Lavoro e società: le conseguenze dei divari regionali di produttività

I crescenti divari di produttività del lavoro tra i territori in cui è più o meno diffusa l’economia della conoscenza mettono a rischio i sistemi di welfare di molte Regioni

Autore

Luca Garavaglia, Sergio Maset

Data

10 Febbraio 2025

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10 Febbraio 2025

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Nonostante gli sforzi della Commissione Europea per rafforzare l’economia del Mercato Unico, il vecchio continente fatica a tenere il passo rispetto agli Stati Uniti. Secondo i dati OCSE, il PIL pro-capite tedesco, che nel 1995 era pari all’88% di quello statunitense, nel 2022 arrivava solo al 79%. Nello stesso periodo quello francese è calato dall’80% al 67%, e quello italiano addirittura dall’86% al 64%.

Il crescente divario di produttività tra UE e Stati Uniti

Uno dei fattori più rilevanti nel determinare questo divario è la produttività del lavoro, che nei principali Paesi europei era cresciuta costantemente a partire dal secondo dopoguerra avvicinandosi sempre più ai valori degli USA, per poi registrare a partire dal 1997 un’inversione di tendenza piuttosto marcata1, ascrivibile in buona parte all’industria ICT e ai servizi professionali: se si escludono questi settori, la crescita della produttività europea degli ultimi vent’anni sarebbe pressoché al pari di quella statunitense2.

Per comprendere le ragioni di questo divario, in particolare relativamente al caso italiano, è necessario indagare l’andamento delle componenti della produttività nelle principali economie europee (fig.1): nel periodo 2000-2023, a fronte di una differenza nella variazione tra valore aggiunto e ore lavorate inferiore a quella degli Stati Uniti ma comunque pari a quasi 30 punti percentuali nell’UE (e tra 20 e 25 in Germania e Spagna), in Italia la differenza positiva è solo di 3 punti percentuali: in pratica la crescita del valore aggiunto si è ottenuta sostanzialmente aumentando la quantità di lavoro, e non in virtù di una maggiore produttività.

Figura 1. Valore aggiunto e ore lavorate nell’UE e nei principali Paesi europei, 2000-2023.
Indice relativo: 100 = valore nel 2000
Fonte: elaborazione IDEA Studi e Ricerche su dati Istat.

La differenziazione degli scenari regionali del lavoro

All’aumentare delle differenze tra le dinamiche dei diversi Stati corrisponde anche un crescente divario tra gli scenari regionali. Prendendo come riferimento le più grandi regioni del nord Italia (fig. 2), si nota come in esse nell’ultimo ventennio la crescita del valore aggiunto si discosti meno da quella del numero di ore lavorate rispetto a quella registrata dalle aree europee più performanti (p5 esempio la regione francese della Rhone-Alpes e quella tedesca dell’Oberbayern), ma anche come gli andamenti regionali delle due curve, tendenzialmente simili fino all’avvio della crisi economica del 2008, prendano poi direzioni molto diverse: mentre in Lombardia e in Emilia-Romagna si assiste a un evidente disaccoppiamento delle curve, con aumenti del valore aggiunto ben superiori a quelli delle ore lavorate, in Piemonte e in Veneto le due curve continuano a muoversi in sincrono e con tassi di crescita contenuti se non addirittura assenti. Nel complesso, la produttività oraria media regionale risulta nel 2021 pari al 110,4% di quello del 2000 in Emilia Romagna, e al 111,4% in Lombardia. In entrambi i casi si tratta di performance assai inferiori rispetto a regioni benchmark europee, ma che esprimono se non altro una crescita costante e superiore a quella media italiana, mentre Piemonte (100,6%) e Veneto (100,9%) non si allontanano di molto dai valori registrati a inizio periodo (una situazione simile si registra anche nelle regioni del centro-Italia, ad esempio nel Lazio, dove addirittura la produttività risulta in lieve calo – 96,1% – rispetto al dato dell’anno 2000).

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Figura 2. Valore aggiunto e ore lavorate nelle grandi regioni del nord Italia e nelle regioni di Rhone-Alpes e Oberbayern, 2000-2021.
Indice relativo: 100 = valore nel 2000
Fonte: elaborazione IDEA Studi e Ricerche su dati Istat.

L’analisi settoriale (fig.3) fa emergere in modo chiaro quali attività influenzino maggiormente i divari di competitività emergenti tra territori. Tra le regioni meglio performanti, in Emilia-Romagna la produttività cresce soprattutto grazie all’industria, in Lombardia in primo luogo grazie ai servizi privati. Ma mentre in tutte le regioni esaminate si è avuto nell’ultimo ventennio un aumento della produttività oraria media nelle attività industriali, è nel settore dei servizi privati che si evidenziano tendenze differenti: emblematico il caso del Piemonte, che in tali attività realizza un evidente peggioramento, allontanandosi progressivamente dalle altre grandi regioni del nord (-30 punti percentuali circa rispetto alla Lombardia, -10 circa rispetto a Emilia-Romagna e Veneto). Inoltre nel terziario privato si osserva nettamente una diversità di evoluzione temporale: se in Lombardia la crescita tendenziale della produttività parte dal 2008, in Emilia Romagna e Veneto risulta più attardata, successivamente al 2012, con il Veneto maggiormente sensibile in negativo al calo occorso tra 2005 e 2012. E proprio i servizi privati sono la macro-area in cui, in tutte le regioni, si sono registrati nel periodo analizzato i maggiori aumenti del numero di addetti e delle ore lavorate.

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Descrizione generata automaticamente
Figura 3. Produttività oraria media per macro-settori nelle grandi regioni del Nord Italia, 2000-2021.
Indice relativo: 100 = valore nel 2000
Legenda: Industria: NACE B-E; Costruzioni NACE F; Servizi privati: NACE G-N.
Fonte: elaborazione IDEA Studi e Ricerche su dati Istat.

Il ruolo dei servizi ad alto contenuto di conoscenze

Occorre però considerare come all’interno del macro-settore dei servizi siano raccolte attività assai diverse e difficilmente omologabili, che fanno diverso impiego di tecnologie e lavoro della conoscenza. Ai fini della presente analisi è utile distinguere due tipologie di servizi privati3: servizi poco localizzati ad alto tasso d’impiego di conoscenze (per esempio ICT, finanza, servizi professionali) e servizi fortemente localizzati, con prevalenza di manodopera scarsamente specializzata e con economie poco scalabili (attività di ristorazione e accoglienza, commercio al dettaglio, servizi alla persona, etc.).

Se si esaminano gli andamenti della produttività e quelli delle ore lavorate relativi alle differenti attività dei servizi, emergono evidenti differenze tra le regioni esaminate: i servizi ad alto impiego di conoscenze crescono ovunque, ma in maniera più marcata in Lombardia (+73% di addetti tra 2012 e 2021) che in Emilia-Romagna e Veneto (in cui la crescita è tendenzialmente allineata alla media nazionale, pari al +55%) e in Piemonte (solo +10%). La produttività dei servizi a utilizzo intensivo di conoscenze risulta significativamente più alta per la Lombardia che per le altre regioni (soprattutto per i servizi ICT e per quelli amministrativi, nei quali registra una buona performance anche l’Emilia-Romagna), con una forbice molto ampia soprattutto nei confronti del Piemonte (l’eccezione sono i servizi informatici: fino a pochi anni fa c’era un elevato livello di produttività in Piemonte per tali servizi, ma sono calate fortemente le ore lavorate), dove la crescita del settore terziario è dipesa soprattutto da un aumento delle ore lavorate in servizi privati a scarsa integrazione delle tecnologie. Questi dati restituiscono un’immagine ben chiara, anche se piuttosto preoccupante, dei nuovi assetti delle economie territoriali nell’era della transizione all’economia della conoscenza: i territori con più alta presenza di lavoro della conoscenza stanno prendendo traiettorie di sviluppo che consentono loro di mantenere livelli di produttività alti (anche se ancora distanti da quelli delle regioni europee più forti), creando un gap sempre più ampio nei confronti di quelli dove prevale, soprattutto nel settore terziario, il lavoro a bassa specializzazione, e in cui anche alcune aree del lavoro della conoscenza si stanno impoverendo (se non altro in termini di capacità di produrre valore aggiunto).

Le conseguenze sociali dei differenziali di produttività settoriali e territoriali

I differenziali di produttività registrati tra regioni sono alla base dell’emergere di nuove disuguaglianze tra territori e tra lavoratori, sia nel contesto tutto sommato omogeneo del nord sia, a maggior ragione, nel sistema nazionale, con una suddivisione ulteriore tra le aree in cui si concentra il lavoro ad alto contenuto di tecnologia e conoscenza e quelle in cui risalta il peso relativo di quello non specializzato. Si tratta tuttavia di un quadro in rapida evoluzione, con cambiamenti talmente radicali sul piano tecnologico da spiazzare le logiche e le retoriche sin qui adottate di territorializzazione delle strategie di competitività europea. Ciò comporta il riposizionamento delle nazioni al ruolo di co-attori4 e dei contesti regionali a quello di campi da gioco, in cui emergono in particolare i grandi contesti metropolitani, terreno privilegiato per le economie della conoscenza5.

Questi processi determinano uno spiazzamento anche nella definizione dei clivage sociali, in relazione ai differenziali nella capacità dei singoli di agire all’interno di questo nuovo scenario, alimentando un dibattito sull’emersione di nuove articolazioni delle classi sociali e di una neoplebe6.

La rapidità con cui le innovazioni tecnologiche si diffondono, traducendosi in concreta applicazione nei sistemi produttivi e sociali, comporta che effetti dirompenti si presentino più volte all’interno di qualche decennio. Così è stato ad esempio in questo primo quarto del ventunesimo secolo. Guardando dunque a un orizzonte temporale circoscritto ai prossimi vent’anni, se è vero che la tecnologia, nel ridefinire i paradigmi produttivi, rende più evidenti i lavori a più elevato contenuto creativo e quelli a bassissima qualificazione, dall’altro la riduzione naturale della forza lavoro in nazioni come l’Italia sta già evidenziando un’altrettanto intensa ridefinizione dei rapporti di forza nel mercato del lavoro. Si tratta di un punto ancora poco affrontato ma che sta fortunatamente emergendo7.

La questione, in sintesi, è come transitare verso un nuovo equilibrio. Il disaccoppiamento tra la capacità di generare valore e l’intensità di lavoro dovrà avvenire in tempo e con intensità tale da sostenere quello che nei prossimi decenni sarà l’aumento di domanda di welfare come conseguenza dell’accresciuta quota di anziani nella popolazione. Tuttavia, e non da ultimo, la tendenziale riduzione di manodopera, se sul piano produttivo verrà compensata dalla maggiore produttività, potrà richiedere un ripensamento dei meccanismi di contribuzione alla fiscalità generale.

Note

  1. A. Bergeaud, G. Cette e R. Lecat, Productivity trends in advanced Countries between 1890 and 2012, in ‘Review of Income and Wealth’, no.3, 2016, pp. 420-444.
  2. P. Nikolov et al., Mid-tech Europe? a sectoral account on total factor productivity growth from the latest vintage of the EU-KLEMs database, Luxembourg, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2024.
  3. A.S. Blinder e A.B. Krueger, Alternative Measures of Offshorability: A Survey Approach, in ‘Journal of Labor Economics’, n.1, 2016, pp
  4. M. Draghi, The Future of European Competitiveness, European Commission, Bruxelles, 2024.
  5. L. Fabbris, P. Feltrin e S. Maset, Urbanisation and counter-urbanisation in Italy, 2001-2022, in ‘Statistica Applicata – Italian Journal of Applied Statistics’, Supplement to Volume 3, 2023, pp. 229-234.
  6. P. Perulli, L. Vettoretto, Neoplebe, classe creativa, élite. La nuova Italia, Laterza, Bari, 2022.
  7. P. Feltrin, Declino demografico e prediche inutili, in ‘Una Città’ n. 305, 2024.
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