Per capire sia l’impasse della pur doverosa e saggia decarbonizzazione europea, che la narrazione ostile degli antieuropeisti in quanto affare per ricchi, basta osservare in che modo la oggi depressa Germania abbia imposto in sede comunitaria le tappe forzate di una transizione verso l’elettrico i cui costi per l’utilizzatore finale, sia esso un automobilista o una famiglia che deve riscaldarsi, risultano nettamente superiori a quelli sopportati sin qui. I vantaggi invece tardano a comparire: sia nel caso delle automobili, dove il fatto è di evidenza immediata, che negli altri settori tecnologici, in cui le nuove tecnologie parlano spesso lingue non europee.
Il fotovoltaico, uno degli assi portanti della transizione, è targato cinese. Ma anche le Pompe di Calore (PdC) destinate al riscaldamento/raffrescamento hanno avuto sin qui paternità non europea, essendo affare di USA, Giappone, Corea e Cina.
Per ovviare a questo predominio extra-UE nelle PdC, proprio su spinta della Germania la Comunità Europea si è dotata di un regolamento che mette fuori gioco in tempi stretti sia la combustione diretta (dove peraltro Italia, Francia e Germania sono leader mondiali) sia i gas frigoriferi fluorurati nelle PdC (dove dettano legge gli asiatici) a favore dei gas naturali, il propano. Il primo risultato di questo cambiamento tecnologico, destinato a ridare centralità alle produzioni europee, è stato la vendita per la cifra monstre di 12 miliardi di euro della principale azienda privata tedesca, la Viessmann, agli americani di Carrier.
Che il finanziamento della transizione ecologica sarebbe stato il nodo centrale della questione era evidente già prima di cominciare: a livello di energia termica domestica la differenza fra i costi di una caldaia e una PdC è di 1:4 e ciò, pur scontati i risparmi legati alla maggiore efficienza tecnologica, indica periodi di ammortamento dell’investimento non indifferenti. Ciò vale per gli italiani e vale ancor più per gli oculatissimi tedeschi.
Ma questo è solo quello che affiora all’ultimo miglio di tale transizione, ovvero quello che ci colpisce tutti direttamente, mentre altre e rilevanti questioni si vengono a creare proprio per aver deciso di elettrificare il nostro universo.
Innanzitutto, nel passaggio tra la combustione diretta (e il suo upgrade nel teleriscaldamento ad alta temperatura, che pur vanta la possibilità di intercettare numerosi cascami termici come quelli classici della termovalorizzazione o quelli moderni derivanti dalla dissipazione del calore nei Data Center) e la produzione in Pompa di Calore, vi è il fatto tutt’altro che banale che l’energia elettrica è ancor oggi prodotta in modo consistente dalla cogenerazione dei fossili. Ciò significa una riduzione non trascurabile dell’effetto ecologico di un simile passaggio, ma soprattutto lascia esposti a costi esogeni, che nel caso di Italia e Germania, privi per vari motivi di energia nucleare, si traduce nell’esposizione prolungata alle oscillazioni del gas, un tempo a buon mercato specie per i tedeschi, per via del rapporto tossico con la Russia.
In secondo luogo, l’incremento nell’elettrificazione non può avvenire a infrastrutture date ma, come qualsiasi persona di buon senso comprende immediatamente, a raddoppio del carico richiesto (si pensi ad auto e Pompe di Calore) deve prevedere necessariamente il raddoppio delle reti distributive e la realizzazione di n-cabine di media tensione destinate ad alimentare gli edifici. Anche questi sono investimenti la cui tempistica di rientro non risulta immediata per i Governi, per le società distributive o per gli utenti finali.
In terzo luogo la prevista autoproduzione rinnovabile e le comunità energetiche, destinate a renderla operativa, scontano anch’essi investimenti consistenti, peraltro in tecnologie quasi totalmente cinesi.
Noi tutti sappiamo che il percorso avviato è buono, giusto, doveroso e salutare. E sappiamo pure che l’incremento di efficienza del sistema garantisce a regime non solo la riduzione drastica delle emissioni di qualsivoglia inquinante, ma anche una minor dipendenza dall’estero. Per questo è incomprensibile che il legislatore europeo non si sia posto la domanda semplicissima che aleggia sull’intera vicenda: chi ha la forza di sopportare i costi della transizione attendendo che i risparmi li ripianino?
La risposta è esattamente quella dei sovranisti: i ricchi, ovvero coloro i quali non hanno problemi con finanza propria o con l’accesso garantito al credito, possono avviare la transizione sapendo che per tutto il tempo dell’ammortamento non costerà loro nulla più di quel che pagano oggi.
Ma per i ‘poveri’ o per le amministrazioni pubbliche o per tutti gli enti e società che dovranno tradurre in termini pratici la transizione ecologica sul territorio urbano, chi provvede?
E questo è il primo snodo fondamentale della transizione ecologica sul lato dell’energia termica, che non chiama in causa la tecnologia e gli adeguamenti delle strutture o delle masse radianti bensì il loro finanziamento. Si tratta di un’operazione dotata di ritorno economico, ma al momento non di capitali, pubblici o privati, sotto la guida della stessa comunità che questo cambiamento epocale ha imposto. La Comunità Europea avrebbe in teoria un istituto destinato a finanziare gli interventi nazionali, la BCE, ma è privo di qualsivoglia strumento idoneo operativo dotato di finanza propria, in aggiunta a quel che i singoli stati possono disporre.
Il secondo snodo, ancor più insidioso, è che pure la Road Map al 2050 risulta scritta sulla sabbia dell’ultimo miglio, specie per i paesi che non hanno margini di manovra per debito pregresso (Italia), attuale (Francia) o per un corsetto troppo stretto che provoca asfissia autoinflitta (Germania). La mancata previsione di un orizzonte finanziario comune rende inutilmente retorico il Green Deal, oltre che nemico dei singoli cittadini e dei singoli stati, che si trovano a dover decidere cosa finanziare con i margini di finanza nazionale concessi dalle regole europee, imposti a forza dai virtuosi paesi protestanti del nord. Fierissimi, come lo era mio nonno, di non spendere 28 o 29 se il reddito è 30.
Il terzo snodo riguarda la mancata programmazione europea di una politica industriale sulle tecnologie della transizione, che lascia esposti i consumatori finali al finanziamento colposo delle industrie extra-UE in nome di una tutela tafazziana del consumatore europeo: il ruolo asettico della BCE, il cui scopo è solo quello di regolare l’inflazione attesa dal sistema Europa, nega l’essenza stessa di una politica industriale comune europea, ovvero la ragione prima della costituzione della CECA nel 1951 e dei successivi Trattati di Roma del 1957 per la costituzione della CEE e di Euratom per l’uso civile dell’energia atomica, a valle dei disastri operati dalla Guerra. Qui l’ottusità virtuosa dei germanici arriva a negare l’essenza stessa della Comunità, fondata sull’industria e non sulle unghie pulite dei bilanci nazionali nell’orizzonte del singolo bilancio.
Il quarto snodo, ovvero l’obbligatorietà dell’ultimo miglio, l’argomento principe di tutti i sovranisti che individuano nella CEE la matrigna cattiva che sostituisce i consumi essenziali con il risparmio forzato imposto dagli investimenti privi di protezione pubblica. Senza una finanza di supporto diventa un boomerang politico, la cui deprimente carenza di visione condurrà all’arrocco il prossimo esecutivo contro i barbari che ci stiamo coltivando accuratamente, fornendo loro le armi retoriche necessarie.
Ma se questo pezzo di transizione ecologica ha un suo sia pur lungo rientro economico, potrebbe il sistema privato diventare l’attore politico virtuoso che oggi manca?