale. Oltre a ciò ci sono vincoli di tipo dinamico. Gli obiettivi di decarbonizzazione fissati in Italia per il 2030, come delineato nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), implicherebbero infatti l’installazione di nuova capacità di fotovoltaico ed eolico rispettivamente di 7GW e 2 GW annui, mentre per il 2025-2026 le stime parlano di installazioni pari a circa 1 – 1,5 GW all’anno per il fotovoltaico e a 400 – 500 MW per l’eolico. La sostituzione nel tempo tra rinnovabili e fossili non si muove quindi sufficientemente veloce. Alcune cause sono da ricercare nei problemi relativi al permitting, cioè tutte le attività volte ad ottenere le necessarie autorizzazioni per realizzare nuovi progetti o apportare modifiche a impianti o stabilimenti esistenti e/o in esercizio, in conformità ai requisiti della legislazione italiana e in linea con gli standard internazionali. Un ulteriore rallentamento è dovuto alla dinamica dei prezzi di mercato che mutano a seconda della domanda degli input di produzione degli impianti. Per comprendere questi meccanismi abbandoniamo Winston Churchill, allontanandoci da Londra per un po’ ed andiamo a vedere cosa stanno facendo due strani personaggi a Montiel, Castiglia-La Mancia, in Spagna, durante una fresca mattinata. 

Si ode lo scalpiccio di due destrieri che si stanno inerpicando lungo gli ondulati sentieri della campagna. Sono un ronzino ed un ciuco. Sul primo cavalca un uomo di circa cinquant’anni, di corporatura vigorosa, secco, col viso asciutto. Ha un’armatura e brandisce una lancia. I raggi del sole feriscono il suo volto senza molestarlo. In sella all’asino c’è un uomo più minuto, un po’ paffuto, con la barba. L’uomo più alto alza lo sguardo e rimane stupefatto nell’osservare il paesaggio. A quel punto sbotta: «Guarda lì, amico Sancio Panza, che ci si mostrano trenta e più giganti, dalle smisurate braccia; e ce n’è alcuni che arrivano ad averle lunghe due leghe!»

In realtà poi questi giganti si dimostrarono essere solo dei mulini a vento. Già allora impressionavano le loro dimensioni, e anche oggi stanno diventando sempre più grandi. Il motto dell’eolico è, infatti, ‘più grande è, meglio è’. Per le turbine costruite a terra (le cosiddette onshore), in soli 20 anni il diametro medio del rotore è passato da circa 58 metri (nel 2000) a 90 metri (nel 2020), grossomodo l’altezza della Statua della Libertà a Manhattan, con velocità che toccano i 320 km/h sulle estremità. Gli ultimi progetti in mare (offshore) prevedono impianti di dimensioni ancora più elevate, fino a oltre 200 metri. La sfida in altezza nasce dalla volontà di superare una delle fondamentali sfide tecnologiche per l’eolico: l’intrinseca bassa densità energetica. Per catturare l’energia del vento serve infatti un’ampia superficie. Più che per altre fonti. Maggiore quindi è l’area sfruttabile, maggiore sarà l’energia prodotta. La costruzione dei parchi eolici è sicuramente green ma deve anche essere sostenibile da un altro punto di vista: quello economico. L’impianto deve infatti produrre, nel corso della sua vita utile, abbastanza energia per ripagare l’ingente costo dell’investimento iniziale. Se i costi di costruzione aumentano troppo, c’è il rischio che alcuni progetti vengano sospesi oppure abbandonati. E su questo punto si stagliano alcune plumbee nubi all’orizzonte. La prima è legata alla catena di approvvigionamento ed alle sue interruzioni anche causate dalle guerre commerciali fra i produttori di impianti. Secondo la International Energy Agency (IEA), la politica europea di azzeramento delle emissioni nette entro 2050, spingerà l’eolico verso un aumento del 17% all’anno. Questo aumento dell’offerta di energia eolica comporterà una crescente necessità di enormi quantità di cemento, acciaio, resine plastiche, magneti a base di terre rare e lubrificanti. La corsa delle imprese per ottenere questi input, implica difficoltà nell’approvvigionamento. La seconda nube dipende a cascata dalla prima, con un aumento dei costi di costruzione e dei prezzi delle materie prime a causa della loro scarsità (circa il 40% in un anno). Si è avuto anche un incremento dei costi di manutenzione, a causa di tassi di guasto delle turbine più alti del previsto. La terza nube è legata all’inflazione globale che ha caratterizzato il sistema economico degli ultimi anni. Le banche centrali sono dovute intervenire per contenerla, aumentando il tasso di interesse e così riducendo gli investimenti privati.  Una quarta nube è relativa ai processi di autorizzazione (il permitting, appunto) che faticano a star dietro al ritmo di crescita del mercato. È necessaria quindi una più efficiente e accurata pianificazione. Tutti questi elementi stanno rallentando il processo di installazione degli impianti: in alcuni casi, nell’ultimo anno, si sono osservate riduzioni negli investimenti e l’abbandono di alcuni progetti, come è avvenuto per quello dello sviluppatore energetico danese Orsted che ha annullato, a fine 2023, due progetti di parchi eolici offshore negli Stati Uniti, nel New Jersey, per un costo di 3,3 miliardi di sterline o per  la svedese Vattenfall che ha abbandonato il progetto di un gigantesco parco eolico offshore al largo della costa di Norfolk.  Un vincolo nella sostituzione tra fonti energetiche implica il confronto tra i cosiddetti ‘capacity factor’: cioè quella percentuale che rappresenta il rapporto tra la capacità produttiva ‘reale’ di una centrale elettrica con la sua capacità ‘nominale’, cioè la potenza installata. Il sole e il vento sono intermittenti, la disponibilità di acqua degli impianti idroelettrici varia con le stagioni, le centrali a gas, così come quelle nucleari, talvolta devono ridurre o sospendere la produzione per attività di manutenzione. Di conseguenza gli impianti non producono mai tanta energia quanto teoricamente potrebbero in caso di operatività continua. Se una risorsa ha ‘capacity factor’ basso, al fine di sopperire a un elevato picco di domanda, bisogna opportunamente sovradimensionare l’impianto. Tutto ciò implica un aumento dei costi, degli spazi e dei tempi. Il ‘capacity factor’ è un parametro molto variabile geograficamente e stagionalmente nel caso delle fonti dipendenti dalle condizioni atmosferiche, ma varia anche significativamente a seconda delle diverse modalità di utilizzo degli impianti. Confrontando qualche dato si osserva che il ‘capacity factor’ del fotovoltaico ha un valore medio pari a 17%, l’eolico pari al 35%, il gas naturale dal 45 al 70% circa, l’idroelettrico pari al 45%, il carbone al 45% ed infine il nucleare all’80%. Come si può vedere le rinnovabili solare e eolico nel sostituire le fonti fossili devono sovradimensionare l’impianto per coprire la domanda di energia. Tale elemento si aggiunge ai precedenti. Un ulteriore vincolo è legato allo sviluppo della rete elettrica: per poter ottenere l’obiettivo di NZE per il 2050 è imperativo elettrificare il più possibile il territorio, per favorire il passaggio alle auto elettriche e per sviluppare sistemi di comunità energetica di produzione e scambio di energia. Anche la digitalizzazione necessita di enormi quantità di energia che devono transitare da un Paese all’altro. La rete va pertanto fortemente potenziata. Ciò implica ingenti investimenti che non è così facile sostenere. Chi li sostiene? In che tempi? Gli investimenti nelle infrastrutture dovrebbero essere l’architrave su cui si poggia tutto il resto. Altrimenti anche l’installazione di nuovi progetti può essere sospesa o ritardata, come è avvenuto recentemente quando la impresa Vattenfall ha fermato lo sviluppo del progetto eolico offshore svedese Kriegers Flak a causa della mancanza di chiarezza sulle modalità di collegamento alla rete elettrica nazionale. Un ulteriore elemento legato alla sostituzione tra fonti energetiche volge lo sguardo necessariamente all’energia nucleare. È oramai chiaro infatti che la transizione potrà essere sviluppata solo utilizzando più fonti energetiche in un quadro d’insieme comunque di tipo green. Il processo porterà quindi ad una riduzione sempre più marcata delle fonti fossili, sostituendole con un mix energetico che combina eolico, fotovoltaico e, certamente, in alcuni Paesi, nucleare e idrogeno. Se si avranno repentine innovazioni nell’ambito della fusione, sarà questa tecnologia probabilmente a sparigliare il mercato ed a creare un nuovo mondo, altrimenti, salvo l’introduzione di nuove tecnologie, potrebbe essere la scissione nucleare, con gli impianti di nuova generazione, a cercare di colmare il gap dei vincoli di capacità. Gli impianti nucleari sono in grado di produrre grandi quantità di energia: 1 kg di uranio infatti fornisce la stessa energia di 60 tonnellate di gas naturale, 80 di petrolio o 120 di carbone. Una quantità di uranio delle dimensioni di un mandarino contiene di fatto il contenuto energetico di quattro camion-cisterna pieni fino all’orlo. Ma anche in questo ambito emerge un (ultimo?) vincolo di capacità di tipo dinamico derivante dai tempi di costruzione. La costruzione di una centrale nucleare richiede in media 7-8 anni ma ci sono anche alcuni impianti che hanno richiesto più di 10-15 anni per entrare in funzione. Di fronte alla necessità di procedere con tempi rapidi verso la transizione energetica, si cerca di investire in risorse che abbiano tempi rapidi di produzione. Tutto ciò rende il nucleare una soluzione potenzialmente valida nel medio-lungo periodo, ma di certo non adatta a coprire l’aumento di domanda di energia nel breve periodo. 

Tenere in considerazione i vincoli di capacità nell’analisi del processo di transizione implica comprendere meglio il problema, creando le condizioni affinché il vento diradi il cielo e allontani le nubi e affinché la transizione non diventi una lotta contro i mulini a vento. 

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