Schiena contro schiena: gli strapiombi sociali delle città colombiane

Autore

Gloria Ballestrasse

Data

16 Ottobre 2024

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5' di lettura

DATA

16 Ottobre 2024

ARGOMENTO

PAROLE CHIAVE


Città

Colombia

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Da fuori, la Colombia è stereotipo sudamericano di narcotraffico, corruzione, guerriglia di sinistra e coltivazioni di coca. In secondo piano, bellezze paesaggistiche e benedizioni di donne accoglienti, in case piccole e coloratissime. 

Dall’interno, la Colombia è una realtà di strati sociali e tasse pagate in base al quartiere di appartenenza, barrios piagati da divari economici dilanianti e vita violenta, che richiede la corazza. Schiena contro schiena, vecchie baraccopoli e grattacieli appena sbocciati. In questo articolo, uno sguardo tra le viscere di Bogotá, tra chi celebra affari finalmente raddrizzati, chi piange uno sfratto e bambini che covano rabbia e rubano nel nome della resistenza.

Le faglie sono fratture nella crosta terrestre accompagnate da movimenti: l’attivazione di faglie può produrre terremoti. E la Colombia è uno Stato fatto di strati. Non dislivelli fisici, ma strapiombi sociali. Un numero, il contrassegno di ciascun barrio e la madrelingua in cui versare tributi, piangere e cantare negli anni a venire. Uno, il più povero, sei, il più ricco. Dietro a baraccopoli di zinco, giganti di vetro e fioriture di grattacieli, come una sberla. Strato due e strato cinque, schiena contro schiena, senza pietà. Si definisce terremoto il movimento di una porzione di superficie terrestre, costituito da oscillazioni del terreno in successione. Si raccomanda di ripararsi rapidamente sotto lo stipite di una porta.

Acqua, gas ed elettricità in base al quartiere di appartenenza, nel sillogismo irrealistico, da manuale, di una ricchezza distribuita attorno all’attività più fiorente del barrio. Jorge è un calzolaio e oggi sorride sdentato, addirittura intona un canto di gioia. Il suo negozio sta finalmente prendendo piede, allora oltre alle tasse sarà il guadagno. Nella sua rincorsa, accorcerà le distanze con il boutique-hotel a conduzione familiare, dirimpetto. Gli stessi tributi e un’esistenza alimentata a turisti e viaggiatori non gli è mai sembrato sinonimo di equità, ma oggi per lui è giorno di festa, quindi mette in parentesi l’antico adagio. Dall’altra parte della stessa strada, accendini e rabbia passati di mano, come un’alleanza. Zina e Maria Luz siedono sul marciapiede e sputano a terra, con sdegno. Per loro gli affari non sono più quelli di una volta. Non stanno più dietro alle tasse da pagare, all’esistenza da racimolare. Aspettano sospese lo sfratto che verrà, e il battesimo a un quartiere di estrato social inferiore. Nel tempo che rimane elaborano strategie, congetturano, per un attimo ricominciano perfino a sperare, non si arrendono – non vogliono arrendersi. Poi si abbracciano, le ultime storie e ricette di famiglia da spartire, rivivono e condividono, la nostalgia già addosso.

Nell’estrato uno non si sa cosa sia un marciapiede, un semaforo rosso o un attraversamento pedonale. José ha dieci anni e quando mendica si butta nella sincope tra una macchina e l’altra, fa lo slalom tra le insenature delle automobili, salpa da un ciglio per poi ritrovarsi sull’altro, senza cerimonie né riti propiziatori. Automobile a poco meno di venti centimetri, il ruggito caldo del motore. Il rosario appeso al cruscotto, non sarà questa la macchina che lo stenderà. Una mano come chi fa per ringraziare, poi si rincapsula nell’automobile. E si fa scudo del mondo.

Allunga i soldi a Pablo, al volante. Sogghigna, i bottini migliori si fanno nei giorni di matrimonio. José fissa lo sguardo fuori dal finestrino oscurato. Un passaggio, semplicemente un passaggio da una tasca all’altra. Gli stava simpatico quel Filipe, ma centomila pesos nelle tasche di un bambino di sei anni non ci dovevano stare. E poi la giustizia è inconcludente, lui invece solo ladro. Non per scelta, per sopravvivenza. Pablo ingrana, inclina la testa per accendere una sigaretta, sbuffa fumo, poi svolta a sinistra con l’auto che ha rubato.

E di intelligenza e letteratura non sanno (la scuola è un’istituzione che vedono da lontano, sempre nel mirino delle loro madri), ma di furbizia e lavoro di squadra sì. Una salita di fianco alla Chiesa del barrio, lieve ma spietata. José scalcia una palla scucita su per il pendio, attende che la discesa gliela restituisca, poi di nuovo. Qualche turista gringo scruta quel bambino come una tipicità endemica, qualcuno scatta addirittura foto. Lui è preparato, agli obiettivi dà sempre le spalle, però i cellulari li vede. Studia il modello degli schermi con lo sguardo assente di chi ha la testa girata di lì per caso, finge indifferenza mentre pensa alle interiora di rame, alle schede madre da rivendere, far fruttare. I turisti tornano a fotografare la Cattedrale, zaino contro la schiena. José tira un pallone più lungo degli altri, sfidando la salita. Senza sforzo, come un campione.

Un segno è «qualcosa che sta per qualcos’altro, a qualcuno in qualche modo». Un segnale che sta per ‘ora!’, a due o tre dei suoi giù per la discesa, (in che modo?) scavalcando le transenne, sfilando silenziosi di fianco agli zaini, sfidando il pudore delle cerniere richiuse, i segreti delle tasche, le grinfie dei portafogli, le cover dei telefoni, il peso dell’oro, la potenza dell’euro. Con un’acrobazia, fuori di scena, su per il barrio che li ha partoriti alla violenza della vita. A volte i gringo se ne accorgono in tempo, allora chiamano la polizia. E tutti gli adulti del barrio sono stati in carcere almeno una volta.

Simboli e segnali in codice per comunicare, sotto squarci di cielo intrappolato tra reti illegali. Una danza di gesti con le mani, visibili da lontano, ma soltanto se sai dove guardare. Uno per la polizia e uno per le gang rivali, uno per i soldi e uno per decidere il da farsi se le cose si mettono male. Ritmo ed intensità variabili, secondo l’evolversi della situazione. 

Il prete vede tutto e non ne può più, e qualcuno giura addirittura di averlo sentito bestemmiare. Nessuno l’ha mai ricattato, eppure ha paura, e con quella paura sancisce i confini, erge barriere. Decide che quel tempio è regno di Dio, e che loro non c’entrano con Dio. Tra le file di panche, soltanto anziani come statue di carne e turisti porta-offerte. Se la gang non ha già fatto in tempo a derubarli. 

In realtà José, che per vivere ruba, cosa pensa di Dio con sicurezza non lo sa, ma nell’intimo di sé a volte intona preghiere.

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