Il punto di partenza può apparire a prima vista provocatorio. L’ambito in cui ci collochiamo è quello dei digital studies e, attraverso una rilettura dell’antropologia etnografica di Ernesto De Martino, ci proponiamo di indagare la centralità del ruolo dello smartphone nella costituzione delle nuove forme di intersoggettività, domesticità e comunità globale, nel tentativo di dimostrare la sua essenza di axis mundi1 del mondo contemporaneo: un’espressione coniata nell’antichità e ripresa dal pensatore napoletano per indicare un oggetto sacro nel quale risiede l’essenza valoriale di un’intera società o, per dirla con lo stesso antropologo, il «centro aggregante delle forze centripete del senso2».
Quale oggetto infatti incarna in epoca contemporanea questa forza catalizzatrice e custodente del senso individuale e collettivo, meglio dello smartphone? E come è potuta avvenire in un lasso di tempo così breve una sua diffusione così massiccia e capillare, in grado di trascendere le differenze culturali, economiche, sociali e geografiche di ogni singolo individuo e comunità? Questo mondo a portata di mano assorbe in sé stesso una quantità di funzioni, linguaggi e conoscenze che non esserne in possesso significa oggi letteralmente non capire niente del proprio mondo, o come diremmo più colloquialmente: esserne completamente fuori. Da diversi anni ascoltiamo psicologi ed esponenti di tutte le scienze sociali metterci in guardia sui rischi legati all’abuso di queste tecnologie ma solo di recente si è iniziato ad indagare la natura della tecnologia stessa e a mettere dunque in discussione il principio di responsabilità individuale legato all’uso dello smartphone: la serie Netflix Social Dilemma ne è un esempio brillante perché raccoglie informazioni direttamente da scienziati e programmatori coinvolti nella promozione delle nuove tecnologie smart, i quali ammettono candidamente di servirsi delle più profonde scoperte neuro scientifiche del XX secolo per metterle a disposizione del cosiddetto marketing emozionale, al fine di innescare negli individui un bisogno prima inesistente: la scatola di Skinner ne è un esempio classico, ma su cosa fanno leva in generale queste tecniche di assoggettamento psichico? Esiste un substrato comune a tutti gli individui su cui il marketing emozionale riesce a far presa riproducendo un bisogno comune a ogni essere umano? E se così fosse, in cosa consisterebbe questo comun denominatore? Dove la psicologia tace entra in gioco l’antropologia, come disciplina che indaga quelle pratiche e quei significati valoriali che resistono alle differenze dello spazio e del tempo e caratterizzano nel profondo ciò che chiamiamo natura umana.
Il primo sunto dell’antropologia di De Martino in La fine del mondo, attraverso vari esempi tratti da popolazioni antiche e moderne, è che tutte le società e tutti gli individui di qualsiasi epoca storica hanno bisogno di darsi un senso per sopravvivere all’angoscia del nulla; questo senso per essere duraturo necessita di essere raccolto in una forma tangibile: un palo totemico, un campanile, un tempio ecc. Se prendiamo per buona questa suggestione proprio l’apparente carenza di simboli, ritualità e contenuti spirituali sembrerebbe rendere la nostra società un terreno fertile per l’introduzione di un nuovo totem, seppur laico, come lo smartphone.
Ma come spiegare la stessa diffusione in società in cui la sacralità di determinati valori è ancora al centro della vita comunitaria? Quest’oggetto simbolico di devozione, per citare Fromm, riesce ad adattarsi tanto alle società laiche quanto a quelle religiose restituendo a ciascuna uno specchio dei propri valori. Ed è qui che arriviamo al secondo sunto di De Martino: l’Esserci, per non cadere continuamente nell’angoscia di una crisi della presenza, non ha solamente bisogno di un senso che guidi il proprio agire ma soprattutto di sentirsi appaesato nel mondo che abita. Se la domesticità delle popolazioni antiche è quella di un mondo a misura d’uomo, nelle società globalizzate l’abbattimento delle distanze e delle barriere culturali fa sì che questo senso di domesticità venga esperito come sempre più precario, un aspetto che sembra comune ad entrambi i tipi di società. Lo smartphone interverrebbe proprio a lenire questa angoscia; a ricordarci che il nostro mondo è ancora qui con noi, sempre a portata di mano. Ma il suo è un ruolo fortemente ambiguo perché questo mondo in realtà ci sfugge di continuo nel rapido passaggio da un’immagine all’altra ed è qui che l’oggetto smartphone si mostra in tutto il suo carattere psicopatologico: un totem ingombrante che chiede costantemente la nostra venerazione in cambio di un effimero senso di appaesamento. Una testimonianza pratica di questa riflessione è certamente esemplificata dalla cosiddetta attività dello scrolling, che non consisterebbe solo in una risposta irriflessiva a un input neuronale come teorizzato dalle neuroscienze3, ma corrisponderebbe soprattutto al bisogno di un ritorno continuo dell’individuo alla sua nuova forma di domesticità. Come scrive l’antropologo contemporaneo Daniel Miller lo smartphone «è il primo oggetto a sfidare la casa stessa». Da questo punto di vista lo smartphone come axis mundi non solo funge da perno del senso comunitario del mondo globalizzato, ma si pone come oggetto metafisico in grado di sdoppiare il mondo ambiente di ogni individuo, compreso il senso della sua domesticità: da una parte un mondo in cui ci dobbiamo ancora muovere per agire e dall’altra un mondo a portata di mano che diventa sempre più fondamentale conoscere per non essere estromessi dal primo.
Ma quali sono gli elementi specificatamente umani che rendono possibile questa dialettica tra mondo reale e virtuale? Come suggerisce lo psicologo esistenzialista Karl Jaspers, ripreso da De Martino, questa scissione sembrerebbe intrinseca della natura umana stessa e parrebbe il riflesso dalla duplice influenza che l’essere umano subisce sin dalla nascita, quella della propria eredità biologica e della propria tradizione culturale4. Se per millenni la cultura ha conferito intimità e coesione a questa indeterminatezza, oggi questo ruolo sembra via via appartenerle sempre di meno: l’azione ‘targettizzante’ delle nuove tecnologie appare soppiantare in poco tempo tutto un corredo di usi, tradizioni e saperi millenari in favore di una semplificazione di input e output sempre più rapidi e comunemente comprensibili. Questo produce una capitolazione del mondo della cultura in favore di una proliferazione dei vissuti istintuali più elementari che rendono la tecnologia moderna una vera e propria seconda natura che non solo completa e corregge la prima, ma promette all’individuo una messianica vittoria terrena sulle angosce esistenziali scatenate dalla natura stessa.
«Due terrori antinomici segnano il profilo della nostra epoca: quello di perdere il mondo e quello di perdersi nel mondo», scriveva De Martino, descrivendo i due principali poli di alienazione che caratterizzano la modernità: da una parte quell’ansia da partecipazione che oggi prende il nome di ‘FoMo’ (fear of missing out – paura di essere tagliato fuori), dall’altra la condizione di chi si astiene dal progresso e pur di non omologarsi si espone al rischio di non riconoscere più il proprio mondo. È la crisi della società occidentale che muove le riflessioni dell’antropologo e lo spinge a cercare un senso a questa fine del senso. Ma anche l’ancestrale rapporto tra cultura e natura implode, in tutta la sua ambiguità, nell’oggetto smartphone: se infatti in quest’oggetto si raccoglie potenzialmente tutto il corredo umano di conoscenze possibili, d’altra parte la velocità di assimilazione e di utilizzo che richiede tale tecnologia porta a un’emersione incontrollata dei vissuti istintuali più elementari dell’essere umano: l’eccitazione del like, lo scrolling, il libero e immediato sfogo delle proprie simpatie e frustrazioni riproduce quella reattività naturale e irriflessa che la cultura umana si sforza da sempre di mediare e contenere. In un’epoca apocalittica per antonomasia, dove per la prima volta nella storia umana è davvero possibile pensare una fine del mondo comune a tutti, le forze della cultura sembrano non essere più in grado di assimilare tale livello di angoscia e incontrollabilità, e di conferirgli una narrazione comune e trasformativa. Questa funzione viene dunque affidata alla tecnologia che attraverso l’appagamento di bisogni suggestionati rinvia continuamente quest’angoscia senza poterla risolvere.
Quasi settant’anni dopo morte del noto antropologo, quel che appare evidente è che lo smartphone tiene in se stesso tutte le contraddizioni che segnano la tragicità della nostra epoca, imponendosi come axis mundi del mondo contemporaneo e manifestandosi come un epicentro oggettuale e simbolico dove adattamento e psicopatologia, natura e cultura si intersecano fino a confondersi. E dove l’angoscia per l’ingovernabilità del mondo, del proprio mondo, trova sollievo nella domesticità virtuale di una casa tascabile pensata su misura di ogni individuo e comunità.
Note
- Ernesto De Martino, La fine del mondo, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2016, p. 90.
- Ibidem, p. 95.
- S. Raieshwari e S. Meenakshi, The age of doom scrolling, Social media’s attractive addiction in “Journal of Education and Healt promotion”, 31 gennaio 2023.
- K. Jaspers, Allgeimene Psychopathologie, Springer Verlag, Berlino, 2011, p.594