Un brand è l’insieme delle percezioni, cognizioni ed emozioni che le persone associano a un’azienda, un prodotto o un servizio; elementi, quindi, che li definiscono in modo distintivo, caratterizzandoli. A livello superficiale, il brand esprime un’intenzione comunicativa attraverso la scelta di un logo, di colori e di uno stile. In sintesi, la brand identity è l’esperienza coerente con la personalità incarnata dalla marca. A dare una direzione al brand è la sua mission, il ‘perché’ capace di orientare obiettivi e azioni aziendali, sulla base di valori condivisi internamente ed esternamente all’ente. Dalla congiunzione tra brand identity e mission deriva il posizionamento, ossia lo spazio unico che il brand presidia nella mente del consumatore, differenziandosi rispetto ai concorrenti.
In un mercato sempre più saturo di offerte, prezzo e caratteristiche del prodotto, da soli, non sono più sufficienti ad attirare l’attenzione. Il consumatore, infatti, è in costante relazione con stimoli molteplici. La mente umana filtra e seleziona incessantemente le informazioni. Un brand che si dissolve nello sfondo rischia così di svilire la qualità del prodotto stesso. In altri termini, la propria unicità non comunicata si disperde nel frastuono circostante.
Il primo morso non si scorda mai

Il concetto di soglia differenziale indica la capacità del consumatore di percepire la differenza tra stimoli non sovrapponibili: maggiore la distanza tra prodotti, servizi o brand, minore l’investimento necessario in termini di marketing e comunicazione. Un esempio rappresentativo proviene dal confronto tra il segmento biologico della grande distribuzione e la rete di supermercati specializzati, come NaturaSì. Questi negozi si concentrano solo sul biologico. Tuttavia, è più probabile che il consumatore entri in contatto con prodotti bio attraverso le catene nazionali, come Carrefour, Esselunga o Coop. Sono queste, infatti, a essere più largamente diffuse sul territorio. Nella maggior parte dei casi accade infatti che un consumatore decida di acquistare per la prima volta un alimento biologico nel contesto della spesa settimanale che, soprattutto nei centri urbani, avviene al supermercato. Chiamare in causa lo status quo bias (Samuelson & Zeckhauser, 1988) permette infatti di comprendere, a meno di particolare motivazione, la nostra tendenza a persistere nelle nostre abitudini.
Tuttavia, la qualità dei prodotti ortofrutticoli biologici presenti nei grandi punti vendita può risultare inferiore rispetto a quella offerta dai negozi esclusivamente biologici. Di conseguenza, il consumatore può essere indotto ad estendere un’esperienza negativa all’intero settore del biologico – soprattutto se, come si accennava, si tratta del suo primo acquisto consapevolmente organic. L’euristica della disponibilità (Tversky & Kahneman, 1973) è infatti una scorciatoia cognitiva attraverso cui si stima la probabilità o la frequenza di un evento in base alla facilità con cui si reperiscono esempi relativi a quell’accadimento. A maggior ragione, un episodio negativo legato a un acquisto su cui si nutrono elevate aspettative si ricorda più facilmente, portando alla percezione che ciò si possa ripresentare con maggiore probabilità o frequenza rispetto a quelle reali.
Questo esempio focalizza l’attenzione su come, per un brand, perseguire una strategia differenziante sia efficace nell’arginare il rischio di generalizzazioni sconvenienti: se un brand ha una propria personalità, ben distinta da quella incarnata dal concorrente già conosciuto, la probabilità di estendere la negatività dell’esperienza si riduce drasticamente.
Biologico allo stato puro
Ulteriori osservazioni riguardano le reti di negozi specializzati nel biologico. Cura per la salute e per il benessere, salvaguardia e promozione della biodiversità, responsabilità sociale e rispetto della comunità, sostenibilità e tutela dell’ambiente, qualità e trasparenza della filiera. Questi sono i principali valori che incorniciano l’esperienza d’acquisto del consumatore. Psicologicamente, se da un lato l’esposizione ripetuta a uno stesso stimolo aumenta il suo gradimento per effetto di mera esposizione (Zajonc, 1968) e quindi la familiarità percepita nei suoi confronti, l’esposizione a stimoli ripetuti e simili tra loro genera una risposta attentiva decrescente, secondo il fenomeno dell’abituazione (Groves & Thompson, 1970). Ciò, in termini di mercato, significa che messaggi e posizionamenti indistinguibili tra loro vengono rapidamente ignorati dal consumatore, costituendo peraltro per l’azienda una spesa inutile in termini di marketing.
In effetti, negli ultimi anni, il settore del biologico ha vissuto un’intensa fase di concentrazione: alcune realtà distributive di grandi dimensioni hanno incorporato storici marchi del bio, creando poli che controllano più brand e linee di prodotto. Questo fenomeno spiega ulteriormente l’incertezza del cliente di fronte a prodotti con caratteristiche nutrizionali simili tra loro, dotati però di etichette differenti, dietro a cui si celano valori e strategie comunicative quasi identici. Se da una parte la rappresentatività, infatti, aiuta il consumatore a riconoscere la comune origine biologica, dall’altra, quando tutto appare troppo simile al prototipo e alle caratteristiche a esso associate, si scatena l’assuefazione di mercato. Detto altrimenti, più che offrire un ancoraggio in grado di facilitare l’orientamento, la somiglianza tra brand costituisce una fonte di perplessità e di proverbiale ‘imbarazzo della scelta’.
Il succo del discorso: ascolto attivo e small data
Sebbene la GDO specializzata nel segmento del biologico – ovvero quella costituita dalle reti di negozi biologici – sia in ripresa economica, resta la necessità di una dichiarazione di principi in grado di esplicitare l’identità unica della propria offerta, soprattutto rispetto a quella delle linee biologiche di supermercati e ipermercati. La differenziazione tra brand all’interno del segmento puramente biologico richiede invece una riflessione più complessa in ragione della concentrazione interna al settore, a cui si è brevemente fatto riferimento.
In generale, poiché la storicità ereditata è un punto di partenza irriducibile, ne consegue la necessità dell’ascolto attivo dei propri clienti fidelizzati. Sono infatti gli small data – tracce comportamentali legate a bisogni e desideri latenti degli utenti (Lindstrom, 2016), ricavati tramite etnografia, osservazione, interviste o diari – a rivelare la direzione in cui aumentare e creare elementi ancora marginali per l’intero settore, ridurre ed eliminare ciò che non genera valore concreto, come suggerisce Strategia Oceano Blu (Kim & Mauborgne, 2005) nella sua essenza.
In poche parole, ripensare il proprio posizionamento integrando big e small data per scommettere in modo scientificamente fondato su slanci innovativi nel solco già tracciato del ben seminato, con la prospettiva di progetti ritenuti autenticamente trasparenti dall’utenza finale, al cuore della strategia perseguita.