Un problema chiave per il Green Deal per l’economia europea
Ad oggi, il Green Deal europeo presentato nel 2019 dalla prima commissione Von der Leyen rappresenta, per ampiezza di obiettivi e vincolo giuridico delle misure, il più ambizioso piano di politiche ambientali al mondo. Con l’obiettivo generale di raggiungere la neutralità climatica entro la metà del secolo, si compone di una serie di misure trasformative per tutti i settori più importanti dell’economia europea – tra cui ambiziosi piani per la conversione della struttura economica delle regioni più dipendenti da industrie inquinanti e combustibili fossili verso infrastrutture sostenibili ed economia circolare.
Un problema fondamentale risiede tuttavia nella disparità tra le competenze chiave richieste ai lavoratori impiegati dai settori tradizionali dell’economia degli Stati membri e quelle invece necessarie all’economia basata su tecnologie sostenibili. Lo sviluppo delle competenze necessarie alla forza lavoro dell’economia green è un aspetto assolutamente centrale alla riuscita dell’ambizioso piano europeo; dal successo (o fallimento) nel riallocare i lavoratori dei settori in via di dismissione verso i nuovi lavori che verranno creati dipenderà la fortuna economica di molte regioni europee nei decenni a venire, determinando se la trasformazione strutturale dell’economia porrà le basi per una crescita equa e sostenibile o alimenterà invece le disuguaglianze geografiche e sociali, con inevitabili conseguenze per la percezione delle politiche verdi da parte dei lavoratori quando sono chiamati a esprimersi in cabina elettorale.
Un documento di lavoro uscito recentemente per la collana gestita dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP)1, scritto da ricercatori della Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e dell’INAPP, si pone l’importante domanda di ricerca di identificare, elaborando diverse fonti di dati sull’economia italiana che coprono un intervallo di dodici anni tra il 2012 e il 2023, le competenze più rilevanti per la transizione verde, distinguendole in base a quanto sono ‘sovrapponibili’ a quelle richieste prima della transizione energetica. Distinguere quali saranno le competenze più importanti per il raggiungimento degli obiettivi ambientali ed economici fissati per i decenni a venire è infatti di vitale importanza per la progettazione di programmi di formazione che facilitino la transizione dei lavoratori verso le nuove occupazioni.
Oltre la dicotomia green vs brown: un nuovo metodo di analisi
Un importante problema metodologico riguarda la definizione dei cosiddetti green jobs – sottolineando l’inadeguatezza di una classificazione binaria tra lavoratori sostenibili e non (ad esempio, settori economici fondamentali tradizionalmente inquinanti in corso di riconversione verso pratiche più sostenibili, come l’edile e il manifatturiero, non potrebbero essere adeguatamente inseriti in uno dei due gruppi), gli autori hanno scelto, basandosi su precedenti pubblicazioni di rilievo, di costruire una classificazione centrata sui singoli incarichi, o task, svolti da chi svolge un certo lavoro. In questo modo, è possibile costruire un indice continuo della sostenibilità di un’occupazione, ottenendo quindi un’analisi più sfumata e rilevante che possa indirizzare la politica pubblica.
Gli autori sottolineano infatti come, una volta classificate le occupazioni a seconda degli incarichi svolti, una comprensione adeguata del problema richieda un’analisi di come varino le competenze richieste tra una professione e l’altra, identificando così quei lavori che richiedono competenze simili tra loro.
In questo contesto, è utile sviluppare e poi applicare un’appropriata misura di distanza che definisca in termini quantitativi la similarità tra qualsiasi data coppia di occupazioni, il che permette una descrizione olistica del panorama di un mercato del lavoro. Oltre a questo valore descrittivo, una tale misura è anche utile a produrre risultati che possano essere interpretati come un dato preliminare del costo – espresso in termini di quanto riadattamento sia necessario – di spostarsi tra un lavoro e l’altro. Questo costo può a sua volta potenzialmente essere predittivo della probabilità per un dato lavoratore di spostarsi verso un’altra occupazione, fornendo quindi prospettive utili sulla mobilità del lavoro verso l’economia verde.
La letteratura economica di riferimento propone vari modi di misurare questa distanza. In questa sede non indugeremo in dettagli tecnici sui vantaggi e svantaggi dei vari approcci, accuratamente dettagliati nella pubblicazione, ma ci limiteremo a indicare come i risultati degli autori siano robusti quando testati da diverse specificazioni alternative dell’insieme di competenze che costituiscono un’occupazione e della misura di distanza tra un’occupazione e l’altra.
Nel modello proposto dagli autori, basato sul precedente lavoro di Cortes e Gallipoli2, si presume che gli individui prendano decisioni sul proprio futuro lavorativo a seconda di quanto si aspettano di guadagnare restando impiegati nella loro attuale occupazione o cambiandola per una nuova. È qui importante sottolineare come i costi associati col cambiare lavoro non dipendano solo dalla differenza nelle competenze richieste sopra descritta, ma anche da altre barriere che potrebbero essere rappresentate, ad esempio, dal trasferirsi in un’altra regione o dal dover acquisire una licenza per praticare una certa attività. Dunque, adattando il modello di Cortes e Gallipoli ai dati a loro disposizione, gli autori mettono in relazione la probabilità di transizione da un’occupazione j a un’occupazione k (rappresentata dalla proporzione di lavoratori originariamente impiegati in k che si sono spostati in j tra il 2012 e il 2023) con la differenza tra le competenze richieste da j da quelle richieste da k e i costi di transizione sopra citati. Due specificazioni leggermente differenti della stessa stima sono volte a indagare rispettivamente le transizioni verso occupazioni green e da occupazioni brown, cioè inquinanti.
Risultati incoraggianti: ponti tra competenze tradizionali e verdi
Delineata la metodologia degli autori, procederemo ora a descrivere i risultati del loro lavoro – traendo anche paragoni con i risultati della precedente pubblicazione di Vona et al.3, che si poneva simili domande di ricerca nel contesto statunitense.
Una prima osservazione che sorge a partire dai risultati degli autori è la significativa sovrapponibilità delle competenze richieste dai lavori brown con quelli green; numerose tra le competenze più richieste nelle professioni verdi sono già tra quelle più ricercate nei settori tradizionali dell’economia. Questo crea ottimismo riguardo la possibilità di sfruttare queste similarità per facilitare le transizioni occupazionali, minimizzando così i costi di aggiustamento e mitigando le conseguenze inique della transizione ecologica. Rende inoltre chiaro quali siano le aree su cui è più importante formare i lavoratori per renderli pronti a trasferirsi in un’occupazione green – tra le più rilevanti, gli autori sottolineano ad esempio le competenze di monitoraggio del processo produttivo, oltre a quelle necessarie a comprendere regolamenti e standard di qualità per assicurare la conformità con le norme del caso.
L’analisi dei risultati quantitativi del lavoro sui dati sull’economia italiana conferma quanto la teoria lasciava supporre. Varie specificazioni econometriche giungono tutte alla conclusione che all’aumentare della distanza in competenze tra un’occupazione e l’altra diminuisce in maniera considerevole la possibilità di spostarsi tra le due occupazioni. Il coefficiente del termine econometrico che indica se l’occupazione di arrivo sia o meno green indica che i lavoratori hanno meno difficoltà a muoversi verso una professione green, a parità di distanza in competenze dalla loro occupazione iniziale. I dati sembrano suggerire, in conclusione, che nel momento in cui si spostano in particolare verso un’occupazione green i lavoratori tendono a sceglierne una che richieda competenze il più possibile simili a quelle che hanno avuto occasione di sviluppare in passato.
I risultati di questo lavoro possono ancora considerarsi preliminari, e il maggior contributo di questa ricerca, come riconosciuto dagli autori stessi, consiste nella costruzione di un’impalcatura metodologica che possa servire negli anni a venire a identificare le aree in cui è prioritario che il legislatore investa risorse per la formazione dei lavoratori, in modo che i lavoratori di quei settori dell’economia tradizionale più condizionati dalla transizione ecologica in atto possano ricollocarsi in professioni in cui le loro competenze pregresse possano essere valorizzate al meglio nelle aree in cui si concentra la nuova economia verde. È solo così, assicurandosi che nessuno sia chiamato a sostenere costi eccessivi e sproporzionati a causa delle normative del Green Deal europeo, che si può garantire il successo economico e politico di un piano tanto ambizioso.
Note
- I. Brunetti, F. Frattini, M. Kuntze, A. Ricci e F. Vona, Exploring skills in the green transition: new insights from Italian data world, in “INAPP WP”, n.134, 2025.
- G.M Cortes e G. Gallipoli, The costs of occupational mobility: An aggregate analysis, in “Journal of the European Economic Association”, 16, n.2, 2018, pp.275-315.
- F. Vona, G. Marin, D. Consoli e D. Popp, Environmental regulation and green skills: An empirical exploration, in Journal of the Association of Environmental and Resource Economists, 5, n.4, 2018 pp.713-753.