La medicina delle differenze

Sembra naturale che donne e uomini, differenti per anatomia e fisiologia, ricevano cure specifiche quando si ammalano. E invece la scienza non è stata equa.

Autore

Cinzia Ballesio, Silvia De Francia

Data

22 Aprile 2025

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6' di lettura

DATA

22 Aprile 2025

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Medicina di Genere, o meglio, Medicina Genere-Specifica

È opinione condivisa che la salute sia un diritto uguale per tutte e tutti. La nostra Costituzione del resto, con l’articolo 32 pone accanto alla parola ‘salute’ l’aggettivo ‘fondamentale’: il diritto a star bene, in sostanza, ci spetta dalla nascita. Nessuno ce lo può dare, nessuno ce lo può togliere. Ma si tratta, purtroppo, ancora, per certi versi, di pura fantasia: è opinione altrettanto condivisa che il diritto alla salute, pur essendo un diritto, non arrivi ovunque con la stessa forza. Esistono angoli di mondo (e non solo angoli) in cui ancora igiene alimentare, sicurezza sul lavoro e ammortizzatori sociali sono traguardi irraggiungibili. E, in tale profonda disuguaglianza, nonostante i vincoli posti dalla nostra Costituzione e, soprattutto, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, un ulteriore passo nella disanima del concetto di salute può essere decisamente fatto. A guidare nella riflessione, la definizione di Medicina di Genere, o, meglio, Medicina Genere-specifica, come riportata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ossia «lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona».

Questo è stato il punto di partenza del nostro libro. Io e Cinzia, guidate da Silvia, con l’aiuto di Tullia e Sergio, tanto abbiamo discusso del senso della definizione di Medicina di Genere. Tanto ne abbiamo parlato che abbiamo subito, intanto, capito che era impossibile declinarla in un’unica dimensione. Allora, per questo motivo, La Medicina delle Differenze declina il concetto di Medicina di Genere da almeno tre diversi punti di vista: storico, clinico e giuridico. Del resto, per approcciare, si spera, al meglio, il tema della ‘differenza’, un unico punto di vista non può bastare. Perché, intanto, dire ‘differenze’ e dire ‘disuguaglianze è ben diverso.

Disuguaglianze o Differenze?

Quante disuguaglianze esistono nelle regioni del mondo? Disuguaglianze che, in termini socio-economici, non vorremmo più trovare, a garanzia del concetto di eguaglianza interindividuale. E quante differenze dovrebbero invece esserci, a garanzia di un approccio che tenga conto delle variabili che caratterizzano ognuno di noi, e che invece vengono ripetutamente ignorate nel quotidiano. Piuttosto che su un generico concetto di ‘uguaglianza’ sarebbe, infatti, corretto basarsi sul concetto di ‘equità’.

A guidare ogni studio dovrebbe essere il raggiungimento di un livello di parità, infatti, ferme restando le diversità iniziali che caratterizzano ogni individuo. Ebbene, questa parità, come in molti altri campi, non si riscontra affatto nella scienza medica, una disciplina fin dalle origini fortemente androcentrica. Una disciplina che ha a lungo escluso i modelli femminili dagli studi epidemiologici di malattia e dalla sperimentazione clinica e preclinica dei farmaci, relegando gli interessi per la salute femminile ai soli aspetti correlati alla riproduzione. Nella ricerca clinico-scientifica, dunque, il tema delle differenze biologiche e di genere è storia recente. A segnarne l’inizio una cardiologa americana, Bernardine Healy, che nel 1991 pubblica un editoriale sul ‘New England Journal of Medicine’, La sindrome di Yentl, ispirato proprio alle vicende di Yentl, l’eroina di un romanzo che, per poter accedere alla scuola ebraica, si taglia i capelli e si veste da uomo. Healy nell’articolo evidenzia la discriminazione che aveva nel tempo osservato sul luogo di lavoro: le donne erano significativamente meno sottoposte a indagini diagnostiche, interventi e terapie per patologie cardiovascolari rispetto agli uomini, perché segni e sintomi di malattie cardiovascolari, sino ad allora, erano principalmente stati investigati su soggetti maschili, quindi, nelle donne, poco riconoscibili. L’articolo suscitò molto scalpore in tutto il mondo.

Nasce così la Medicina di Genere, il cui obiettivo è comprendere i meccanismi attraverso cui le differenze biologiche e di genere agiscono sull’insorgenza e il decorso di molte malattie, nonché sui risultati delle terapie. Gli uomini e le donne, infatti, pur essendo soggetti/e mediamente alle medesime patologie, spesso presentano sintomi, progressione di malattia e risposta ai trattamenti molto diversi tra loro. Lo studio della salute della donna, dunque, non può e non deve essere circoscritto alle patologie esclusivamente femminili ma deve rientrare nell’ambito di tutta l’analisi medica che, parallelamente al tener conto che il bambino non è un piccolo adulto, e la popolazione anziana è caratterizzata da condizioni peculiari, deve aver presente che la donna non è una copia più leggera dell’uomo.

È davvero ora di cambiare

In seguito al riconoscimento del ‘genere’ nella programmazione 2014-2019 da parte dell’OMS, nel 2016 finalmente in Italia si comincia a parlare a livello normativo di ‘genere’ come determinante di salute. È poi di giugno 2019, il Piano per l’Applicazione e la Diffusione della Medicina di Genere in Italia, in attuazione dell’articolo 3 della legge 3 del 2018. Il Piano si fonda su quattro principi cardine. Il primo indica che l’approccio sesso e genere specifico deve entrare in tutti i PDTA (percorsi diagnostici terapeutici assistenziali) ospedalieri, ossia nella quotidianità dell’approccio clinico, dalla diagnosi alla cura alla riabilitazione. Il secondo principio prevede che la lente sesso e genere specifica sia applicata alla ricerca clinica e psicosociale; il terzo riguarda formazione ed aggiornamento professionale, pratiche in cui la Medicina di Genere è ancora pressoché assente, mentre il quarto spiega che la diffusione di tale approccio deve passare anche al grande pubblico. Molta teoria, poca pratica ancora, purtroppo. Il Piano, invece, deve entrare presto e concretamente in tutte le realtà indicate, dai protocolli ospedalieri alle redazioni giornalistiche. Perché l’applicazione dell’ottica di genere non serve soltanto per implementare le conoscenze sui diversi aspetti patologici o sulle differenze di risposta ai trattamenti farmacologici: serve anche per adeguare l’intervento sulla salute in modo complessivo, integrando tutti gli aspetti che concorrono con pesi diversi al benessere di ciascuno/a di noi. Salvaguardare il diritto alla salute di uomini, donne, persone trans* è un atto doveroso e di civiltà: per l’oltre mezzo milione di persone trans* che vivono in Italia, ad esempio, al momento pochissime sono le informazioni disponibili sull’andamento delle più comuni malattie, senza dimenticare la mancanza di formazione del personale sanitario nell’accoglimento dei bisogni specifici di queste persone, carenza da colmare prima possibile. È davvero ora di cambiare. 

Farmacologia Sesso e Genere-Specifica

Le malattie, dunque, per lungo tempo osservate e studiate soltanto sugli uomini, devono essere necessariamente anche ritarate sul modello femminile (e non solo). Ciò deve anche necessariamente valere in campo farmacologico. Eppure la maggior parte dei farmaci, fino ai primi anni Novanta, è stata testata soltanto su individui di sesso maschile. Le donne? Ad esclusione di patologie femminili, tagliate fuori da ogni sperimentazione. Uomini e donne possono dunque assumere i farmaci in modo identico? I farmaci presentano il medesimo profilo di sicurezza e tossicità per popolazione maschile e femminile? La risposta è no.

Negli studi di sperimentazione resta, infatti, ancora in parte, una scorretta metodologia operativa, basata sull’esclusione del modello femminile. Perché si parte dall’assunto che uomini e donne, oltre la sfera sessuale, siano eguali, e che, dunque, non occorra testare il farmaco in base al sesso ed al genere di appartenenza. Escludere il modello femminile dai test, del resto, semplifica l’analisi, garantendo un campione omogeneo: le donne hanno il ciclo mestruale, partoriscono, vanno in menopausa. Studiare un farmaco su un campione prevalentemente costituito da maschi è più semplice, oltre che meno costoso. Eppure, secondo l’Istat le donne consumano più farmaci, abbinandoli, per altro, più di frequente, e associandoli anche, molto spesso, a rimedi fitoterapici. La partecipazione delle donne agli studi di sperimentazione farmacologica sarebbe, dunque, necessaria per ogni farmaco: negli ultimi anni si è osservato un parziale arruolamento del modello femminile nei nuovi studi ma in modo non ancora sufficiente. A conti fatti, molti dei farmaci oggi di largo consumo sono stati testati, prima dell’immissione in commercio, soltanto sugli uomini, dall’aspirina agli anti-ipertensivi, funzionando per questo motivo meglio negli uomini. La sotto-rappresentazione nel tempo del modello femminile negli studi di sperimentazione preclinica e clinica dei farmaci ha dunque contribuito alla scarsa conoscenza in merito all’andamento della risposta ai farmaci nelle donne, relegando la popolazione femminile a maggior tossicità (spesso inattesa) e maggiori effetti collaterali. Eppure il cammino che porta alla commercializzazione di un farmaco è un iter piuttosto lungo: oggi tale cammino deve necessariamente prevedere un’inclusione paritaria per sesso (e per genere!), al fine di consegnare alla popolazione un farmaco che, una volta messo in commercio, funzioni bene sul più alto numero di persone possibile.

In conclusione

L’impegno, dunque, a perseguire l’approccio sesso e genere specifico nella terapia come nell’assistenza come unica via per garantire a ciascuno/a di noi di essere adeguatamente curato/a, in funzione delle specificità biologiche e di genere che ci caratterizzano fin dalla nascita e poi nel corso della vita. Impegno che deve essere sviluppato su più fronti. In primis quello della clinica, nello sviluppo di linee guida terapeutiche che tengano conto delle variabilità interindividuali, quindi sul fronte della ricerca. Un altro fronte su cui portare avanti tale approccio è quello istituzionale: dobbiamo portare nei tavoli operativi e regolatori la Medicina Genere-Specifica, perché ci riguarda tutti e tutte e, se applicato, può cambiare la vita di ciascuno/a di noi. Ma conta anche moltissimo la comunicazione del tema. Semplificare all’occorrenza, condividendo dati scientifici e divulgativi il più possibile, può essere l’unico modo per aumentare la consapevolezza e la conoscenza dell’approccio sesso e genere specifico nella cura e nell’assistenza, che è possibile, se in campo mettiamo impegni congiunti.

Allora ben vengano libri come il nostro, nati in piena epoca COVID-19, ma ancora richiesti, ancora presentati, perché, evidentemente, il tema è ancora, purtroppo molto moderno e poco indagato. La Medicina delle Differenze nasce dalla forza e dalla determinazione di una piccola casa editrice piemontese, La Neos Edizioni: il fulcro è la ricerca di Silvia, le gambe sono di Cinzia, l’affetto e la compagnia, nei loro scritti che impreziosiscono il testo, di Tullia e Sergio.

Il libro offre anche una galleria di ritratti biografici di donne che, poco note o comunque poco riconosciute, hanno dato e continuano a dare un contributo essenziale non solo alla medicina, ma al suo esercizio, alla sua applicazione ed ai diritti ad essa connessi. Molta strada, nell’aumento della conoscenza, anche grazie a questo libro, è stata fatta, molta è ancora da fare, percorso irrinunciabile se l’obiettivo è quello della costruzione di una sanità equa e inclusiva, fondata sulla giustizia sociale.

Il 12 marzo 2025 si è tenuto l’evento Salute in Equilibrio presso la Fondazione Eni Enrico Mattei. Le autrici di questo articolo sono state tra le relatrici dell’evento insieme a Roberta Gualtierotti, Giovanna Maria Pelà, Miriam Iezzi, Sara Manetta, Nicoletta Orthmann.

https://www.feem.it/events/feemale-salute-in-equilibrio-nuove-frontiere-della-medicina-di-genere

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