Nel campo dell’epidemiologia si stanno sempre più producendo modelli di saperi ‘partecipati’. Sono casi che certificano di una duplice trasformazione, delle modalità di produzione della scienza e di necessità di partecipazione. Cittadini residenti vicino a industrie inquinanti, comitati che si organizzano per rilevare lo stato di qualità dell’aria, comunità di pazienti che discutono della propria salute: l’epidemiologia contemporanea è sempre più consapevole della necessità di coinvolgere in tutte le fasi i soggetti nel proprio lavoro scientifico.
Non si tratta di una mera informazione di contenuti scientifici sulla salute, di una comunicazione dei rischi o di una divulgazione, seppur professionale, delle evidenze scientifiche. Non è nemmeno una mera ridefinizione linguistica di processi di citizen science, di solito volti a stimolare la curiosità scientifica come nel celebre caso dello storico osservatorio di ornitologia della prestigiosa Cornell University1.
Si tratta di una pluralità di procedure e prassi di ‘co-produzione’ che portano la cittadinanza a sollevare questioni e ipotesi di ricerca, produrre osservazioni, discutere con esperti scientifici e partecipare a diverse fasi e livelli alla ricerca scientifica e alla produzione di nuove conoscenze. Nel dibattito internazionale, tali fenomeni variano in termini di scala geografica e di campo ma fanno parlare comunemente di una sempre maggiore centralità della ‘cittadinanza scientifica’ nella vita pubblica.
D’altronde già negli anni Settanta Jürgen Habermas aveva segnalato come il dibattito sulla scientizzazione della politica portava simmetricamente a mostrare anche il lato della politicizzazione della scienza2.
In particolare quando la scienza tocca dimensioni fondamentali della vita, troppo rilevanti per essere meramente delegate ad autorità istituzionali o esperte, ecco che sono le sue stesse procedure, insieme a quelle democratiche, a chiedere di essere ripensate. È un ampio dibattito che si è affermato anche in teoria politica: quando evidenze scientifiche prodotte da agenzie sanitarie o per la protezione ambientale vanno direttamente a incidere sulla vita delle persone e sui diritti fondamentali quali la salute, le forme di expertise come di rappresentanza tradizionale non bastano più.
Storicamente, sono stati purtroppo anche casi drammatici come i grandi disastri ambientali di Seveso o Chernobyl, o di grandi epidemie come l’AIDS, che hanno mostrato la necessità di nuove relazioni tra scienza e democrazia, di expertise che fossero ‘socialmente robuste’3.
Ma seppur queste crisi abbiano contribuito a sviluppare riflessioni ed esperienze sul diritto all’ informazione in materia di rischi e stato dell’ambiente, portando anche a nuovi strumenti, come direttive europee – si pensi alle diverse edizioni delle ‘Seveso’, proprio in riferimento all’incidente italiano – in molti casi questi stessi strumenti sono stati confinati entro arene troppo ristrette, spesso scemando nella burocratizzazione.
È possibile, infatti, su rischi così rilevanti, su problematiche così salienti che riguardano la vita stessa di comunità intere, di popolazioni, limitarsi al parere di pochi esperti o a questioni di corretta comunicazione del rischio? Approcci di questo tipo appaiono indubbiamente riduttivi quando non ingenui.
In diversi documentati casi, la storia della salute pubblica non è la mera storia delle innovazioni da laboratorio avvenute tra le mura delle istituzioni mediche o nelle stanze dell’ingegneria istituzionale. È la storia della mobilitazione di comunità che, attivatesi per difendere le condizioni di salute, hanno sviluppato nuovi processi di mobilitazione e produzione scientifica.
Questo è avvenuto a diverse scale geografiche ma mostrando anche interessanti somiglianze. A fine anni Settanta a Love Canal, nello stato di New York, comunità di cittadini esposte alle nocività derivanti da sostanze chimiche depositate in discariche illegali organizzarono le prime forme di coproduzione sfidando il silenzio istituzionale e l’omertà delle corporation. Gruppi di cittadini si attivarono anche a Woburn, nel Massachussetts, per spiegare l’insorgere di leucemie tra bambini in ambienti esposti a tossine di origine industriale. Malattie sospette che venivano osservate dai residenti non generarono solo indignazione, ma portarono a coinvolgere scienziati che collaborarono a raccogliere con gli stessi cittadini dati confrontando le cartelle cliniche. È la nascita di quella che venne descritta come l’ ‘epidemiologia popolare’4, per certi versi antesignana dell’odierna epidemiologia partecipata. Era un tempo dove le relazioni tra scienza e società erano ancora dominate dal cosiddetto ‘paternalismo scientifico’, dall’idea che le istituzioni scientifiche fossero ancora il luogo esclusivo di produzione e possesso di saperi scientifici e che il problema principale fosse colmare il gap di conoscenza con un pubblico e una cittadinanza passivamente intesa come ignorante o poco informata. Per poter rivendicare i diritti di informazione, la cittadinanza doveva spesso passare dall’autorganizzazione e dal conflitto, incontrando istituzioni recalcitranti e ostacoli posti dal potere delle organizzazioni interessate a negare ogni coinvolgimento o responsabilità.
In parte, la storia dell’attivismo delle comunità è quindi la storia di come il rapporto tra scienza e società è stato sottoposto a critica, a partire dal rapporto tra potere e salute.
E come non dimenticare la critica alla scienza e alla medicina come potere, nata dentro il movimento operaio italiano, che dentro le fabbriche ha portato il diritto alla salute come principio non monetizzabile, a opera di scienziati critici come Giulio Maccacaro, fondatore del celebre movimento Medicina Democratica alla cui base sta gran parte del dibattito che poi porterà alla nascita della salute sul lavoro e dei principi fondanti il sistema sanitario nazionale. L’idea di una scienza il cui processo conoscitivo parte dall’esperienza dei lavoratori, da una co-produzione scientifica tra medici e lavoratori esposti alle nocività dentro l’ambiente di lavoro, ricompone i principi politici (la non monetizzazione della salute) come principi di conoscenza: l’inchiesta e la partecipazione diretta dei lavoratori come ‘soggetti’ e non come ‘oggetti’ della medicina e del suo sapere ne ridefiniscono collettivamente finalità e scopi con gli esperti critici.
Col tempo, tale dibattito si è espanso fino a incontrare i paradossi di un suo successo e di una sua legittimazione. La crescita della cittadinanza scientifica nelle società tecnologicamente avanzate ha portato a ridiscutere la questione della legittimazione del potere, con la partecipazione che è divenuta uno strumento tanto della governance quanto della sua contestazione.
Già a fine anni Ottanta, Paul Slovic – uno degli studiosi che maggiormente ha contribuito all’istituzionalizzazione del campo di ricerche denominato risk analysis – aveva ben definito i termini del rapporto tra i cittadini e gli esperti:
«C’è tanta saggezza quanto errore nelle percezioni e attitudini pubbliche. Ai cittadini alcune volte mancano certe informazioni riguardo ai danni. Ma comunque, la loro concettualizzazione di base del rischio è molto più ricca di quella degli esperti e riflette preoccupazioni legittime che sono tipicamente omesse dagli esperti di valutazione del rischio. Come risultato, la comunicazione e la gestione del rischio sono destinati a fallire a meno che non si strutturino in un processo bidirezionale. Ogni lato, esperto e pubblico, ha qualcosa di valido da dare. Ogni lato deve rispettare le intuizioni e l’intelligenza dell’altro»5.
Più o meno nello stesso periodo Baruch Fischhoff, professore alla Carnegie Mellon University, altro grande studioso di risk analysis, aveva definito la necessità di rendere gli stessi soggetti esposti al rischio dei ‘partner’6 nei processi di ricerca.
Nell’ultimo decennio le tecnologie digitali hanno aggiunto un’ulteriore dimensione. Pur con le contraddizioni di uno strumento definito da multinazionali interessate più al business dei dati e alle sue funzioni di controllo, esse hanno permesso di creare nuove forme di circolazione delle informazioni, nuovi strumenti di monitoraggio, aprendo nuove interazioni tra cittadini ed esperti.
Certo, poco prima e durante il periodo pandemico, i rapporti tra scienza, potere e società hanno risentito di grandi processi di polarizzazione, con l’emergere di ipotesi di pericoli di ‘post-verità’, diffusione di ‘fake news’, negazione strategica di evidenze e strumentalizzazione pretestuosa della critica scientifica come mobilitazione di ‘fatti alternativi’.
Preoccupazioni legittime che però hanno più a che fare con le posture e imposture di una politica mediatica e di un dibattito sempre più legato agli usi strumentali della retorica scientifica e partecipativa.
Alcuni studi empirici sulla partecipazione cittadina online in tempi di pandemia negli USA7 -il centro di un dibattito ‘regressivo’ su post-verità e fatti alternativi- hanno invece mostrato alcune tendenze interessanti. Non solo la fiducia nella scienza ma persino il suo uso da parte dei soggetti coinvolti in patologie o esposti a rischi sanitari sarebbero tutt’altro che in crisi.
Impossibilitati a riunirsi fisicamente e di fronte a una condizione di radicale incertezza scientifica, cittadini affetti da patologie collegate al Long-Covid hanno creato forum online dove hanno condiviso osservazioni quotidiane su sintomi e patologie riscontrate e hanno fornito nuovi materiali a medici altrimenti impossibilitati a raccogliere dati e ottenere informazioni su una pluralità di fattori.
Quel che emerge da ricerche empiriche su tali forum è che in sfere estremamente delicate e rilevanti per la vita delle persone stesse, la produzione di saperi collettivi dimostra una grande capacità di autoregolazione del dibattito e di controllo degli argomenti. La sfera digitale porta così a espellere facilmente posizioni e argomentazioni assurde o poco credibili. L’intelligenza collettiva dei cittadini si mostra in questi casi capace di costruire nuove e robuste relazioni con gli esperti e di identificare ipotesi e linee di ricerca nuove, affidabili e utili.
Ma sono numerose le iniziative che rivedono le ricerche epidemiologiche in un senso partecipato anche oltre la sfera online.
In alcuni casi, la richiesta di partecipazione nasce dal basso in risposta a processi istituzionali di disinvestimento nel monitoraggio degli inquinanti nell’aria. A Firenze, gruppi di cittadini acquistano e installano attraverso il crowdfunding delle centraline di rilevamento della qualità dell’aria a seguito del ritiro – per motivi poco appurati – di quelle di ARPAT nella Piana fiorentina, area ad alta intensità di emissioni industriali. Si appoggiano a un network di laboratori per la realizzazione di una rete informatica aperta gestita da FabLab un’associazione no-profit e ispirandosi agli approcci open science. Dal punto di vista scientifico si appoggiano agli epidemiologi del gruppo Epidemiologia & Prevenzione, prosecutori del dibattito sulla democraticità della medicina inaugurato da Giulio Maccacaro e Lorenzo Tomatis. Un progetto che propone di coinvolgere nelle osservazioni e rilevazioni un’intera comunità che risiede nella Piana fiorentina.
In altri casi è la comunità scientifica assieme a un’amministrazione pubblica desiderosa di progettare innovazione democratica a far ricorso alla partecipazione per costruire cittadinanza scientifica. È successo ad esempio nella comunità di Sarroch, in Sardegna, luogo che ospita la seconda raffineria più grande d’Europa. Tra scienziati, amministratori pubblici e cittadini si discute così l’idea di una bio-banca per monitorare salute, esposizione a fattori di rischio ambientale ed effetti sul DNA. Questo caso, rispetto ad altre mobilitazioni che nascono più da istanze conflittuali o critiche rispetto a decisioni istituzionali, si basa su una forte sinergia tra istituzioni, cittadini e ricerca scientifica, e fa di tutta una comunità un’autentica extended peer community8.
In controtendenza rispetto a visioni semplicistiche dei rapporti tra scienza e partecipazione, il contributo e l’innovazione di questi casi di epidemiologia partecipata pongono una doppia sfida: estendere i processi di ricerca -dal concepimento della domanda alla conduzione della raccolta dati fino all’interpretazione delle evidenze- significa saper gestire tanto il rigore scientifico quanto le implicazioni pienamente politiche delle questioni di salute pubblica.
Questo richiede di andare oltre una vulgata che abbiamo ultimamente sentito nel dibattito pubblico italiano secondo il quale ‘la scienza non è democratica’. Oltre a essere un approccio anacronistico, quest’ultimo slogan si configura come un errore al cubo: su cosa si intenda per scienza, cosa sia un processo e una decisione democratica e quali relazioni siano possibili tra scienza e democrazia.
Le odierne frontiere dell’epidemiologia indicano che la conoscenza, come la democrazia, si arricchiscono invece proprio quando la competenza incontra la partecipazione.
Note
- The Cornell Lab, https://www.birds.cornell.edu/home/
- J. Habermas, Toward a Rational Society: Student Protest, Science, and Politics, Beacon Press, Boston, 1971
- H. Nowotny, Democratizing Expertise and Socially Robust Knowledge, in “Science and Public Policy”, 30 (3) giugno 2001, 151-156
- P. Brown, Popular Epidemiology and Toxic Waste Contamination: Lay and Professional Ways of Knowing, in “Journal of Health and Social Behavior”, 33 September 1992, pp. 267-281
- P. Slovic, Perceptions of Risk, in “Science”, 236 (17), 1987, pp. 280–285
- B. Fischhoff, Risk perception and communication unplugged: twenty years of process in “Risk Analysis”, 15, 1995, pp. 137-45
- L. Au e G. Eyal, Whose Advice is Credible? Claiming Lay Expertise in an Online Community, in “Qualitative Sociology”, 45 (1), (2022), pp. 31-62.
- Si veda per approfondimenti, il numero monografico 4 Anni di EpiChange 2014-2017 di Epidemiologia e Prevenzione anno 38 (3-4) maggio-agosto, 2014. https://epiprev.it/page/epichange