Dalle campagne del Bangladesh agli stati insulari dell’Oceania, il riscaldamento globale minaccia gli insediamenti storici di milioni di persone. Il tema dei ‘rifugiati ambientali’ o ‘climatici’ ha guadagnato sempre più rilevanza e attenzioni nel corso degli ultimi anni – tanto da parte di chi nutre preoccupazioni politiche o umanitarie per le sorti di porzioni crescenti di umanità, quanto di coloro che vi vedono l’intersecarsi di due macro-minacce securitarie per le fortezze occidentali: il risaldamento globale e la migrazione. Al netto di questa attenzione crescente, tuttavia, attorno al fenomeno regna una certa confusione concettuale. Viene poco sottolineato, infatti, come nel trattare dei rifugiati ‘ambientali’ o ‘climatici’ si evochi al tempo una questione di fatto e una di diritto – esponendosi così al rischio di confonderle. Da un lato, vi è la fattispecie empirica delle migrazioni forzate dovute ai degradamenti ambientali provocati dal riscaldamento globale – un fenomeno che, c’informano gli esperti, potrebbe arrivare a riguardare oltre 1 miliardo e 200 milioni di persone nei prossimi 25 anni1; dall’altro, il quesito – aperto – degli strumenti legali più appropriati per proteggere gli individui a rischio. Perché il tema dei cosiddetti ‘rifugiati ambientali’ possa tradursi con qualche efficacia in tematica politica, allora, è preliminarmente necessario fare un po’ di chiarezza concettuale.
Migranti o rifugiati?
Il concetto di ‘rifugiati ambientali’ – e con esso l’idea che le persone minacciate dai disastri ambientali debbano essere destinatarie di misure di protezione umanitaria – fu introdotto per la prima volta nel 1985 da Essam El Hinnawi, un esperto dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente). In un rapporto influente, El Hinnawi definì i rifugiati ambientali come «quelle persone costrette a lasciare le loro abitazioni tradizionali, temporaneamente o permanentemente, a causa di una marcata perturbazione ambientale (naturale o causata dall’attività umana) che mette a rischio la loro esistenza o la qualità della loro vita». Questa definizione pionieristica è stata capace di accendere l’attenzione globale sulla migrazione indotta dai cambiamenti climatici e ha contribuito a plasmare il dibattito internazionale sulla necessità di riconoscere e proteggere i diritti di coloro che sono costretti a migrare a causa di crisi ambientali. Tuttavia, quasi quarant’anni dopo, i passi avanti politici e istituzionali sono pressoché nulli.
La prima, fondamentale distinzione da tenere presente nell’affrontare il tema è quella tra ‘migrante’ e ‘rifugiato’. Secondo la Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati del 1951 (meglio nota come Convenzione di Ginevra) nata per garantire protezione internazionale alle persone che si trovavano espatriate in seguito alla Seconda guerra mondiale, e ampliata successivamente con il relativo Protocollo nel 1967 per estendere il suo dominio d’applicazione, un rifugiato è una persona che, costretta a fuggire dal proprio paese a causa di persecuzioni, guerre o violenze, ha un fondato timore che ritornandovi correrebbe il rischio di essere perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un particolare gruppo sociale. L’idea è che se il paese d’appartenenza di una persona non sa garantirle sicurezza, venendo meno così alle obbligazioni del contratto sociale, la famiglia delle nazioni dovrà supplire a questo suo diritto fondamentale ospitandola all’interno dei propri confini. Chiaramente, la realtà brutale che il mondo contemporaneo ci presenta non assomiglia granché al mondo ideale tratteggiato dalla Convenzione: sull’accertamento del ‘fondato timore’ vengono combattute battaglie politiche sanguinose, e le misure intraprese dai governi per impedire fisicamente alle persone di varcare i confini per mettersi nella condizione di poter chiedere asilo producono esiti tragici di cui siamo tutti a conoscenza.
A osservare le cose con attenzione, bisogna notare che nemmeno la retorica più xenofoba si azzarda a negare il diritto ideale dei rifugiati a ottenere protezione internazionale, ma sostiene invece che il diritto dei rifugiati sarebbe minato da chi per ragioni strumentali finge di fuggire da minacce di persecuzione per avere diritto di risiedere in un paese straniero: i ‘migranti economici’. Vi sono voci accademiche che hanno voluto contestare la pertinenza tecnico-giuridica di questo genere di distinzione2; ma è soprattutto da un punto di vista politico e geopolitico che ogni ambizione a separare la fuga da una persecuzione dal viaggio motivato dall’ambizione di un futuro migliore per sé e la propria famiglia si mostra superata dai tempi. La distorsione del diritto d’asilo, infatti, è strettamente legata ai crescenti ostacoli posti sulla strada della migrazione legale in tutto il mondo occidentale negli ultimi trent’anni.
La questione diviene particolarmente rilevante per il dibattito sulla migrazione motivata da ragioni ambientali. Nel quadro normativo della Convenzione di Ginevra, infatti, non sembra esserci spazio per riconoscere il diritto alla protezione internazionale per le persone sfollate a causa di catastrofi ‘naturali’ o del progressivo degradamento dei loro dintorni ecologici, giacché mancherebbe il criterio – fondamentale per il riconoscimento del diritto all’asilo – della natura discriminatoria della minaccia temuta: l’ambiente si degrada per tutti i cittadini di uno Stato, o per tutti gli abitanti di una regione. Se lo Stato, poi, discrimina nel selezionare i destinatari degli interventi di sostegno, allora si configura una situazione diversa che non ha più nella motivazione ecologica la sua ragion d’essere. Al giorno d’oggi, allora, gli sfollati, ambientali o climatici che siano, non possono essere ‘rifugiati’ – perlomeno, non nel senso giuridico del termine.
Climatici o ambientali?
Le formulazioni di ‘rifugiato climatico’ o ‘rifugiato ambientale’ vengono alternate liberamente – anche io l’ho fatto in questo scritto. Tuttavia, in questo scivolamento terminologico si nasconde una potenziale insidia. Da un punto di vista tecnico, riuscire a dimostrare il nesso causale che legherebbe un episodio migratorio al riscaldamento globale – ovvero alla crescita della temperatura media globale dovuta all’aumento della concentrazione atmosferica di gas serra, a sua volta causata dall’impiego dei combustibili fossili – sembra un obiettivo eccessivamente ambizioso, che pone problemi epistemologici non indifferenti e ostacoli giuridici lampanti. Fare genericamente riferimento all’’ambiente’, dall’altro, correrebbe il rischio di far perdere il legame con la crisi ecologica e di rendere eccessivamente vaga la definizione.
Da un punto di vista più generale, che potremmo definire ‘politico’, parlare di ‘rifugiati climatici’ evoca l’idea distopica di un pianeta che, al variare delle zone climatiche, sta gradualmente diventando inabitabile. Si tratta di una narrazione che, oltre a essere empiricamente falsa nel modo in cui ritrae gli effetti della crisi ecologica, nei quali alle tendenze di mutazione graduale del clima vanno accompagnati, come l’attualità non manca di ricordarci con frequenza sempre più assidua, eventi estremi capaci di creare danni incalcolabili, circoscrive – perlomeno momentaneamente – il problema a luoghi specifici, contribuendo a localizzarlo altrove, allontanandolo. Perdipiù, questo meccanismo difensivo ha la conseguenza ulteriore di tradurre immediatamente la questione in un problema di sicurezza, e in un problema di sicurezza ‘classico’: l’arrivo in massa di cittadini stranieri. In questo modo, la questione ecologica viene evocata al solo scopo di fornire argomentazioni per politiche migratorie restrittive, in maniera interamente strumentale a poste in gioco politiche ‘domestiche’, costruendo minacce esterne verso cui rinfocolare attitudini paranoiche.
In questo contesto, è evidente che ogni considerazione sull’opportunità di sviluppare nuove Convenzioni – o emendare quelle esistenti – in modo da estendere alle persone costrette a emigrare dal degradamento delle proprie circostanze ecologiche assume il carattere di fantascienza. Se le migrazioni forzate dagli effetti del riscaldamento globale sono indubbiamente tra le sfide più drammatiche di un futuro già cominciato, i rattoppi umanitari sembrano non coglierne la portata politica. Come immaginarsi che gli Stati, che già non sono in grado di garantire il diritto d’asilo a chi fugge dalle persecuzioni elencate nella Convenzione di Ginevra, né dimostrano peraltro la volontà d’intraprendere scelte coraggiose che favoriscano l’abbandono repentino dei combustibili fossili, scelgano deliberatamente d’impegnarsi legalmente alla protezione di chi varca confini internazionali per fuggire da mutamenti ambientali?
Conclusione
Il concetto di rifugiato, ambientale o climatico che sia, evoca un problema epocale ma, travestendolo da ennesima battaglia umanitaria, sembra non intercettarne la radicalità. L’immagine è quella di una crisi che investe la struttura fondamentale dell’impianto politico e intellettuale della modernità: mentre gli ecosistemi mutano irreversibilmente, anche l’apparato politico degli Stati nazione, che del sogno moderno sono per molti versi stati il braccio amministrativo, sembra incapace di reinventarsi. Così, ci restituisce soprattutto l’impressione che, di quel sogno, il presente sia l’inveramento distopico: come ha scritto Bruno Latour, quello di ‘Antropocene’ – nato per nominare l’epoca in cui l’attività umana si è fatta forza geologica – è «il concetto filosofico, antropologico, religioso e […] politico più pertinente che possa essere assunto quale alternativa alle nozioni di ‘moderno’ e ‘modernità’3».
È a questa altezza che va interpretato il dibattito sui rifugiati ambientali/climatici, all’incontro tra un ottimismo politico sconfitto dai tempi (geologici) e i nuovi drammi che il futuro minaccia. In questo senso si manifesta ‘la crisi migratoria è generalizzata’4: mentre gli altri sono costretti ad abbandonare le loro terre, anche noi ci avviamo a perdere un suolo che abbiamo dato così per scontato da lasciarlo fuori dal modo in cui abbiamo pensato il politico. Evidentemente, vi sono privilegi, diseguaglianze e rapporti di potere che permangono e ancora offrono le loro garanzie a una parte di mondo rispetto ai disastri che contribuiscono a concentrare altrove – e che sarebbe indecente non tenere a mente; eppure, l’idea di una ‘crisi migratoria generalizzata’ ci aiuta a visualizzare quanto siano vani – oltre che meschini – i programmi politici che su quei privilegi, diseguaglianze e rapporti di potere fondano le proprie speranze per l’avvenire.
Così, più che rappresentare il nuovo volto dell’eccezione, le persone che migrano a causa del degradamento degli ambienti manifestano la cifra del nostro tempo: non ‘rifugiati climatici’, ma cittadini dell’Antropocene.
Note
- Institute for Economics & Peace, Over one billion people at threat of being displaced by 2050 due to environmental change, conflict and civil unrest, https://www.economicsandpeace.org/wp-content/uploads/2020/09/Ecological-Threat-Register-Press-Release-27.08-FINAL.pdf
- M. Foster, International Refugee Law and Socio-Economic Rights: Refuge from Deprivation, Cambridge University Press, Cambridge, 2007
- B. Latour, L’antropocene e la distruzione dell’immagine del globo, in Id., Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo nei conflitti ecologici, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019, pp. 121–148, p. 124
- B. Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina, Milano, 2018, p. 46