Dal ‘vital interest’ alla ‘energy dominance’

Gli Stati Uniti, divenuti leader energetici grazie allo shale, usano petrolio e gas come nuova arma geopolitica, ridefinendo equilibri globali.

Autore

Domenicantonio De Giorgio, Massimiliano Frenza Maxia

Data

23 Settembre 2025

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23 Settembre 2025

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Energia

Geopolitica

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Da importatore a esportatore: cambio di postura degli USA

Negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti hanno compiuto una trasformazione epocale, passando da importatore netto a protagonista assoluto dell’offerta energetica globale. La rivoluzione dello shale oil e gas ha consentito una crescita produttiva senza precedenti: la produzione di greggio è passata da 5,5 milioni di barili al giorno (mbpd) nel 2011 a 13 mbpd nel 2023, mentre quella di gas naturale è salita da 65 a 105 miliardi di piedi cubi al giorno (bcf/d) tra il 2012 e il 20241. Questi volumi hanno proiettato gli Stati Uniti in un ruolo inedito di ‘fornitore marginale’ capace di determinare l’equilibrio di prezzo a livello globale.

Il punto di svolta è stato la revoca dell’embargo alle esportazioni di greggio nel dicembre 2015 da parte dell’amministrazione Obama. Da allora, gli Stati Uniti hanno portato le esportazioni di petrolio da zero a oltre 3 mbpd tra il 2014 e il 20202, pari a più del 3% del consumo mondiale giornaliero. Parallelamente, le esportazioni di prodotti raffinati (benzina, diesel, jet fuel) sono cresciute da 3,8 a 5,7 mbpd tra il 2014 e il 2021, mentre quelle di LNG sono più che decuplicate, passando da 1 bcf/d nel 2016 a 11,5 bcf/d nel gennaio 2022, circa il 3% della domanda globale. I progetti già approvati ed in via di costruzione per l’esportazione di LNG indicano un potenziale esportabile di LNG sino a 28bcf/giorno entro il 20283

Dalla dottrina Carter agli accordi di Abramo

La nuova dominanza energetica statunitense, conquistata grazie alla rivoluzione dello shale, ha ridotto la necessità di un interventismo militare diretto su larga scala, spingendo a rivedere i paradigmi fissati dalla Dottrina Carter4. Se nei primi anni Duemila, all’indomani dell’11 settembre, le guerre in Afghanistan e Iraq rappresentarono la piena applicazione di quella dottrina — in cui la proiezione militare serviva a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti dal Golfo Persico — oggi gli Stati Uniti tendono a un graduale disimpegno dal Medio Oriente.

Questo disimpegno non equivale a un abbandono della regione, che resta strategica sul piano energetico e geopolitico, ma a una diversa modalità di presidio: meno presenza militare diretta e più architetture indirette di influenza. In questo quadro, Israele assume un ruolo di primo piano come proxy regionale, sostenuto dagli Stati Uniti e legittimato attraverso il processo di normalizzazione avviato con gli Accordi di Abramo, che hanno aperto la strada a una cooperazione politico-economica e di sicurezza tra lo Stato ebraico e diverse monarchie arabe. Accordi ora però in bilico vista la situazione a Gaza.

Ne deriva un nuovo assetto in cui Washington, forte della propria dominanza energetica, può concentrare risorse verso il confronto strategico con la Cina nell’Indo-Pacifico, delegando in parte a Israele — e alle alleanze arabe costruite sotto l’ombrello statunitense — il compito di contribuire alla stabilità e al controllo dell’area mediorientale.

Gli effetti paradossali della nuova strategia

Di fronte al consolidamento dello shale, le strategie tradizionali dell’OPEC e della Russia si sono rivelate insufficienti: già nel 2017 Riyadh e Mosca furono costrette a creare l’alleanza OPEC+ per arginare l’avanzata USA, ma i tagli alla produzione finirono per favorire le compagnie americane5. Washington, nel frattempo, ha iniziato a ricalibrare la propria postura internazionale, riducendo l’impegno militare in Medio Oriente e sostituendolo con una forma di ‘condizionamento energetico’ nei confronti di alleati e rivali.

L’Europa è stata il primo banco di prova di questa strategia: le tensioni con la Russia culminate nell’invasione dell’Ucraina hanno reso evidente la fragilità di un sistema che dipendeva per il 40% dalle forniture di gas via terra da Mosca. Gli Stati Uniti hanno colmato parte del vuoto con le proprie spedizioni di LNG, divenendo ‘fornitore di ultima istanza’ per il Vecchio Continente. Questa dinamica ha introdotto una discontinuità strutturale6, i prezzi europei (TTF) hanno dovuto incorporare premi significativi per attrarre cargo LNG altrimenti diretti verso l’Asia, come dimostrano le differenze di prezzo tra JKM e TTF7 tra fine 2021 e inizio 2022.

L’Asia, d’altra parte, ha reagito sviluppando strategie autonome. La nascita del contratto future sul greggio in yuan allo Shanghai Futures Exchange (SHFE) nel marzo 20188 ha rappresentato il tentativo di ‘yuanizzare’ il mercato energetico, offrendo un benchmark regionale alternativo a Brent e WTI. Questo strumento, costruito attorno alle esigenze delle raffinerie cinesi, ha reso più tangibile il ruolo della Cina come controbilanciamento alla centralità energetica statunitense.

Da clienti a clientes: il rischio per l’Europa

In sintesi, la rivoluzione dello shale ha prodotto tre effetti concatenati, ma anche paradossali:

  • Dominanza energetica USA, misurabile nei numeri record di produzione ed export di greggio, gas e LNG;
  • Trasformazione geopolitica statunitense, con un progressivo disimpegno militare sostituito da un uso strategico delle leve energetiche;
  • Ristrutturazione dei mercati regionali, con un’Europa più vulnerabile e una Cina pronta a definire strumenti finanziari propri per accrescere la propria autonomia.

L’energia, più ancora che la forza militare, è oggi la chiave della postura internazionale degli Stati Uniti di cui, però, a subirne le conseguenze, sono soprattutto gli alleati storici. 

Oggi la UE è infatti costretta a rinunciare al gas russo dopo l’invasione dell’Ucraina, acquistandone a caro prezzo ampie quantità sul mercato a pronti (spot) proprio da quei produttori americani che hanno trasformato la geografia energetica mondiale. Paradossalmente il vecchio continente, partner storico degli USA e architrave della NATO, è l’area che maggiormente subisce il cambio di postura USA. La stessa cosa non avviene certo per quelli che dovrebbero essere i competitor degli USA, ovvero la Russia che non ha problemi di autosufficienza e la Cina, che ha stretto accordi sia con i paesi del Golfo sia con la Russia stessa. Si vedano gli accordi Cina Russia nell’ambito del summit della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) appena concluso. Per non parlare dell’India che compra petrolio russo a prezzi di sconto e per poi lavorarlo e rivenderlo sui mercati globali9.

Insomma, se nell’era Biden, complice la guerra in Ucraina, gli europei si sono trasformati nei principali clienti energetici degli USA, nell’era Trump rischiano di restarlo, ma scivolando in una condizione ancora più fragile: da clienti a clientes, nel senso latino del termine. Non più alleati paritario o foederatus, ma soggetti subordinati alla volontà dell’Impero americano, che nell’isolazionismo selettivo di trova una nuova forma di dominio.

Il rischio è ancora più evidente se guardiamo oltre. La scorsa settimana, a Tianjin, durante il 25º vertice dei Capi di Stato della SCO, Russia e Cina hanno firmato un memorandum per la costruzione del gasdotto Power of Siberia 2, un’infrastruttura di circa 2.600 km attraverso la Mongolia con capacità di trasportare fino a 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno per i prossimi 30 anni10. Mentre Pechino e Mosca consolidano un asse energetico strategico, gli europei rischiano di ridursi (se non lo sono già) al rango di clientes di un patronus americano che usa l’energia come leva di condizionamento politico.

I limiti della strategia trumpiana

Lo scenario sin qui descritto potrebbe però cambiare radicalmente, se un accordo di pace sull’Ucraina portasse la Russia fuori dal regime di sanzioni, consentendole di tornare a inondare l’Europa di petrolio e gas a basso costo.

Per comprendere le possibili conseguenze, occorre guardare ai numeri dello shale. Gli Stati Uniti producono circa 13 milioni di barili di petrolio al giorno e 105 Bcf/g (miliardi di piedi cubi al giorno) di gas, quantità che non possono essere assorbite soltanto dal mercato domestico. La struttura dei produttori è divisa: da un lato le grandi major (ExxonMobil, Chevron, ConocoPhillips), meno sensibili alle oscillazioni dei prezzi grazie a un portafoglio globale di asset estrattivi; dall’altro gli indipendenti, che giocano un ruolo ancora di assoluto rilievo tanto nella produzione petrolifera che di quella di gas. Per questi ultimi i margini di sopravvivenza sono stretti: diverse stime battezzano prezzi attorno ai 50–60 dollari al barile per il petrolio e ai 2,5–3,0 $/MMBtu per il gas.

Se tornassero in gioco i flussi russi, estratti a costi di 1–2 $/MMBtu nei giacimenti della Siberia Occidentale e dello Yamal, il mercato americano subirebbe una pressione fortissima: più gas, a prezzi più bassi. Senza contare che Mosca potrebbe concedere ulteriori sconti a paesi come la Germania, puntando a ricostruire la sua influenza energetica.

Le implicazioni sarebbero anche politiche. Gran parte dei produttori americani si trovano in stati repubblicani — Texas, North Dakota, Louisiana, Oklahoma — che rappresentano la spina dorsale dell’elettorato trumpiano. Se i prezzi crollassero e l’occupazione nel settore ne risentisse, lo shock si ripercuoterebbe direttamente sul consenso politico. Un tema cruciale in vista delle elezioni del novembre 2026.

I punti di forza e debolezze della produzione della produzione shale

Per capire meglio come si sia arrivati a questa situazione bisogna guardare alla parabola dello shale. La fratturazione idraulica, tecnica controversa e altamente inquinante, ha trasformato giacimenti considerati marginali in vere miniere d’oro. In poco più di dieci anni la produzione americana è più che raddoppiata, superando i 13 milioni di barili al giorno, di cui oltre 8 milioni provenienti da shale oil.

Il cuore della produzione è il Permian Basin (Texas e New Mexico) con oltre 5 milioni di barili al giorno. Seguono il Bakken (North Dakota e Montana) con circa 1 milione, l’Eagle Ford (Texas meridionale), il Niobrara (Colorado, Wyoming) e altri giacimenti minori. Sul fronte gas, i protagonisti sono il Marcellus/Utica (Pennsylvania, Ohio, West Virginia) e l’Haynesville (Louisiana/Texas).

La corsa allo shale ha conosciuto momenti di forte instabilità, legati proprio alla dinamica dei prezzi. Nel novembre 201411 e per i due anni successivi l’Arabia Saudita decise di non tagliare la produzione OPEC, determinando un crollo del prezzo del petrolio da oltre 100 del Giugno 2014 a meno di 30 dollari al barile del Gennaio 2016: l’obiettivo era quello di far fallire molti operatori indipendenti statunitensi; e lo fecero. Ciò stimolò però una prima – sebbene insufficiente – ondata di fusioni ed acquisizioni prodromiche ad un consolidamento del settore. Consolidamento che fu accelerato poi nel 2020, con il Covid e la domanda mondiale in caduta libera e col prezzo che batté addirittura valori negativi. Il settore resistette, rafforzandosi ulteriormente grazie all’ingresso delle major, a una maggiore disciplina finanziaria imposta da Wall Street (dividendi in cambio di freno alla corsa selvaggia a nuove perforazioni) ed alla politica monetaria ultra-espansiva della FED.

Oggi lo shale statunitense domina i mercati internazionali. Il GNL americano è arrivato in Europa in sostituzione di quello russo, mentre il petrolio ‘light sweet’ — varietà dominante tra quello estratto in USA e di qualità superiore al greggio venezuelano o mediorientale più pesante e ricco di zolfo — gode del tipico ‘premio’ rispetto alle varietà meno pregiate. Trump parla di energy dominance, non più solo di energy independence. Ma dietro l’apparente trionfo resta la fragilità di un settore esposto alla volatilità dei prezzi12 e agli equilibri geopolitici globali.

L’energy dominance council: più marketing che altro

Proprio per consolidare questa posizione, il 14 febbraio 2025 Trump ha istituito, con un ordine esecutivo, il National Energy Dominance Council (NEDC). Si tratta di un organismo inter-agenzia guidato dal Segretario all’Interno Doug Burgum, con il Segretario all’Energia Chris Wright come vicepresidente. Attorno al tavolo siedono Tesoro, Difesa, Stato, EPA e consiglieri presidenziali.

Il compito del NEDC è ambizioso: sbloccare terminali LNG e nuovi gasdotti, riaprire perforazioni offshore, promuovere il nucleare modulare e orientare fondi pubblici anche verso oil & gas e minerali critici. In agenda anche la ricerca sulla geotermia, forse l’elemento più innovativo.

Non mancano però critiche e perplessità. Molti osservatori parlano di una ‘black box’ dal funzionamento poco trasparente, sostenuta da ordini esecutivi facilmente reversibili in caso di cambio politico. C’è inoltre il rischio che il rilancio dei fossili rallenti la transizione verso le rinnovabili, su cui le grandi major hanno già investito molto.

A queste incertezze si aggiungono i segnali che arrivano direttamente dal settore. Secondo un sondaggio trimestrale della Federal Reserve Bank di Dallas, quasi la metà dei dirigenti petroliferi prevede di perforare meno pozzi nel 2025 rispetto alle pianificazioni iniziali, e lo stanno facendo13

Le ragioni sono tre:

  • il prezzo del greggio si aggira sui 68 USD/barile, poco sopra il livello minimo di redditività (65 USD);
  • i dazi sull’acciaio pesano per il 27% e minacciano di aumentare i costi di produzione/estrazione;
  • la disciplina del capitale e la priorità ai dividendi frenano nuovi investimenti.

Molti manager liquidano gli slogan trumpiani sull’energy dominance come pura propaganda. E intanto emerge un dato chiave: se il prezzo del barile dovesse scendere a 60 dollari, oltre il 60% dei dirigenti prevede una riduzione della produzione, già in stallo attorno ai 13 milioni di barili giorno dal Novembre 2024.

In questo scenario già complesso, resta l’incognita più grande: un eventuale accordo di pace in Ucraina, fortemente ricercato da Trump in chiave di contenimento cinese, quello che il Washington Post ha definito Reverse Kissinger14, che potrebbe riaprire le porte al ritorno del gas russo in Europa. E con esso, un terremoto per l’intera industria shale americana e per gli equilibri politici interni agli Stati Uniti.

Note

  1. D. De Giorgio, Post su produzione petrolifera USA, in X (ex Twitter), 17 novembre 2023, https://x.com/degiorgiod/status/1725843870582235543.
  2. D. De Giorgio, Post su esportazioni di greggio USA, in X (ex Twitter), 7 gennaio 2022, https://x.com/degiorgiod/status/1479801429237940230.
  3. D. De Giorgio, Post su LNG export capacity USA, in X (ex Twitter), 10 dicembre 2023, https://x.com/degiorgiod/status/1732455411700428915.
  4. Esplicitata nel discorso sullo Stato dell’Unione 1980: «Ogni tentativo di una forza esterna di ottenere il controllo della regione del Golfo Persico sarà considerato un attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti d’America, e sarà respinto con ogni mezzo necessario, inclusa la forza militare», Jimmy Carter, State of the Union Address, January 23, 1980, disponibile presso l’American Presidency Project (University of California, Santa Barbara)
  5. D. De Giorgio, Il nemico del mio nemico è mio amico, 3 marzo 2020, www.contemplata.it, https://www.contemplata.it/2020/03/il-nemico-del-mio-nemico-e-mio-amico/.
  6. F. Romanelli, Energia e geopolitica nel XXI secolo, in “Rivista Italiana di Scienza Politica”, 3 (2022), pp. 455–472, https://www.rivisteweb.it/doi/10.1434/106542.
  7. Il JKM (Japan–Korea Marker), rappresenta il benchmark spot per il gas naturale liquefatto (LNG) in Asia mentre, TTF (Title Transfer Facility) dei Paesi Bassi, fa da benchmark per il mercato europeo.
  8. D. De Giorgio, Cosa dice al mondo la nascita del derivato cinese sul petrolio, 28 marzo 2018, Forbes Italia, https://forbes.it/2018/03/28/cosa-dice-al-mondo-la-nascita-del-derivato-cinese-sul-petrolio.
  9. Reuters, India will continue to buy Russian oil despite U.S. tariffs, finance minister says, Reuters, 5 settembre 2025. Disponibile su: reuters.com
  10. Sull’accordo ci sono ancora punti non chiari. malgrado le dichiarazioni entusiastiche di Mosca, Pechino non ha confermato formalmente l’accordo firmato. Analisti citati da Novaya Gazeta Europe osservano che il ‘memorandum legalmente vincolante’ contenuto nelle dichiarazioni del CEO di Gazprom non è ancora un contratto definitivo, ma piuttosto un documento intermedio dal valore più simbolico che concreto. Si veda, Silence from Beijing as Russia vaunts Power of Siberia 2 gas pipeline deal, Novaya Gazeta Europe, 4 settembre 2025. Disponibile su: novayagazeta.eu
  11. D. De Giorgio, 26 Novembre 2014, Al Naimi – ministro dell’Energia Saudita: il mercato si ribilancerà da solo, in X (ex Twitter), 3 maggio 2022, https://x.com/degiorgiod/status/1521553388684591105
  12. D. De Giorgio, A. Paltrinieri, Gli Stati Uniti sono impermeabili all’embargo sul petrolio russo?, 18 maggio 2022, www.rivistaenergia.it, https://www.rivistaenergia.it/2022/05/gli-stati-uniti-sono-impermeabili-all-embargo-sul-petrolio-russo/.
  13. D. De Giorgio, Post su andamento trivellazioni petrolifere in USA , in X (ex Twitter), 15 agosto 2025 https://x.com/degiorgiod/status/1956426126537937081
  14.  David Ignatius, Trump’s ‘Reverse Kissinger’ Foreign Policy Gamble, in “The Washington Post”, 3 aprile 2025. Disponibile su: washingtonpost.com
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