Ci sono cose che capitano così, con uno zac! improvviso, quando meno lo aspetti.
Di quelle che funzionano come i quadri di Novecento, fermi lì, immobili per non si sa quanto tempo, in pace, finché arriva il momento, un momento qualsiasi oppure esattamente quello che stavano aspettando da sempre, e trac! cadono giù senza un perché (oppure con tutti i perché del mondo).
Ecco, a me è successa una cosa del genere. Ero comodamente avviato sui binari di una vita da avvocato, nella luce al neon di uno studio internazionale del centro patinato di Milano, giacca e cravatta stirate ogni mattina, il suono delle scarpe eleganti sugli scalini dell’ufficio. Se ci ripenso sento ancora addosso i risvegli morbidi con cappuccino e orologio al polso, le telefonate serene con mamma nei sabati pomeriggio, i ritorni in taxi dagli aperitivi serali. E poi, d’improvviso, il ‘momento-quadro’ che arriva.
Senza troppo trambusto, così, d’improvviso; la luce al neon che si fa troppo bianca, il suono delle scarpe eleganti sugli scalini di marmo troppo stridulo, la morbidezza dei risvegli troppo floscia. In quell’istante, un quadro che per mesi e mesi era rimasto perfettamente appeso alla parete fa sbeng! e cade giù, a terra. Ho salutato l’ordinaria solidità di una vita da consulente legale per trasferirmi come volontario residente in una casa di accoglienza per senza dimora e donne vittime di tratta.
Al ritmo cadenzato di una carriera scritta ha fatto posto la perfetta incertezza di un vortice di storie spezzate, aggrovigliate attorno alla speranza di un domani più umano. Oggi, a ripensarci, ad anni di distanza, dopo che il vortice mi ha portato a seguirne i flussi storti su tre continenti diversi, mi chiedo ancora il perché. E ogni volta che la domanda mi si ripresenta davanti trovo una risposta nuova.
Questa mattina, ad esempio, la risposta l’ho trovata nel sorriso di una donna guatemalteca sulla cinquantina, pupille vispe e pelle bruciata dal sole del campo, grata ad Amka OdV, l’organizzazione no-profit con la quale lavoro a progetti di crescita sociale nelle comunità rurali del Petén, per averla aiutata a coltivare nel suo orticello alberi da frutto che presto daranno da mangiare alle sue quattro figlie. Se il raccolto andrà bene, «vendendo i frutti potrò pagarci anche gli studi della più grande, sai con il papà morto durante il conflitto armato sarebbe difficile farcela altrimenti» – mi dice, reggendo tra le mani una foglia di avocado a mo’ di reliquia.


Ecco, lo sguardo di Doña Maria verso un futuro finalmente dignitoso per le proprie figlie rappresenta oggi il perché di uno strappo avvenuto anni fa, che continua a tenermi stretto ad un instabile vortice di umanità e storie semplici. Storie semplici come la sua e infinite come il sogno di giustizia che porta dentro.
Nei prossimi articoli vi parlerò di altre storie ‘semplici’ che ho incontrato in giro per il mondo…