L’essere umano è un animale straordinario. Ciò dipende in larga misura dal fatto che può non solo adattarsi, ma creare l’ambiente in cui vive, grazie alla cultura.
Allo stesso tempo, tuttavia, è anche un animale molto fragile, perché gli ambienti prodotti dalla sua amplissima disponibilità simbolica necessitano di continua manutenzione e di costante trasmissione che si realizzano attraverso ‘concrete materialità’ di cui gli umani non possono fare a meno 1.
La cultura, caratteristica principale della nostra specie, necessita infatti di una struttura sociale, di un’organizzazione, di una comunicazione efficace, di trasmettere e raccogliere informazioni, di mezzi per garantire la sopravvivenza.
Tutto questo permette di pensare alla comunità umana – e ai suoi modi di agire – come esiti di quella che Marshall Sahlins 2 ha definito – rielaborando le riflessioni di Lévi-Strauss sul principio di reciprocità – «mutuality of being».
Pur riferendosi specificatamente alle forme di parentela, questo concetto è utile per pensare in forma più ampia alle relazioni che attraversano e compongono le nostre comunità, a partire dalla condivisione di una ‘esistenza comune’, inevitabilmente costruita culturalmente in modi diversi.
Come ha suggerito Remotti 3, siamo condividui più che dividui o individui: soggetti che nell’individualità si disgregano e che dunque necessitano di una rete di relazioni che costituisce l’intelaiatura della vita stessa.
Umani e non umani
La letteratura più recente ha messo in luce come la reciprocità dell’essere non si limita alla sfera dell’umano, ma di fatto riguarda le relazioni tra umani e non umani. Tale comprensione è frutto di un ripensamento della nota, e apparentemente innegabile, distinzione natura/cultura.
Un tempo considerate come domini indiscutibilmente autonomi, natura e cultura emergono oggi come ‘costrutti culturali’, in ultima analisi esito di un’invenzione. Questo processo è frutto di un ripensamento dell’ambiente e delle relazioni umane con questo 4.
Secondo Raffaetà, a partire dagli anni Settanta, infatti, l’ambiente è stato progressivamente inglobato nella sfera d’interesse umano. Dagli anni Novanta, questo è stato assorbito dalla narrazione capitalistica, principalmente grazie alla nozione pregnante – ma a tratti ambigua – di sviluppo sostenibile e all’istituzionalizzazione del discorso ambientalista. Questo processo si è poi intensificato nel XXI secolo. Tuttavia, come articolato da Descola 5 e altri dopo di lui, da qualche tempo si assiste al passaggio da una prospettiva antropocentrica a una cosmocentrica, secondo la quale – in una logica analogica – umani e non-umani sono considerati parti della medesima collettività. Condividono, in ultima analisi, la stessa reciprocità dell’essere, a partire da un comune sforzo di tutela del pianeta.
Quest’ultimo appare oggi, nell’Antropocene, inteso come nuova epoca geologica che valorizza i cambiamenti planetari con cause antropogeniche e marca, allo stesso tempo, il riconoscimento della profonda commistione tra gli esseri umani e la natura e la loro interdipendenza nel determinare le sorti del pianeta 6, particolarmente urgente.
Il relational thinking
Si rende dunque necessario adottare un ‘relational thinking‘ 7per mettere a valore i legami tra esseri umani, non umani e ambiente. Luigi Pellizzoni ha sostenuto l’istituzione di un ‘umanesimo critico’ 8, che porterebbe a dare valore alle cose senza necessità di definire cosa sia esattamente la natura o quale la gerarchia tra specie. Ciò appare tanto più indifferibile oggi, in una fase storica in cui riusciamo a immaginare la fine del mondo (in maniera molto confusa, perché ci mancano gli strumenti culturali per farlo). Ma non la fine del sistema che ci ha portato fino a questo punto 9.
A mio modesto avviso, questo processo di ripensamento dovrebbe partire dalla risemantizzazione – veicolata da politiche pubbliche, pratiche quotidiane, immaginari – dell’ambiente più intimo, e per questo più politico, da cui le nostre esperienze prendono vita e forme: la casa.
La parola abitare, da cui deriva la sicurezza ontologica del fare e sentirsi a casa 10, ha la radice comune al verbo latino habeo. Avere, precisamente ‘continuare ad avere’: detto in altri termini, «avere consuetudine in un luogo». Abitare indica dunque una sorta di continuità spazio-temporale. Un sistema istituzionale ‘perenne’, un’abitudine permanente, fondata sulla capacità di dare forma e senso al proprio ambiente di vita e ai propri bisogni.
Abitare e costruire
Attraverso un esercizio etimologico, Heidegger ha analizzato la parola tedesca bauen, che significa costruire (to build). Bauen deriva dall’inglese antico buan, che significa abitare – to dwell 11. Secondo il filosofo, in passato il senso dell’abitare (buan) non era limitato alla sfera domestica, ma si espandeva fino al punto in cui «io abito» era come dire «io sono», racchiudendo un senso più ampio, cioè «vivere la propria vita sulla terra».
Bauen inoltre possiede altri due significati: il primo è quello di preservare, prendersi cura o, più specificatamente, coltivare; il secondo è quello di edificare, fare qualcosa, erigere un edificio. Questi due ultimi sensi sono dunque compresi nel significato originario di abitare. Ora quest’ultimo è andato perso e con il termine bauen (to build) ci si riferisce unicamente alla coltivazione o all’edificazione.
Così Ingold: «Avendo dimenticato come le attività citate siano radicate nell’abitare, il pensiero moderno riscopre quindi l’abitare come occupazione di un mondo già costruito. In breve, se prima il costruire era circoscritto dentro l’abitare. Ora la posizione è ribaltata, con l’abitare circoscritto dentro il costruire. L’obiettivo di Heidegger è recuperare la prospettiva originale […]. «Non abitiamo perché abbiamo costruito, ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo, ovvero perché siamo abitanti. […] Solo se siamo capaci di abitare, solo allora possiamo costruire» 12».
Se accettiamo, al contrario, di vivere in un mondo già costruito, allora dobbiamo assumerci la responsabilità delle conseguenze a cui ciò porta, in particolare per coloro che non hanno le risorse per potersi garantire il possesso di una abitazione. Tra queste, la disgregazione del nucleo famigliare, la de-territorializzazione continua. Il declassamento sociale, l’interruzione delle progettualità di vita, la perdita degli affetti, l’inserimento in circuiti assistenziali. L’emergere di stress emotivo e psicologico 13.
Conclusioni
La casa dovrebbe dunque essere messa al centro non solo delle preoccupazioni dei cittadini, ma anche e soprattutto di chi governa, al fine di trasformare ciò che, al momento, rappresenta il simbolo dell’individualità, della famiglia, della chiusura, dell’ordine, dell’identità nazionale, della proprietà, in simbolo di collettività, comunità, apertura, ibridazione, condivisione. Restituendo centralità alla questione domestica.
E, in maniera più ampia, alla questione abitativa, in una logica di mutualità e reciprocità, l’abitare potrebbe avere le potenzialità per trasformarsi in coabitare, l’individualità in collettività, i beni privati in beni comuni. In ultima analisi, la casa potrebbe rappresentare il perno di un ripensamento del rapporto che ci lega, in maniera dialettica, all’ambiente circostante, al fine di promuovere, una volta per tutte, la mutualità dell’essere come dimensione imprescindibilmente e irrimediabilmente umana. In questo modo, ci sarebbero anche le condizioni per re-incantare il mondo e, dunque, per costruirlo, prendersene cura e abitarlo.
Note
- Vereni, P. 2020, Note antropologiche sul Coronavirus, Vita, 11 marzo 2020.
- Sahlins, M. 2011, What kinship is (part one), Journal of the Royal Anthropological Institute, 17(1), pp. 2-19.
- Remotti, F. 2019, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Roma.
- Raffaetà, R. 2017, Salute e ambiente in tempi di Antropocene, Antropologia, 4(1), pp. 121-135.
- Descola, P. 2011, L’écologie des autres. L’anthropologie et la question de la nature, Editions Quae, Versailles.
- Lewis, S. L., Maslin, M. A. 2015, Defining the Anthropocene, Nature, 519(7542), pp. 171-180.
- Candea, M., Cook, J., Trundle, C., Yarrow, T. eds., 2015, Deatchment. Essays on the limits of relational thinking, Manchester University Press, Manchester.
- Pellizzoni, L. 2015, Ontological Politics in a Disposable World: The New Mastery of Nature, Surrey, Ashgate.
- Fisher, M. 2018, Realismo capitalista, Not, Roma.
- Madden, D., Marcuse, P. 2020, In difesa della casa. Politica della crisi abitativa, a cura di Barbara Pizzo, Edit Press, Firenze.
- Heidegger, M. 1993 [1971], Building Dwelling Thinking, in Basic Writings, Harper Collins, New York, pp. 343-364.
- Ingold, T. 2000, The perception of the Environment, Routledge, London, New York, p. 185.
- Pozzi, G. 2020, Fuori casa. Antropologia degli sfratti a Milano, Ledizioni, Milano.