È probabile abbiate sentito parlare di bioplastica da qualche parte: un materiale sostenibile di origine vegetale da buttare nell’umido o che al massimo sparisce nell’ambiente senza causare problemi. Sarebbe bello se fosse così semplice, ma così non è. E da scienziato credo sia uno di quei casi arzigogolati e complessi che proprio ci piace districare, come fosse un nodo gordiano di cui però nessuno ha contezza.
Molte persone, infatti, danno per scontato di sapere cosa sia la bioplastica, cosa voglia dire biodegradabile e compostabile e cosa farne; ma la realtà è che ci basta grattare la superficie di questo argomento per capire che non si limita ai sacchetti dell’umido.
Le bioplastiche vengono definite come i materiali plastici derivanti da biomasse, o che sono biodegradabili o che hanno entrambe le caratteristiche. Una definizione indubbiamente confusionaria, che comprende materiali (e anche concetti) molto diversi tra loro. Non è un caso che nel 2021 la Commissione Europea abbia suggerito di evitare l’uso del termine ‘bioplastica’ a vantaggio di termini quali ‘plastica bio-based‘ e ‘plastica biodegradabile’. Queste due proprietà, infatti, non solo non coincidono ma possono anche non convivere nello stesso materiale. Mi spiego meglio: alcune plastiche bio-based, ossia derivanti da biomasse rinnovabili, non sono biodegradabili, mentre alcune plastiche biodegradabili non sono bio-based.
Esempi di plastiche bio-based non biodegradabili sono i corrispettivi delle plastiche convenzionali, come polietilene tereftalato (PET – la plastica delle bottiglie d’acqua), polietilene (PE – flaconi vari) e polipropilene (PP – oggetti e involucri vari). Ma al posto di sintetizzarli a partire dal petrolio, come viene fatto di solito, essi sono ottenuti da biomasse, ossia piante che spesso vengono degradate in zuccheri, che a loro volta sono fermentati ad alcol dai lieviti.
L’alcol può essere usato come ‘mattoncino’ per la produzione di altre molecole, come l’etilene, con cui poi fare la bioplastica: esiste un set di mattoncini LEGO® (costituito interamente da bio-PE) che deriva originariamente da canna da zucchero processata nel modo appena descritto. Questo vuol dire che si tratta di un materiale sostenibile? Dipende da tanti fattori, in primis la stessa canna da zucchero, che di fatto è una biomassa alimentare, e quindi il suo utilizzo per fare la bioplastica ‘toglierebbe’ cibo.
L’altro elemento da considerare è che, pur trattandosi di bio-PE, questo materiale non è biodegradabile.
Non dobbiamo qundi pensare che queste bioplastiche nello specifico possano risolvere il problema dell’accumulo nell’ambiente.
Dall’altra parte dello spettro abbiamo, invece, bioplastiche derivanti dal petrolio ma che sono biodegradabili: hanno nomi lunghi e complessi che vi risparmierò, ma la cosa importante è capire che l’origine del materiale e il suo smaltimento sono due concetti diversi – che non per forza coincidono linearmente.
Diverse aziende coinvolte nel settore stanno cercando di ottenere anche le molecole necessarie per produrre queste bioplastiche, a partire dalle biomasse. In questo contesto l’utilizzo di microrganismi geneticamente modificati risulta fondamentale per la trasformazione di biomasse (meglio ancora se di scarto) nelle molecole di interesse – che in natura non esistono o sono sintetizzate con risultati troppo insoddisfacenti per una produzione industriale.
Certamente le bioplastiche, da sole, non risolveranno il problema del mondo della plastica, anche perché al momento costituiscono solo l’1% della plastica prodotta al mondo, calcolando anche le bioplastiche bio-based e biodegradabili (di cui parleremo nella seconda parte di questo approfondimento); evidenziando anche la differenza importante tra biodegradabile e compostabile.
La strada della riduzione del nostro impatto ambientale è lastricata di buone intenzioni, ma anche di tante trappole a cui fare attenzione.