L’occupazione identifica ancora la classe sociale?

Con l’aumento delle forme di lavoro ibrido, a metà strada tra il subordinato e l’autonomo, è sempre più difficile usare il titolo occupazionale come misura di classe rispetto a pochi decenni fa.

Autore

Renata Semenza

Data

30 Settembre 2024

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DATA

30 Settembre 2024

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L’articolo prende le mosse da un interrogativo, di carattere sociologico, sull’adeguatezza delle analisi di classe per misurare le diseguaglianze sociali oggi, considerando in particolare il rapporto fra le classi sociali derivate in base all’occupazione e le radicali trasformazioni del mercato del lavoro intervenute con il predominio dell’economia dei servizi. 

Gli studi contemporanei sulla stratificazione e sulla mobilità intergenerazionale partono da una definizione di classi sociali come gruppi occupazionali che condividono somiglianze nella posizione lavorativa, nelle qualifiche e nel tipo di attività. Essi considerano la classe sociale come una ‘categoria di sintesi’ delle diseguaglianze, che regola l’accesso alle ricompense sociali multidimensionali. Ciò conferisce importanza alla mobilità di classe intergenerazionale come indicatore sintetico della mobilità sociale1. Lo schema di classe più utilizzato è l’EGP di Robert Erikson, John H. Goldthorpe e Lucienne Portocarrero2. La ricerca comparativa ha adottato questo schema, talvolta con adattamenti per riflettere le specificità dei mercati del lavoro nazionali. Tuttavia, questi adattamenti potrebbero essere insufficienti per affrontare le particolarità di fenomeni quali la segmentazione, la precarietà e l’informalità nei mercati del lavoro.

Sebbene le principali classificazioni basate sull’occupazione abbiano dimostrato tutta la loro solidità nel tempo, ricorrere all’occupazione come misura dell’affiliazione di classe, in base a cui prevedere il valore economico, cioè il reddito da lavoro, e le ricompense simboliche, cioè il prestigio e la soddisfazione intrinseca, è diventato via via più problematico e ha posto nuovi interrogativi, analitici e concettuali3. In altri termini, le recenti trasformazioni della struttura occupazionale, relative soprattutto alla crescita di un eterogeneo settore dei servizi e a una diminuzione della produzione, stanno mettendo in discussione i vecchi schemi classificatori per varie ragioni. 

La prima è una ragione statistica. Se prendiamo in considerazione l’Italia come caso paradigmatico, osserviamo che il rapporto numerico fra popolazione e occupazione è cambiato rispetto all’epoca industriale: oltre ai disoccupati, si è ampliata l’area degli inattivi e degli scoraggiati fra la popolazione in età lavorativa, Pensiamo ai giovani NEET che in Italia sono un gruppo assai numeroso (più di due milioni nel 2023 secondo le stime dell’ISTAT) e al grande bacino della popolazione femminile inattiva. Ne consegue che una parte sostanziale di individui in età da lavoro – ma non occupata – rimane esclusa dall’analisi della struttura di classe fondata sull’occupazione come misura sintetica e improntata su di un precedente modello sociale di piena occupazione. A ciò si aggiunge l’area del lavoro informale e sommerso, ma anche di quello autonomo professionale in grande espansione, come dimostra il ritmo accelerato della professionalizzazione del lavoro (la quota di professionisti nell’Europa a 27 è passata dal 16,8% nel 2011 al 22,2% nel 2023), ma che spesso è escluso dalle fonti statistiche utilizzate per l’analisi della stratificazione sociale.

Un secondo motivo è la precarizzazione derivante dal contratto individuale nelle economie neoliberali, che ora è diventata prevalente nei settori creativi, innovativi e dinamici dell’economia, che stanno erodendo il precedente sistema basato sui contratti collettivi. In breve, l’individualizzazione dei rapporti di lavoro e l’aumento dell’instabilità lavorativa testimoniata dal proliferare di rapporti di lavoro atipici dal punto di vista della durata media e della stabilità nel tempo, soprattutto nel settore dei servizi e del terziario avanzato, l’unico a crescere in modo consistente a livello Europeo4. La natura intermittente dell’attività lavorativa e la sua parzialità temporale possono incidere negativamente sul livello di reddito da lavoro di persone anche con un grado elevato di istruzione e di qualificazione, cosa non comune in precedenza, quando l’istruzione aveva sempre un ruolo di protezione dalla vulnerabilità sociale. 

Fig.1 Decili più poveri (1-3°/10) per tipologia di contratto e genere
Fig.2 Contratti a tempo determinato in base a età e genere, nel settore terziario avanzato

Sempre prendendo l’Italia come caso empirico, possiamo osservare (Figura 1) quanto le probabilità di essere nei tre decili più poveri siano molto più elevate per i lavoratori con un contratto a tempo determinato e in particolare per le donne (0.7), così come si osserva un’incidenza elevata di contratti a tempo determinato nel settore del terziario avanzato per le generazioni più giovani, fino a 34 anni di età (Figura 2). I profili professionali emergenti saranno sempre meno nell’area del lavoro subordinato standard a tempo indeterminato e saranno sempre più caratterizzati da condizioni contrattuali e lavorative diverse da quelle dominanti nel modello economico industriale, che aveva plasmato gli schemi di classificazioni della struttura occupazionale.

Il fattore dominante che rende difficile l’assegnazione delle classi sociali in base all’occupazione è la molto maggiore eterogeneità e instabilità della struttura occupazionale, rispetto alla relativa omogeneità e stabilità insite nel precedente sistema a base industriale.

Da un lato la grande variabilità delle occupazioni nel settore dei servizi oggi dominante, che rende instabili le stesse classi occupazionali. Il settore dei servizi è in continua evoluzione, mentre prima esistevano cicli produttivi stabili o relativamente stabili. Interi settori vengono messi in crisi, sostituiti o cancellati. 

Dall’altro, la crescente complessità dei compiti determinata dalla pressante innovazione tecnologica. Nel modello precedente la conoscenza era racchiusa in professioni stabili e definite, come quella di ingegnere o manager; ora tutti i profili professionali sono messi a dura prova da un rischio di obsolescenza molto più rapido.

Si espandono delle forme di lavoro ibride a metà strada fra lavoro autonomo e lavoro subordinato,  funzionali all’economia della conoscenza e delle piattaforme; aumenta il numero di lavoratori che svolgono più attività lavorative contemporaneamente e non per forza attigue l’una all’altra, coloro che la letteratura ha definito come i lavoratori slash (es. web designers/dog-sitter/traduttore di didascalie); si estende l’area dei lavoratori sottooccupati (part-time involontari e lavoratori temporanei). Si aggiungono poi i lavoratori poveri (persone che pur avendo un’occupazione si collocano al di sotto della convenzionale soglia della povertà), situazione che può verificarsi anche fra le persone con un livello medio-alto di qualificazione. 

I tradizionali schemi classificatori diventano dunque poco adatti a cogliere l’ampio ventaglio di condizioni occupazionali straordinarie, che da eccezioni sono divenute standard in numerosi settori di attività economica. Le analisi di classe sembrano ancora meno adatte se si adotta una prospettiva di genere, considerando quanto poco esse abbiano considerato le differenze occupazionali fra donne e uomini, spesso utilizzando la dominanza del lavoro maschile (come fonte di reddito prevalente) su quello femminile all’interno del nucleo famigliare. Nell’ottica della segmentazione del mercato del lavoro, i fattori ascrittivi, quali il genere, la razza e l’età sono molto importanti nel determinare le posizioni occupazionali e le ricompense economiche.

Altre componenti entrano poi in gioco nel dare forma alla struttura sociale. Oltre alla forte spinta della liberalizzazione dei mercati del lavoro a partire dagli anni Ottanta, che ha configurato il nuovo gruppo sociale del ‘precariato’5, la just transition sta facendo emergere una nuova ‘classe ecologica’ che prende in carico la questione dell’abitabilità, di cui hanno parlato Bruno Latour e Nikolaj Schultz6, facendo riferimento alla nuova sfida che vede la mobilizzazione delle risorse non verso la produzione, ma verso il mantenimento delle condizioni di abitabilità del mondo terrestre.

Contestualmente, l’etnicizzazione del lavoro, la crescita della competizione in un mercato divenuto globale che aggiunge nuovi elementi di complessità sociale di cui sarebbe bene tenere conto. La formazione di reti globali e di imprese globali accentua gli aspetti della concorrenza. Inoltre, la domanda di manodopera straniera deriva da ragioni demografiche, legate all’invecchiamento della forza lavoro interna delle economie europee, alla modificazione degli stili di vita, dei modelli di consumo, delle aspirazioni sociali che hanno portato all’aumento del benessere e all’innalzamento della produttività. Ciò sta portando a un grave problema di squilibrio tra domanda e offerta di lavoro, che colpisce numerosi Paesi europei.

Potremmo anche citare il gruppo dei lavoratori a distanza, che operano ormai prevalentemente da remoto su dati e informazioni condivise, che si differenzieranno sempre di più dai lavoratori la cui presenza fisica nel posto di lavoro continuerà ad essere essenziale. 

Il lavoro basato sull’artificiale che mette in discussione il lavoro umano. Il problema diventa il contrasto tra lavoro artificiale e lavoro umano, attraverso un effetto di sostituzione del primo sul secondo. I grandi modelli di intelligenza artificiale (come vengono chiamati nell’Artificial Intelligence Act 2024) sostituiranno molti compiti e il lavoro umano sarà al servizio dell’intelligenza artificiale. La sua posizione lavorativa crollerà. Le poche professioni che sanno progettare cresceranno e molte di quelle attuali slitteranno, diventando routine.

In ragione di tutto ciò si dovrebbe riconoscere che vi sono crescenti difficoltà a usare l’occupazione (o il lavoro) come una misura di classe rispetto a qualche decennio fa, quando la divisione in classi sociali era adatta ad un ordinamento essenzialmente stabile, nazionale, maschile e fondato sui contratti a tempo pieno e indeterminato dell’industria manifatturiera. Inoltre, il titolo occupazionale non fornisce nessuna indicazione su capitali e ricchezza di cui un individuo è portatore. E questo è un punto cruciale, un ritorno alla teoria della ‘Leisure Class’ di Thorstein Veblen7? Se il lavoro non è più il fattore dell’attribuzione di classe, forse si ritorna a parlare di ricchezza, di patrimoni ereditati, o acquisiti per via matrimoniale, di rendite che si arricchiscono poi finanziariamente, come motore principale delle diseguaglianze sociali nel XXI secolo8. Quando viene a mancare il lavoro come fattore di attribuzione di classe è la famiglia, la «ricchezza accumulata dai padri» come dice Ricolfi9, che torna prepotentemente a giocare un ruolo protettivo nel mercato del lavoro? Se nel Novecento si è passati dallo status al contratto, oggi assistiamo a un processo a ritroso che dal contratto ci riporta alla centralità dello status?

Note

  1. D. Grusky e R. Kanbur, Poverty and Inequality, Stanford University Press, Redwood City (CA) 2006.
  2. R. Erikson e J. Goldthorpe, The Constant Flux: A Study of Class Mobility in Industrial Societies, Oxford University Press, New York 1992.
  3. D. Oesch, Coming to grips with a changing class structure: an analysis of employment stratification in Britain, Germany, Sweden and Switzerland, in “International Sociology”, vol. 21, n. 2, 2006: Id., Occupation Change in Europe: how technology and education transform the job structure, Oxford University Press, Oxford 2013. 
  4. Le stime Eurostat (2024) mostrano che fra il 2008 e il 2021 vi è stato un incremento del 31% di attività di informazione e comunicazione – ICT, del 26% di attività professionali, scientifiche e tecniche e del 22% di attività amministrative e di servizio, a fronte di valori negativi o stabili in tutti gli altri comparti
  5. G. Standing, The Precariat: The New Dangerous Class, Bloomsbury, London 2011.
  6. B. Latour e N. Schultz, Memo sur la nouvelle classe écologiste, La Découverte, Paris 2022.
  7. T. Veblen, La teoria della classe agiata, Einaudi, Torino 1949 (ed. or. 1899).
  8. T. Piketty, Il Capitale del XXI secolo, Bompiani, Milano 2018.
  9. L. Ricolfi, La società signorile di massa, La Nave di Teseo, Milano 2019.
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