L’Agenda 2030, da ormai nove anni, rappresenta un ambizioso piano globale articolato in 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) volti a promuovere la pace, la prosperità e la sostenibilità per il pianeta entro il 2030. Nonostante nel 2015, in virtù della sua visione inclusiva e globale, la sua adozione fosse stata raggiunta all’unanimità da tutti e 193 paesi membri delle Nazioni Unite, gran parte dei Paesi in via di sviluppo hanno mostrato significative resistenze durante le negoziazioni dell’Agenda. Le ragioni di tali opposizioni, provenienti da preoccupazioni economiche, politiche, sociali e ambientali, hanno infatti spinto questi Stati a esprimere riserve a più riprese sulla sua implementazione, rendendo incerto l’esito del documento fino a qualche giorno prima della sua adozione. Attraverso un’analisi dettagliata delle dinamiche negoziali, sarà possibile comprendere tanto le sfide quanto le opportunità che queste critiche hanno creato, nonché gli effetti che sono riusciti a imprimere nel documento finale.
Innanzitutto, le ragioni della resistenza dei Paesi in via di sviluppo all’Agenda 2030 possono essere ricondotte alle loro sfide strutturali. Sebbene non sia possibile generalizzare le specifiche condizioni di un ampio gruppo di Stati, è comunque evidente quanto molti di questi spesso condividano situazioni caratterizzate da economie fragili, sistemi sanitari deboli e instabilità politica, che influenzano significativamente la loro capacità di adottare e implementare efficacemente gli SDGs. Nei decenni precedenti all’Agenda 2030, i Paesi in via di sviluppo hanno partecipato a numerose iniziative di sviluppo internazionale, come quella dei ‘Millennium Development Goals’ – i predecessori degli SDGs – ma non hanno mai ottenuto risultati tali da giustificare una buona dose di ottimismo. Per questo motivo, anche se alcuni timidi progressi sono stati raggiunti con queste iniziative, molte Nazioni hanno percepito un divario significativo tra le promesse dei programmi di sviluppo e i risultati reali, alimentando così una certa diffidenza verso nuove iniziative globali.
All’interno di questi Paesi, inoltre, vi sono disuguaglianze economiche endemiche che rendono le risorse necessarie per raggiungere gli SDGs estremamente limitate. Le difficoltà di accesso ai servizi finanziari internazionali, unite a sistemi di governance deboli e instabilità politica cronica (o ciclica), hanno fatto sì che i divari economici di questi Paesi crescessero in maniera costante nel tempo, sia internamente che sul piano internazionale. Spesso, infatti, a questi Paesi viene chiesto un tasso d’interesse molto alto a causa dell’elevato rischio che l’investitore deve prendersi per finanziare Stati così fragili. In alternativa, le istituzioni multilaterali – come il Fondo Monetario Internazionale – hanno offerto a questi Paesi degli investimenti a patto che adottassero politiche fiscali e monetarie in grado di favorire il libero mercato e la deregolamentazione dei sistemi finanziari, proprio come accadde ai Paesi del Sud-Est asiatico in seguito alla crisi finanziaria del 1997. Questo insieme di pratiche, racchiuse nel concetto noto ai più come ‘Post Washington Consensus’, è stato negli anni ampiamente criticato dai suoi stessi beneficiari, in quanto ritenuto lesivo della loro sovranità a causa della necessità di sottostare alle decisioni economiche dei Paesi più ricchi. Le richieste di questi Stati, che vertevano invece su una riforma complessiva dell’architettura finanziaria globale, sono rimaste perlopiù inascoltate.
Durante le negoziazioni relative all’Agenda 2030 sono state sollevate le stesse obiezioni. L’implementazione degli SDGs ha richiesto risorse significative che superavano le capacità fiscali interne dei Paesi in via di sviluppo, costringendoli dunque, nuovamente, a richiedere aiuti esterni che avrebbero interferito con le politiche economiche interne dei singoli Stati. Per questo motivo il G77 – ‘Group of 77’, una coalizione di 134 paesi in via di sviluppo – assieme alla Cina, si è contrapposta più volte allo ‘sviluppo sostenibile’ così come inteso dai Paesi economicamente più sviluppati: esso avrebbe infatti comportato necessariamente l’obbligo di accelerare la loro crescita economica interna – anche e soprattutto attraverso rigide pratiche macroeconomiche decise dai Paesi occidentali – per poter poi avere accesso agli strumenti finanziari necessari per contrastare congiuntamente l’emergenza climatica e tutti gli altri temi di natura sociale riconosciuti dall’Agenda 2030. I Paesi in via di sviluppo, invece, hanno fatto appello al principio delle Common But Differentiated Responsibilities, secondo cui ogni Paese avrebbe sì dovuto contribuire alle sfide globali incluse nell’Agenda, ma con un peso diverso, a causa del fatto che gran parte degli impatti negativi sul clima provengono proprio dalle attività dei Paesi sviluppati. Dunque, per quanto venisse dato per scontato che la soluzione dei problemi ambientali fosse una preoccupazione di tutti (responsabilità comune), l’obbligo di agire si sarebbe dovuto distribuire in base all’identificazione dei maggiori colpevoli (responsabilità differenziate)1.
Un ultimo punto di scontro tra i vari attori internazionali coinvolti è quello nella diversa interpretazione che questi attribuivano a concetti cruciali per l’Agenda 2030. Ad esempio, per quanto fosse chiara la necessità di combattere la ‘povertà globale estrema’, non si è riusciti a trovare tuttavia una definizione univoca di ‘povertà’: se i Paesi sviluppati la considerano come l’esclusione individuale da diritti economici, i Paesi in via di sviluppo la vedono in forma più strutturale, e dunque un problema da combattere con politiche completamente diverse. Un altro tema è stato quello della ‘disuguaglianza’: se per Cina e India «la divisione tra Nord e Sud del mondo non era un concetto, ma un fatto», per la delegazione tedesca all’ONU «quando si parla di sviluppo sostenibile, siamo tutti Paesi in via di sviluppo». Infine, durante le negoziazioni è stato raggiunto un consenso senza precedenti sulla ‘universalità’ degli SDGs: rispetto agli MDGs, che erano ancora legati a un concetto di finanza bilaterale dei Paesi sviluppati rivolto a quelli più poveri (i cosiddetti ODA, o ‘Official Development Assistance’), gli SDGs creavano sinergie multilaterali, in cui tutti i portatori di interesse potevano esprimere la propria opinione e lavorare congiuntamente in partenariati. Ciononostante, persino questo concetto è stato contestato e mal interpretato. Gli Stati più ricchi, infatti, pensavano fosse utile e necessario rivolgersi anche ad attori non statali, come le ONG e le imprese, per poter raggiungere gli obiettivi più velocemente; gli Stati più poveri, invece, vedevano questa idea come l’ennesimo stratagemma atto a limitare la loro sovranità, per cui sostenevano un’idea di universalità relegata a tutti gli Stati, e a nessun altro2.
Ma dunque, di fronte a tutti questi conflitti ideologici, politici e di forma, com’è stata influenzata la stesura dell’Agenda 2030? La prima grande vittoria dei Paesi in via di sviluppo – seppur non del tutto completa – è stata l’inclusione del principio delle Common but Differentiated Responsibilities: le Nazioni Unite hanno tenuto conto sia delle proporzionate capacità di ogni singolo Stato, sia dei contributi storici al cambiamento climatico, riconoscendo quindi che i Paesi sviluppati hanno una maggiore responsabilità ma anche maggiori possibilità economiche per affrontare le questioni ambientali. Va però sottolineato che il principio è stato diluito dall’approccio tecnocratico del Nord Globale, che ha comunque spinto il coinvolgimento economico dei Paesi in via di sviluppo per la lotta all’emergenza climatica. È del resto noto che Paesi come Cina e India, che si considerano appartenenti al Sud Globale, stiano progressivamente contribuendo a una buona porzione delle emissioni di CO2 per stimolare la propria crescita economica, per cui è necessario integrarli quanto più possibile nelle sfide poste dagli SDGs.
Ciò porta al secondo grande cambiamento posto in essere dalle richieste del G77: riconosciute le circostanze specifiche degli Stati e le loro limitate capacità economiche e istituzionali, le Nazioni Unite hanno concesso maggiore flessibilità nell’implementazione degli SDGs, permettendo così a ogni Paese di adattare strategie e priorità in base al contesto nazionale. Per farlo, i Paesi più sviluppati devono adempiere all’obbligo di sostenere i Paesi più poveri attraverso supporto finanziario, tecnologico e di competenze; da un concetto di semplice aid, dunque, si è passati a un focus maggiore sui partenariati e sulla cooperazione internazionale, dando così una voce più forte ai Paesi in via di sviluppo su ciò che li riguarda direttamente. Anche l’inclusione degli attori privati, sebbene concessa e promossa dal diciassettesimo SDG, ‘Partnership per gli obiettivi’ è stata regolata affinché avvenisse in modo da rispettare l’autonomia degli Stati e operasse in linea con le priorità nazionali.
Infine, è stato raggiunto un consenso su una definizione più ampia e contestualizzata della povertà. I Paesi in via di sviluppo hanno infatti insistito su una visione più strutturale, che non si limitasse alla sola mancanza di reddito ma includesse anche aspetti come l’accesso ai servizi essenziali, l’inclusione sociale e la stabilità economica, ossia tutti quei principi che l’Agenda 2030 cerca di promuovere. Nonostante tutti questi scontri di idee e opinioni contrastanti avvenuti durante le negoziazioni, è grazie a loro se oggi abbiamo un documento guida delle Nazioni Unite che si possa definire veramente universale. I continui stalli, dovuti principalmente alla diffidenza degli Stati meno sviluppati nei confronti delle istanze dei Paesi sviluppati, si sono quindi rivelati utili per permettere di raggiungere l’unanimità. È però già tempo di capire se, col prossimo Summit del Futuro – che metterà in piedi le basi per la prossima Agenda – queste dinamiche saranno destinate a ripetersi.
Note
- F. Dodds, D. Donoghue e J. L Roesch, Negotiating the sustainable development goals: A transformational agenda for an insecure world, NY: Routledge, New York, 2016
- J. P. Thérien e V. Pouliot, Global governance as patchwork: the making of the Sustainable Development Goals, in “Review of International Political Economy”, 27:3, 2020, pp. 612-636.