‘Poveri ma belli’, i lavori per il sistema culturale

Professionisti autonomi, singoli o associati, che lavorano per conto di grandi o medie aziende come consulenti, designer, progettisti, pubblicitari ecc. alternano lavoro autonomo, parasubordinato e lavoro d’autore, con scarsi riconoscimenti sociali ed economico-retributivi.

Autore

Renata Semenza

Data

22 Luglio 2024

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6' di lettura

DATA

22 Luglio 2024

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Uno dei tratti tipici dell’ordine post-industriale è la crescita del lavoro autonomo professionale, funzionale all’economia dei servizi e potenziata dalla carica innovativa delle nuove tecnologie che hanno modificato profondamente l’organizzazione del lavoro e le professioni tradizionali, spesso generandone di nuove. Si tratta di lavoratori e lavoratrici che sono dovunque ma da nessuna parte, in un mercato che è la combinazione di fattori globalizzati, fatti di reti intelligenti e facilmente accessibili, applicazioni e piattaforme che intermediano e creano lavoro e servizi, big data qualitativamente differenti da quelli della generazione precedente, algoritmi, e sistemi di IA dalle nebbiose implicazioni, che formano la cosiddetta ‘struttura invisibile’. Ai professionisti autonomi, singoli o associati, è trasferita dalle imprese gran parte dei compiti di ideazione, progettazione, design, pubblicità, marketing ed esplorazione dei mercati, consulenza, spesso affidati alla gestione algoritmica. Cresce dunque in tutte le economie avanzate un ceto professionale autonomo e qualificato. 

Uno studio recente1 condotto nei settori dell’audiovisivo (in espansione) e dell’editoria (in declino) mostra quanto le dinamiche interne abbiano certamente delle specificità proprie, ma siano anche paradigmatiche del modo di funzionare dell’insieme del macro-settore culturale, creativo e della conoscenza. 

Si tratta di ambiti di attività economica particolarmente complessi perché composti da una galassia di micro-settori poco conosciuti sul piano organizzativo e ancor più sul piano dei rapporti e delle condizioni di lavoro. La tendenza estrema alla decentralizzazione e all’esternalizzazione del processo produttivo e di tutti i servizi a esso collegati forma una grande area di lavoro esterno regolato, non dalla gerarchia interna alle imprese, ma dal mercato, privato della condivisione di valori aziendali e codici identitari precisi, caratterizzato da competenze sia tecniche sia intellettuali ad alta specializzazione non così specifiche all’impresa e per lo più composite, stratificate, polivalenti. 

Sono mercati segnati dall’incertezza nella definizione stessa di carriera, di crescita professionale scandita da passaggi chiari e ascendenti, da una giungla retributiva che non risponde a dei criteri oggettivabili e standardizzabili e che porta semmai a un ulteriore abbassamento medio delle remunerazioni, in assenza di un ‘compenso minimo legale’. L’insieme di queste condizioni di lavoro sfavorevoli, consolidate in modo strisciante, rende il lavoro autonomo della conoscenza il simbolo di quello che abbiamo definito il ‘lavoro apolide’, con riferimento alla carenza di cittadinanza e di adeguati riconoscimenti economici e sociali2 per una larga maggioranza.

La ricerca nei settori della cultura ricostruisce i meccanismi attraverso cui avviene la ricomposizione di questi settori di attività economica, in relazione all’impatto delle tecnologie digitali e del management algoritmico che alterano i contesti organizzativi, modificano i contenuti del lavoro e i profili professionali. 

Dall’analisi delle caratteristiche strutturali dei settori in oggetto e delle imprese che ne fanno parte, tradizionali e nuove, come le OTT (Over The Top) piattaforme video streaming (come Netflix, Spotify, Amazon, YouTube) che funzionano da contractor esterno, nate per la distribuzione, ma che stanno diventando importanti anche nella produzione, emerge bene la logica del mercato (e naturalmente la tecnica), che sovrasta ogni altra possibile lettura, definisce, induce, produce, muove la forza lavoro creativa (intellettuale e tecnica) in un quadro povero di regolazione, di organizzazione, di garanzie, di conflittualità e rivendicazioni. Dalle interviste fatte per ricostruire i meccanismi di funzionamento di questi settori, i lavoratori – i prestatori di servizio – appaiono appiattiti sulla domanda espressa dalle imprese. Si fatica a rintracciare quelle caratteristiche di imprenditorialità e autonomia, che oltre alla professionalità, costituivano i tratti salienti del ‘lavoro autonomo di seconda generazione’ caratterizzato da un’identità da freelance – che si esprime nel lavoro creativo – e da una forte aspirazione all’auto-imprenditorialità, quale reazione contro il controllo del lavoro e alternativa più appagante e libera al lavoro subordinato.

Le nuove forme di organizzazione del lavoro hanno definitivamente disconnesso le relazioni tra impresa, lavoratore e ambiente locale su cui erano basate l’economia e la società del secolo scorso. Su questo fronte la ricerca è molto ricca e proficua di risultati poiché rileva con grande precisione e approfondimento il ruolo dirompente della tecnica sul lavoro e sulle forme organizzative. Sono infatti dei settori attraversati da profondi e incessanti cambiamenti indotti dall’ingresso massiccio delle tecnologie digitali che ne hanno modificato in profondità il profilo, non tanto in riferimento alle caratteristiche dei prodotti, come viene spiegato, quanto agli strumenti e alle tecniche di produzione. Ed è proprio l’uso pervasivo di nuovi mezzi tecnologici digitali nel processo produttivo ad avere provocato degli effetti tangibili nella sfera del mercato del lavoro, delle professioni, dei contenuti del lavoro stesso. Gli esplosivi avanzamenti nelle capacità delle macchine, l’automazione e la sua natura trasformativa portano alla creazione di nuovi compiti e quindi di nuovi lavori. Se consideriamo il settore multimediale, la disponibilità di software molto evoluti, e nel contempo tecnologicamente più semplici o semplificati, ha svuotato di contenuto molte delle tradizionali mansioni – che sono scomparse dal mercato o si sono accorpate in nuove polivalenti figure professionali – riducendo anche le attività affidate ad aziende specializzate. Per altro verso, facilitando l’accesso al settore, con dei tempi molto brevi di apprendimento delle necessarie competenze, si è enormemente ampliato il bacino della concorrenza, provocando un duplice e contrapposto effetto. Se assumiamo in senso positivo che le nuove tecnologie abbiano ridotto di fatto i meccanismi di selezione all’ingresso delle professioni, in senso negativo ciò ha portato a una ancor maggiore frammentazione e anche precarizzazione del lavoro, a un abbassamento delle remunerazioni e quindi a una perdita complessiva di valore sociale ed economico del lavoro qualificato e intellettuale.

L’identità professionale per questi lavoratori ‘ibridi’, che si alternano fra lavoro autonomo, lavoro parasubordinato e lavoro d’autore, è assai complessa e tutt’altro che lineare. Il lavoratore autonomo come emerge da questa ricerca vive numerose contraddizioni. 

Un primo aspetto è rappresentato dal fatto che il suo capitale umano è frutto di un training ‘solitario’, fatto di formazione universitaria, tecnica e professionale e di accumulo di competenze pratiche, che si svolge al di fuori del perimetro sicuro di un’organizzazione (impresa, pubblica amministrazione) come era nell’epoca fordista. Le imprese non hanno una loro visione di questo processo di creazione del talento individuale. Un tempo erano esse, le imprese, a fissare parametri e traguardi nel mercato interno del lavoro. Ora tutto si svolge all’esterno. In verità, oggi siamo in uno stadio assai arretrato: è in corso una guerra per accaparrarsi i migliori talenti. Una guerra tra imprese, la maggior parte delle quali ha una gestione inefficiente dei talenti non offrendo loro a sufficienza degli incentivi, non investendo abbastanza su di loro, non monitorando i loro percorsi. È una caccia continua, cui partecipano le imprese cacciatrici e i talenti in veste di risorse umane pregiate. Ma la letteratura manageriale sull’argomento è deludente, come lo è la prassi delle imprese. Si parla di riprodurre la conoscenza tacita delle persone, di aumentare la vitalità dei lavoratori, di accenderne la passione. Si ricorre alla manipolazione di ‘comunità di pratiche’ che facciano emergere tutte le potenzialità dei talenti. Si offrono spazi di gioco, di interazione e di informalità ai dipendenti nelle aziende su modello Google, mentre nulla di simile avviene per i lavoratori autonomi freelance. 

Un altro aspetto contraddittorio del lavoratore autonomo qui descritto è la tensione fra la percezione di poter essere facilmente rimpiazzabile dal mercato e al contempo di essere in una condizione di unicità. Si potrebbe dire una tensione tra particolare e universale. Per un verso emerge dalla ricerca la coscienza, se non vera preoccupazione, che la propria professionalità possa essere facilmente sostituibile di fronte a una competizione divenuta illimitata e globale grazie a Internet e alle tecnologie digitali. Per altro verso egli esprime un attaccamento alla sua professione di nicchia, e tende a percepire la sua situazione contrattuale, relazionale e professionale come molto particolare se non unica, il che certo è vero per lui, mentre essa è anche standardizzabile e replicabile all’infinito nei mercati del lavoro esterni. 

Si tratta di figure spesso diverse entro un universo in continuo divenire. Vi è accanto a una componente forte ma minoritaria, una composta di fasce più deboli del lavoro autonomo economicamente dipendente. Questa frammentarietà del mercato del lavoro porta inevitabilmente con sé individualismi, particolarismi, sia sul piano soggettivo sia su quello oggettivo. Sul piano soggettivo della percezione di sé, colpisce la dichiarazione dei protagonisti di fare parte di micro-settori, a sé stanti, in nessun modo riconducibili a logiche di funzionamento più allargate e generalizzabili, ignorando che i grandi temi del lavoro come la produttività, il controllo, il premio come strumento di divisione, sono di fatto sempre gli stessi.

Sul piano oggettivo, esiste l’evidenza che mancano parametri produttivi, remunerativi, di monitoraggio dei percorsi di carriera, che fungano da linee-guida di riferimento e di azione sia individuale sia, auspicabilmente, collettiva da parte dei lavoratori autonomi.

Ci si potrebbe allora domandare: i lavoratori autonomi coinvolti in questi processi produttivi sono  nuovi ‘funzionari’ del progresso tecnico o, invece,   nuovi ‘precari’, con profili di lavoro sempre più insicuri e sfuggenti? Se fosse vera la prima ipotesi, i lavoratori dovrebbero essere in grado di interagire maggiormente, di esercitare delle funzioni entro le imprese – fissazione di obiettivi e di standard tecnici, strategie di crescita e di incremento dei diritti di proprietà intellettuale, partecipazione alle scelte strategiche, da cui invece essi sono del tutto assenti. Certo, in molti casi sono sapienti del progresso tecnico, ma in nessun modo essi hanno potere. La loro impotenza dà corpo alla seconda ipotesi, quella della precarietà e dell’intermittenza entro cui sparisce il contratto di lavoro e si afferma il contratto di servizio o commerciale, che segna in qualche misura la fine della società del lavoro. 

L’evoluzione di un’economia di servizi on demand, supportata da progressi tecnologici senza precedenti, lancia delle sfide complesse ai sistemi regolativi del lavoro in tutta Europa sul piano delle protezioni sociali, del trattamento economico, della rappresentanza collettiva3 e del diritto del lavoro4, poiché questi cosiddetti ‘lavoratori ibridi’ sono tuttora al centro di una diatriba giuridica di lungo corso, oggetto di interventi normativi non risolutivi. 

Ci troviamo dunque di fronte a un paradosso: alla centralità strategico-produttiva di questi lavoratori autonomi nell’economia della conoscenza, si contrappone una marginalità di natura economica, ma anche sociale, se pensiamo alla fragilità del welfare, comparata a quello spettante ai lavoratori dipendenti, alla loro esclusione dai contratti collettivi di lavoro e alla ancora marginale presenza di forme mutualistiche, organizzazioni ombrello (SMART, ACTA) e di rappresentanza collettiva a livello politico.

Note

  1. S. Bologna, A. Soru (a cura di), Dietro le quinte. Indagine sul lavoro autonomo in editoria e nell’audiovisivo, Fondazione Giacomo Brodolini, Milano 2022; A. Pilati, O. Razzolini (a cura di), Il lavoro autonomo nei luoghi della cultura, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2022.
  2. R. Semenza, A. Mori, Lavoro apolide. Freelance in cerca di riconoscimento, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2020; Eurofound, Self-employment in the European Union: Job quality and developments in social protection, Publication Office of the EU, Luxembourg 2024.
  3. R. Semenza, F. Pichault (a cura di), The Challenges of Self-employment in Europe. Status, Social Protection and Collective Representation, Edward Elgar Publishing, Cheltenham 2019.
  4. A. Perulli, V. Speziale, Dieci tesi sul diritto del lavoro, il Mulino, Bologna 2022.
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