Le sfide di oggi hanno tutte un tratto comune: sono dilemmi cooperativi, ossia postulano la cooperazione per essere risolti. Un’evidenza, questa, troppe volte nascosta o addirittura taciuta nei dibattiti e nelle ricette che si elaborano per immaginare un futuro migliore.
La dimensione ‘sindemica‘ della pandemia (ossia la sua origine connessa alle profonde e crescenti disuguaglianze che stiamo sperimentando) e l’assurdità di una guerra che certifica l’incapacità ancora molto diffusa di ricomporre il conflitto con logiche collaborative, evidenziano la necessità di una nuova generazione di istituzioni e di politiche capaci di rendere l’innovazione sociale un tratto identitario e misurabile in termini di cambiamenti generati.
Siamo chiamati a ri-disegnare non solo i comportamenti, ma anche la natura delle istituzioni rendendole intenzionalmente inclusive, aperte e partecipative. Istituzioni radicali.
Ma cos’è radicale? A mio modesto avviso la dimensione radicale dell’innovazione sociale non è un richiamo all’adeguatezza della prassi, bensì un richiamo all’emersione della ‘radice’, ossia dell’intenzionalità di una scelta: un oggetto svuotato o ridotto nella sua essenza non è appena depotenziato o strumentalizzato, ma diventa altro, fino ad assumere le sembianze degli interessi da cui è influenzato.
Ci siamo appellati e lo stiamo facendo tutt’ora a un sempre più urgente ‘cambio di paradigma’ – ma ancora manca una risposta corale capace di mettere in discussione i modelli di sviluppo dominanti (di cui spesso celebriamo le innovazioni in ambito sociale).
L’innovazione sociale per cambiare
Credo che l’innovazione sociale, come misura per un cambio istituzionale da declinarsi in una dimensione diffusa e territoriale, sia un buon punto di partenza per alimentare una necessaria discontinuità. Non si tratta, infatti, di mettere in campo una contro-narrazione rispetto ai modelli di sviluppo mainstream, ma di proporre un insieme di pratiche fra soggetti diversi che aspirino a costruire una concreta alternativa nei modi di immaginare il futuro partendo da territori e valorizzando la prossimità.
La radicalità, chiede infatti a chi la coltiva, l’obbligo di dar conto (o meglio di rendersi conto) di ciò a cui si è radicati.
Per molti il punto sorgivo è il bene comune e la comunità; per altri, il bene privato e una vaga e strumentale comunanza. Ecco perché diventa rilevante, nelle strategie d’innovazione sociale, porre molta attenzione a 4 vettori:
- le intenzioni. È indispensabile infatti partire da un orientamento inclusivo dei promotori, al fine di promuovere una competizione reale, ossia intesa come cumpètere (andare verso insieme);
- il design del processo. Mezzi, fini e modelli organizzativi devono essere coerenti e armonici. L’enfasi va posta innanzitutto sulla qualità del processo (strutturalmente aperto) più che sull’esito;
- l’impatto sociale è centrale, ma va inteso come esito, non controllato, di un percorso intenzionale teso a valorizzare persone e capacitare istituzioni. Un percorso non di accountability, ma utile al decision making e a stimolare ‘cambiamenti desiderati‘ – ancor prima che definire una rigida griglia di indicatori;
- (dulcis in fundo) l’alba di ogni processo non deve separare produzione da redistribuzione. Occorre perciò esplicitare dove va il valore aggiunto e come si distribuisce il potere, al fine di evitare processi estrattivi o diversamente oligopolistici.
La sfida dell’innovazione sociale è un percorso che chiede a tutti i soggetti socio-economici di ‘andare oltre sé’. Un po’ come suggerisce Camus, quando dice «Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che prima cambi la vita di colui che l’esprime».