«Tutto è iniziato da ragazzina, quando collezionavo penne stilografiche e scambiavo altri oggetti per accrescere la mia collezione. All’università, a Varese, partecipo a un baratto party organizzato in una sala studio. Metà uomini e metà donne. La cosa mi diverte tantissimo e tempo dopo inizio a organizzarli io stessa, in casa mia a Milano. Ma i partecipanti crescono. Ci spostiamo allora prima in un bar e poi nelle hall degli alberghi. Arriviamo al 2015 e nasce la pagina Facebook Swappen, seguita da una prima app per cellulari, l’arrivo di investitori e la creazione di una srl. Ma la svolta è nel 2020: sotto Covid, insieme a un altro gruppo di sviluppatori, nasce la nuova app della piattaforma ormai chiamata Swapush, crasi di ‘swap’ e ‘push’, nome che evoca dinamismo e velocità, nato dal brainstorming con un amico designer e agevolato da qualche bicchiere di mirto. Il simbolo, nonché il token virtuale parte integrante di Swapush, è quello di una pillola: perché scambiare un po’ dà assuefazione e un po’ ti cura», racconta Serena Luglio, che di Swapush è appunto la fondatrice.
Tra i pionieri dello swap party
Ma come funziona uno swap party? «Ognuno arriva con i suoi oggetti e ha un suo spazio in cui esporre. Io mi occupo di fare una cernita per eliminare gli oggetti che ritengo inadeguati. È logico che chi arriva con un cappotto Gucci si aspetti di poter trovare anche una borsa di Armani. Ma ovviamente si trova di tutto e di più. Quando i partecipanti sono pronti, iniziano le contrattazioni. Semplice e decisamente interattivo». La passione per gli swap parties di Luglio non risiede primariamente nell’aspetto materialistico. Ciò che per lei conta davvero è l’incontro tra persone che verosimilmente non si sarebbero mai incrociate, la creazione di una comunità. «Persino di una famiglia, nel caso del gestore di un bar a Varese sede di uno swap party e di una partecipante. Si sono conosciuti così e oggi hanno un bimbo di sei anni», racconta lei con il sorriso. «Negli anni si sono creati tanti legami e amicizie, persone che vanno in vacanza insieme, si frequentano nella vita di tutti i giorni. Personalmente sono stata invitata a vedere un balletto al palco d’onore del Teatro La Scala di Milano, il CFO e il Presidente della Fondazione La Scala li ho conosciuti swappando. La motivazione iniziale spesso è quella di fare spazio nel proprio guardaroba o fare un piccolo affare dando via oggetti indesiderati. Ma ciò che amo davvero di tutto questo è la creazione di connessioni tra le persone. Qualche giorno fa mi ha contattato una influencer e realizzeremo uno swap party a tema curvy per le taglie 48». Le connessioni si creano dunque spontaneamente e le declinazioni possibili sono molteplici. Una versatilità che Luglio ha compreso alla perfezione, declinando il format anche per centri commerciali e addirittura eventi aziendali.
Negli anni Luglio ha infatti limato e perfezionato i meccanismi di Swapush, che oggi vive sul doppio binario online e offline. Sull’app ogni iscritto carica i propri oggetti e vede quelli degli altri. A ogni oggetto viene assegnato un valore e, quando domanda e offerta non si bilanciano, l’utente può acquistare delle pillole, la moneta virtuale di Swapush, pareggiare il valore e portarsi a casa l’oggetto desiderato. In questa modalità, è un’app freemium simile a Vinted o altre piattaforme di compravendita tra privati, anche se qui il denaro è vietato perché l’idea di scambio è il cuore di tutto. Periodicamente sono poi a disposizione degli swap parties ibridi, che iniziano sull’app e trovano il culmine in eventi in presenza, ormai anche in location ancora più spaziose degli alberghi, come i centri commerciali.
«L’outlet di Vicolungo, per fare un esempio, ci ha recentemente ingaggiato per realizzare un evento e ci ha messo a disposizione un ampio spazio. In questi casi noi portiamo un nostro allestimento, realizzato con materiali sostenibili e riciclati. Gli avventori dell’outlet vengono informati prima dello swap party e portano i propri oggetti. La fase iniziale è molto bella, c’è molto hype, molto curiosare in giro, mente un dj mette musica e viene servito l’aperitivo. Le persone vedono gli oggetti e si ingolosiscono. Poi alle 17.30 si aprono le contrattazioni e sembra il black friday, la gente si scatena. Sono orgogliosa di essere riuscita a ricreare lo stesso meccanismo anche online: si espongono su una sezione dell’app gli oggetti per due settimane, a ognuno viene assegnato un valore in pillole che finisce in un portafoglio e al via delle contrattazioni gli utenti usano le pillole per finalizzare gli scambi».
Al crocevia tra divertimento e sostenibilità
Durante la Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti, iniziativa promossa dalla Commissione Europea, sono stati condivisi i dati dello studio Second Hand Effect 2022, secondo cui l’anno scorso l’economia dell’usato ha coinvolto in Italia ben 24 milioni di persone, generando un valore economico di 25 miliardi di euro. Sul fronte ambientale, il dato è incoraggiante: sarebbero ben 2,6 i milioni di tonnellate i rifiuti risparmiati dalla compravendita dell’usato. Luglio ha intuito il potenziale di questo aspetto dello swapping, declinando il format anche per le aziende, in numero ormai sempre crescente tenute a redigere ogni anno il proprio Bilancio di Sostenibilità.
«Che io sappia non esistono eventi aziendali, a parte la caccia al tesoro con raccolta di plastica, capaci di coniugare davvero sostenibilità ed engagement. Così abbiamo iniziato a proporre alle aziende swap parties online, ibridi e in presenza, con ottimi risultati di coinvolgimento e di rafforzamento, sul medio e lungo periodo, dei valori aziendali. È il caso del lavoro fatto insieme a Mercer, azienda con due sedi a Milano e Roma e dipendenti perlopiù maschi, mentre solitamente sono le donne a prediligere lo swapping. Ogni dipendente, un’ottantina circa, si è iscritto all’app, ha fatto l’accesso alla sezione dedicata allo swap party Mercer e ha inserito in vetrina due oggetti, associando all’item un messaggio personale. Così dipendenti che di solito non hanno occasione di incontrarsi hanno iniziato a parlarsi, alla cena aziendale hanno letto i messaggi ad alta voce, hanno condiviso foto nei giorni seguenti. Teglie da muffin, cravatte di marca e completi da padel si sono spostati sull’asse Roma-Milano, ma soprattutto hanno avvicinato colleghi lontani». L’intuizione di Luglio è andata oltre: coinvolgere un’azienda specializzata, la Esgeo, che per ogni oggetto scambiato cataloga i materiali e calcola il risparmio i termini di utilizzo di acqua, energia e emissioni di CO2. Un impatto che entra di diritto nel Bilancio di Sostenibilità dell’azienda.
Scambi isolani ‘a cattiveria zero’
Questo valorizzare la creazione di legami comunitari in pratiche all’apparenza perlopiù utilitaristiche è al cuore di un’altra esperienza di baratto, geograficamente lontana dalla grande città. ‘La Borsa Verde 3.0, scambi e baratti a cattiveria zero’ è un gruppo Facebook che Luciana Morgera crea nel 2014 per scambiare prodotti dell’orto coltivati nella splendida isola di Ischia. Le regole: niente soldi, niente prodotti industriali e l’obbligo di socializzare. Oggi conta quasi cinquemila membri, su una popolazione totale dell’isola di 63mila abitanti.
«Vedo il post di alcuni amici dell’isola che rappresenta una splendida frittata fatta con le uova di papere di un’aia felice e mi dico: le voglio anche io quelle uova! Allora propongo in cambio pane e yogurt fatti in casa. Un’esperienza davvero simpatica, così decido di creare il gruppo. Il 3.0 nel nome rappresenta la dimensione dell’incontro di persona per scambiarsi i prodotti, che è fondamentale», racconta Morgera. «Dopo lo scambio delle uova di papera, che a distanza di dieci anni è la foto di apertura del gruppo, ho infatti iniziato a organizzare pranzi e cene realizzati completamente con prodotti scambiati. Si potrebbe pensare che in comunità piccole come la nostra sia facile socializzare e che tutti conoscano tutti, ma anche se Ischia non è Milano, in realtà c’è molta diffidenza, devi sempre avere un motivo per entrare in relazione con gli altri. Incontrarsi negli orti significa avere un motivo per scoprire luoghi e persone. Con il tempo si è creata una piccola ma vivacissima community. Oltretutto Ischia è un luogo amato dagli stranieri, molti si sono fermati a vivere qui dopo averla visitata. E questo ha portato nel gruppo la possibilità di fare esperienza anche di cose piuttosto esotiche. Con un’amica austriaca, che fa la guida ambientale sull’isola, abbiamo creato dei laboratori per fare dolci natalizi tradizionali del suo Paese, a cui è seguito uno sui dolci tipici natalizi dei napoletani, come i roccocò o i mostaccioli. La comunità dell’est ha fatto scoprire agli isolani molti prodotti fermentati, tra cui anche il kombucha, che pure è di origine asiatica. Diventa insomma un vero e proprio modo di socializzare, uno stile di vita. All’inizio c’è tanta diffidenza, ma si tramuta presto in un’apertura totale».
Niente melanzane né zucchine, fave o olive? Non è un problema, visto che la cattiveria sta a zero, anche nel nome. Un aspetto delizioso di questo gruppo isolano è infatti che non avere un orto non significa affatto non avere moneta di scambio. Si mette sul piatto la propria conoscenza, le proprie competenze. Consulenze legali per letame utile a concimare l’orto. Lezioni di spagnolo o di tango argentino a domicilio per una bella parmigiana. Laboratori per fare sapone, detersivo o dentifrici. «Il gruppo può fregiarsi anche di aver svezzato un bambino. La mamma voleva infatti svezzare suo figlio, Ulisse, esclusivamente con prodotti locali e sani. Così ha messo l’annuncio, precisando di non avere però un orto. Biologa, ha scambiato sì qualche barattolo di conserva fornito dalla sua di madre, ma soprattutto lezioni di chimica e biologia a giovani ischitani. E le mamme degli studenti hanno fornito prodotti genuini, coprendo l’intero passaggio dall’allattamento all’alimentazione».
Qui Milano, la rete del riciclo e riuso
Dallo scambio che crea comunità allo scambio che aiuta chi, nella comunità, è più in difficoltà. Le pratiche di riciclo e riuso si prestano perfettamente anche a esperienze incentrate sul sociale e sull’aiuto agli altri. Come quella di Mario Donadio, ingegnere informatico e ‘supervolontario’, come è stato definito dai giornali quando, durante la pandemia, ha rimesso in sesto centinaia di computer, donati a moltissimi ragazzi fin lì obbligati a seguire per molte ore ogni giorno la didattica a distanza attraverso gli angusti schermi di un cellulare.
Un’attività partita da lontano, dagli anni passati a conoscere e incontrare decine di realtà del tessuto milanese. «Nel tempo libero mi occupavo di creare punti di socializzazione, abbellendo luoghi degradati e ospitando attività sociali. In questo modo ho conosciuto la rete delle associazioni del Verde. Era la Milano di Pisapia, in cui nascevano giardini condivisi e si davano in gestione degli spazi pubblici ai cittadini che desiderassero migliorarli. Già allora si puntava sul riuso degli oggetti che venivano donati, da aziende o privati. Mi sono appassionato e ho iniziato a girare le realtà associative della città. Un anno credo di aver passato 250 serate a incontrare, conoscere e tessere legami. Ho pensato che fosse utile creare un database di tutte queste splendide realtà: chi fa cosa, chi può fare di più o meglio collaborando con altre realtà. La formula funziona: negli anni mappiamo oltre 300 realtà che iniziano quindi a collaborare tra loro su numerosi progetti», racconta Donadio. Senza quella rete costruita negli anni, che ha creato punti di raccolta e messo in gioco i propri contatti, sarebbe stato improbabile riuscire a ottenere in donazione oltre 3000 computer, 1600 dei quali ricondizionati, a fine giornata e gratuitamente, negli uffici dell’azienda informatica in cui Donadio lavora e quindi consegnati ai ragazzi. «Nelle attività di donazione e distribuzione dei pc sono state coinvolte oltre 140 associazioni, che hanno sparso la voce e individuato le situazioni di fragilità sul territorio, chi davvero aveva bisogno. Anche il sindaco Sala venne a trovarci, aumentando la visibilità dell’iniziativa».
Un tessuto di associazioni e punti di scambio sul territorio
Il meccanismo funziona e Donadio decide di applicarlo alla raccolta di giochi e altri beni per famiglie in difficoltà. Nasce così ‘Qui Milano – Ricicliamo’, un cappello, un identificativo, sotto il quale si riuniscono numerose associazioni che raccolgono carrozzine, vestiario, accessori per l’infanzia. «Ognuno gestisce la propria raccolta – personalmente mi occupo di tre ritiri al giorno di giochi, prima e dopo il lavoro – ma il problema è evidentemente quello degli spazi in cui stoccare i materiali. Con l’amministrazione abbiamo provato varie volte, ma i percorsi dei bandi sono sempre molto difficili per chi come me è un volontario puro. Preferiamo investire il nostro tempo nel fare piuttosto che nelle pieghe della burocrazia. Con il Comune abbiamo provato a attivare un punto di riciclo e riuso, ma un anno di contatti si è risolto in un nulla di fatto. Allora mi sono rivolto all’Aler e nel quartiere periferico di Gratosoglio, in una delle loro case popolari, è nato il primo dei nostri punti di riciclo, una scaffalatura sempre aperta in cui liberamente le persone possono lasciare e prendere. Con lo stesso meccanismo abbiamo creato altri due punti a Gratosoglio e un quarto a Calvairate. Quindi sono andato a bussare a MM, Metropolitana Milanese, secondo partner cittadino in termini di case popolari. Con tempi di risposta molto veloci ci hanno dato la possibilità di stoccare donazioni in due spazi, in via Gandino e in via Fiamma, nelle loro case popolari. Un terzo è in programma nel quartiere Vigentino».
Rimane tuttavia un grande punto irrisolto: non perdere le donazioni di grande volume, come arredi, elettrodomestici, oggetti che presentano una complessità logistica maggiore. «Ho creato un gruppo WhatsApp con 135 associazioni e parrocchie impegnate nel riciclo e riuso, in modo che alla disponibilità di un oggetto di grandi dimensioni corrisponda quasi subito una destinazione, creando un interscambio veloce senza bisogno di grandi spazi di stoccaggio», spiega Donadio. «Nei nostri desideri comuni però, oltre all’idea di creare punti di scambio libero in ogni quartiere, rimane l’esigenza e il desiderio di trovare spazi in cui poter stivare in maniera più strutturata questi beni. Senza rinunciare alla natura informale della nostra azione, che ci lascia le mani più libere. Le associazioni informali sono infatti le più dinamiche e attive: basta vedere quanto fatto da ‘Milano Sospesa’, nata dopo l’incendio del grattacielo Antonini lanciando una raccolta di vestiti e beni per le famiglie che ci abitavano. È andata così bene che hanno mandato anche 20 tir di aiuti in Ucraina e al mercoledì e al sabato aprono per ricevere donazioni da distribuire in tutto il quartiere. Nel sociale il problema non sono i fondi, si dovrebbe puntare molto di più sul riciclo, veramente un modo efficace di accontentare con poco chi ha di meno. Se si abituano le persone a non buttare si sviluppa un’azione davvero bellissima, profondamente educativa. E alle aziende stesse, che hanno tantissimo invenduto, per ragioni fiscali conviene più donare che gettare via. Se poi qualche grande realtà aziendale investisse un centesimo del budget di marketing per supportare le nostre iniziative…».