Strumenti di partecipazione attiva e consapevole

L’esperienza della Convention Citoyenne in Francia, su questioni fondamentali come il clima e il fine vita, sottolinea l’urgenza di dare nutrimento alla democrazia.

Autore

Riccardo Emilio Chesta

Data

15 Maggio 2023

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5' di lettura

DATA

15 Maggio 2023

ARGOMENTO

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In Francia si è conclusa qualche settimana fa la Convention Citoyenne per discutere la modifica di legge sull’accompagnamento al fine vita. Un simile strumento era già stato sperimentato tra il 2019 e il 2020 sulla crisi climatica. Il caso francese non stupisce di certo, in quanto già da decenni ormai – dalla legge Barnier sui dibattiti pubblici del 1995 – si sperimentano forme di democrazia partecipativa che ora vengono estese a questioni di massima urgenza come la crisi climatica e il fine vita. 

Esperienze come la Convention rispondono alla necessità di superare tanto impasse temporanee nei regimi democratici – momenti di paralisi o polarizzazione fisiologici nei cicli di vita della rappresentanza – quanto più in generale concezioni della democrazia puramente procedurali. In entrambi i casi, l’estensione della partecipazione tenta di ovviare il rischio che questioni particolarmente rilevanti e urgenti cadano nel vicolo cieco della strumentalizzazione ideologica o in quello della burocratizzazione. In questo, pur nella loro diversità, il dibattito sulla crisi climatica e sul fine vita hanno molti elementi in comune, sia di urgenza sia di rilevanza.

La questione ecologica è infatti molto più di una crisi energetica o di risorse, ma è crisi umana e naturale che riguarda direttamente il tema delle condizioni di possibilità di vita sulla Terra. A riguardo, torna in mente l’ammonimento posto da Christopher Lasch a un certo ordine del discorso catastrofico che, riducendo la crisi ecologica a questione di ‘sopravvivenza’, invece che incitare a una ribellione creativa, rischia di incitare ulteriormente al riflusso nel privato1

Ieri come oggi, la questione ecologica richiede quindi una ridefinizione globale dei principi che ispirano il modo di produzione e le forme di relazione all’ambiente che sono tanto sociali – di rapporto all’altro umano a sé simile – quanto naturali – di rapporto a forme di vita altre dall’umano ma che con questo convivono.

Come la condizione ecologica non è quindi mera questione di strumenti che garantiscano la sopravvivenza sulla Terra, così il fine vita non è riducibile a discorso tecnicistico delimitato dalla logica della medicalizzazione o dell’ideologia.

In entrambi i casi, non è possibile delegare a una pur necessaria arena istituzionale come il parlamento questioni che riguardano sfide urgenti, che coinvolgono diritti e libertà fondamentali e che eccedono dall’ordinaria amministrazione degli affari pubblici. Esigenza che si fa ancora più forte proprio in un momento di crescente astensionismo.

Su tali questioni, la logica del funzionamento democratico richiede un ulteriore ripensamento.

Secondo Alessandro Pizzorno2 la crisi della rappresentanza democratica dovuta a processi storici tanto macro – la globalizzazione dei mercati e l’aumento della disuguaglianza – quanto micro – l’individualismo utilitarista e il riflusso politico – sarebbe oggi visibile nell’incapacità dei soggetti collettivi come i partiti di dare senso alle tradizionali funzioni di rappresentanza, quella efficiente – finalizzata alla produzione di bene pubblico – e quella identificante – capace di attribuire un senso di riconoscimento in una comunità di senso.

Quasi soggetta a una distopica ‘pietrificazione meccanizzata’ di weberiana memoria, la politica sarebbe così divenuta una forma di amministrazione del consenso, composta da soggetti organizzati ridottisi a macchine votate all’auto-riproduzione elettorale, privi e incapaci di esprimere identità collettive, legati al potere di mobilitazione personale di leader la cui presenza non può che essere estemporanea, in virtù della logica effimera di legittimazione che cercano sui media, rimasti l’unico canale con cui si confrontano con i cittadini.

Seguendo tale logica, la diagnosi dello stato della rappresentanza democratica suggerisce un’esigenza di rinnovamento che attraverso nuove forme di partecipazione sia in grado di infondere nuova linfa a istituzioni pietrificate e sempre più separate dalle domande della società. 

Torna allora utile la definizione che Dewey dà di democrazia come processo che si compie nella relazione tra conoscenza e azione, ovvero come partecipazione intesa come volontà e capacità di ‘prendere parte’ al dibattito sui problemi pubblici che ci riguardano direttamente come cittadini e, di conseguenza, nel ‘diventare parte’ di una comunità3. In questo, la partecipazione è in primis esperienza collettiva di apprendimento ed ‘espertificazione’, intesa sia come produzione di conoscenza condivisa del problema in causa che come forma di attivazione ed educazione politica che deriva dalla condivisione della responsabilità del potere. La proposta deweyana mostra quindi delle possibilità che superano in parte letture come quelle di Walter Lippmann che descrivono una cittadinanza sotto scacco di fronte alla complessità dei problemi pubblici e vittima della ‘fabbricazione’ delle opinioni da parte dei gruppi organizzati più potenti capaci di imporre la loro agenda4

Le esperienze francesi delle due Convention citoyennes sul clima e sul fine vita sono particolarmente rilevanti in tal senso. Non era facile riproporre il tema delle virtù della partecipazione in un momento in cui il dibattito era principalmente occupato a spiegare l’ondata populista e l’entità del suo potenziale ‘regressivo’ di mobilitazione. Eppure, l’esperienza francese ha mostrato come anche nel pieno del conflitto esista lo spazio dell’innovazione, seppur all’interno di determinati vincoli e senza dimenticare anche le logiche di opportunità politica che l’hanno motivata.

Certo, per comprendere l’importanza dello strumento partecipativo è necessario quindi definire altrettanto bene sia l’aspetto procedurale sia le sue implicazioni politiche reali, distinguendolo dalle sue evocazioni retoriche e strumentali.

Negli ultimi anni, infatti, l’interesse tangibile per le forme di partecipazione è sfociato spesso in un mero fenomeno d’inflazione del discorso sganciato da un reale impegno verso la messa in atto di esperienze rilevanti di innovazione democratica.

L’evocazione della partecipazione, o la sua messa in atto parziale, ha corso il rischio di tramutarne le potenzialità nel suo rovescio, ovvero in artificio procedurale e retorico, politicamente strumentale, applicato su temi marginali o irrilevanti, incapace di incidere sui temi salienti, nonché di coinvolgere gruppi che non siano quelli che già contano in società.

E proprio per questo le due esperienze di Convention Citoyennes appaiono alquanto inusuali. Sono infatti sorte in un periodo e in un contesto tutt’altro di riflusso, in una Francia attraversata da movimenti di contestazione che hanno messo a dura prova la tenuta del governo e attraversato un momento delicato come quello dell’emergenza pandemica.

La Convention sur le climat è una proposta emersa direttamente dal Grand Débat National, altro strumento di consultazione cittadina lanciato già nel Gennaio del 2019 dal presidente Macron, in risposta alla crisi innescata dalle mobilitazioni dei Gilets gialli, e volto ad affrontare in maniera più larga quattro tra le questioni politiche più urgenti in quel frangente (transizione ecologica, fiscalità, cittadinanza democratica, organizzazione dello Stato e dei servizi pubblici).

Lo strumento è stato facilmente esposto a critiche che hanno riguardato la direzione, l’organizzazione, e infine la composizione sociale dei partecipanti estratti a sorte, persone le cui caratteristiche venivano giudicate troppo rappresentative dell’elettorato di Macron (prossime o in età pensionabile, di classe media e con una istruzione medio-alta).

Insomma, l’esperienza del Gran Débat è stata un’innovazione democratica o una più evoluta forma di governamentalità politica, volta all’addomesticamento del conflitto? Quel che è certo è che è stata generativa di nuovi spazi di sperimentazione democratica: direttamente, con la Convention citoyenne sul clima e, indirettamente, sollevando poi l’opportunità di una sua applicazione sulla questione del fine vita.

Sul clima, il principale contributo della Convention sta nell’aver evidenziato la capacità della cittadinanza di confrontarsi su tematiche urgenti e connotate da alta complessità tecnico-scientifica. 

Nel caso del fine vita, l’appello alla cittadinanza nasceva in parte da esigenze diverse, in primis da una incapacità da parte delle forze politiche all’Assemblea Nazionale di riformare la legge Clayes-Leonetti, paralizzate dalla polarizzazione tra autorità mediche e religiose su temi dai grandi connotati etici come l’accompagnamento alla morte, il suicidio assistito e l’eutanasia.

Ma al di là della diversità delle questioni, le due esperienze mostrano elementi generali di interesse su come concepire nuovi strumenti democratici per superare le impasse della crisi delle forme di deliberazione democratica.

Innanzitutto, la qualità della proposta democratica ha bisogno di luoghi di dibattito che si contrappongono alle logiche di interesse e di agenda setting precostituite di gruppi organizzati come gli attuali partiti, sempre più legate a logiche di breve termine e di consenso elettorale.

Inoltre, la complessità scientifica ed etica delle questioni richiede tempi adeguati dove sia possibile sviluppare un’autentica riflessività democratica che produca conoscenza adeguata sullo stato dei problemi così come sulle possibili soluzioni. L’ ‘expertise condivisa’ prodotta dai cittadini – così è definita nel report finale della Convention sul clima – è il risultato di circa 6 mesi di studio e dibattito (durata media di entrambe le Conventions).

Inoltre, l’estensione e il pluralismo della partecipazione producono conoscenze più ricche. Le centinaia di cittadini estratti a sorte hanno rappresentato una massa critica nettamente superiore a qualsiasi commissione parlamentare e la diversità del pubblico si è tradotta in una maggior ricchezza delle proposte.

L’articolazione di questi livelli di partecipazione cittadina con comitati tecnici e di esperti ha mostrato quindi la fertilità di modelli di sperimentazione politica che mettano in relazione pluralismo scientifico e democratico. 

Certo, i giudizi delle due Conventions non sono vincolanti e in ultima è sempre il Parlamento, come previsto dall’architettura costituzionale, a decidere. Ma rappresentano, seppur con i loro vincoli, due esperienze preziose, perché in grado di arricchire la deliberazione in tempi in cui ci limitiamo a diagnosticare le storture di una eventuale regressione democratica che ci appare anche etica e culturale. Sono invece ancora molti gli strumenti da inventare per affrontare problemi la cui urgenza prescinde dalla scala di grandezza, che sia il futuro della vita sulla Terra o la libertà di decidere di quale sia una vita degna di essere vissuta.

Note

  1.  C. Lasch, L’Io Minimo. Feltrinelli, Milano, 1985.
  2. A. Pizzorno, Sulla Razionalità della Scelta Democratica, in «Stato e mercato», n. 7, Aprile, 1983, pp. 3-46
  3. J. Dewey, The Public and its Problems, Holt, New York, 1927.
  4. M. Schudson, The ‘Lippmann-Dewey Debate’ and the Invention of Lippmann as Anti-Democrat 1985-1996, in  «International Journal of Communication», Vol. 2, 2008, pp. 1031-1042.
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