In una stanza dove tutti stanno fermi, entra un pazzo che comincia a urtarli: a poco a poco si forma una catena di scontri, causata dallo spostamento indesiderato di quelli che prima se ne stavano quieti e ben distanziati.
Se man mano che colpisce soggetti fermi la furia del matto tende necessariamente a ridursi per poi smorzarsi del tutto, anche il moto indotto negli altri soggetti, la cui aspirazione sin lì era quella di starsene al proprio posto a una ragionevole distanza dall’altro, tenderà a ridursi sino a ritornare allo stato primitivo di quiete.
Le due informazioni interessanti di questa vicenda movimentata sono la quantità di moto impressa al sistema nel suo complesso e il tempo di ritorno allo stato di quiete. Ciò che è noto è solo che il risultato finale di un simile sistema chiuso è quello entropico del massimo disordine distanziato, esattamente quello da cui eravamo partiti.
La dinamica dei gas e lo studio delle loro mutazioni a seguito dell’applicazione di energia rappresentano per la Fisica moderna ciò che la rivoluzione galileiana-copernicana ha rappresentato per la Fisica classica. Non solo hanno introdotto relazioni fra massa ed energia fino a quel punto inesplorate, ma hanno anche aperto la strada all’uso dei modelli statistici in luogo di quelli matematici, in grado cioè di gestire flussi informativi complessi in assenza di relazioni funzionali esatte. Esiste una linea retta che porta da Boltzmann sino ad Einstein nel comprendere che il determinismo scientifico supposto dietro ad ogni singolo accadimento è affare troppo complesso per poter venir ricondotto a formula matematica.
La deviazione da questa linea deterministica-ma-con-la-coscienza-del-sapere-troppo-poco (il Dio che non gioca a dadi dell’ammonimento einsteniano a Bohr) è rappresentata, per colmo di ironia, da un’ipotesi funzionale di Einstein sugli equilibri delle particelle subatomiche. Questa ipotesi è poi diventata la Fisica Quantistica, oggi in grande spolvero, capace di trasformare ciò che in origine era uno strumento di calcolo probabilistico in una teoria del creato.
Equilibrio e stato di natura
Dal nostro punto di vista di analisi del termine equilibrio applicato allo stato di natura, l’intera questione investe due punti principali: l’equilibrio come massimo disordine e la possibilità di equilibri alternativi. Il termine ‘disordine’ porterebbe di suo un valore apparentemente negativo, anche se è necessariamente ciò che fa la Natura se lasciata libera di adoperarsi in assenza di modificazione umana (il pazzo che entra nella stanza). Per molti, al contrario, l’operare massimamente disordinato della Natura rappresenta l’equilibrio ottimale, tanto che la Comunità Europea ha appena varato politiche di rinaturalizzazione delle aree coltivate ipotizzando, appunto, una superiorità dello stato di natura su quello di cultura.
È probabile che in assenza di esseri raziocinanti l’ordine/disordine di natura sia una condizione ottima e necessaria per il creato nel suo complesso, ma è altrettanto vero che, come per la fisica quantistica o per la statistica bayesiana, è impossibile stabilire alcunché prescindendo dal soggetto che osserva e calcola. Quindi lo stato di natura in assenza di intervento umano è un equilibrio soltanto supposto come ottimo, alla luce di un sentimento per così dire spinoziano, mentre ad esempio una palude, vista dall’ottica umana, è anche il luogo di produzione della malaria, ovvero uno dei nemici endemici dell’uomo. Perché tifare per la malaria, la palude e l’entropia?
Un problema analogo riveste la rinaturalizzazione involontaria delle aree montane, spopolate dalla progressiva scomparsa dell’agricoltura e della pastorizia: le strade e gli scoli, la cura dei boschi e delle aste di scorrimento fluviali, le canalizzazioni idrauliche e quelle energetiche hanno informato le montagne europee (e quelle italiane in particolare) da tempi preistorici, codificando il paesaggio che fu integralmente di Natura qualche migliaio di anni orsono.
Ordine desiderato e consumo di disordine naturale
Vogliamo oggi considerare come ottimo l’operare della Natura in aree precedentemente assoggettate alla cultura? E perché allora indichiamo come negativo il dissesto idrogeologico causato dalla mano dell’Uomo e mai quando esso è connaturato all’operare della Natura, come le antiche paludi di cui erano fatte la Pianura Padana, le coste tirreniche e quelle adriatiche, frutto del disordinato scivolamento a valle di acque e detriti?
È evidente che la questione non è semplice e di facile soluzione, come vorrebbero quegli antropocentristi del “chissenefrega dello Stato di Natura e delle sue ragioni” o, per contro, quel tipo di ecologista con il riscaldamento a 70° nella propria abitazione in centro città, ma fautore della reintroduzione del Rospo Smeraldino e della sua palude zanzarosa a ridosso delle case altrui, popolari periferiche. Anche in questo caso il valore apparentemente positivo del termine equilibrio assegnato allo stato di natura non può non lasciare spazio a una riflessione più articolata sulla coesistenza fra ambiente umano e ambiente naturale, dove quest’ultimo non può essere considerato completamente ancillare, ma nemmeno dominante nella nostra scala di valori.
C’è un punto di incontro fra le due visioni ed è prettamente economico: l’equilibrio ideale è quello che ottiene l’ordine desiderato con il minimo consumo di disordine naturale.
Quando utilizziamo l’energia fossile contenuta nei gas prodotti dalla carbonizzazione di foreste preistoriche, stiamo consumando il risultato di processi irreversibili, che hanno impiegato migliaia di anni a formarsi. Un atto profondamente antieconomico visto in un’ottica di un lungo periodo di cui oggi non ci curiamo perché, secondo l’ammonimento di Keynes, a un certo punto saremo tutti morti.
Per via delle profonde e drammatiche modificazioni del clima, oggi siamo costretti a far di conto su periodi assai più lunghi e su fonti assai meno irreversibili, come la temperatura contenuta nel terreno e nelle falde, il vento che soffia, il sole che scalda o la marea che incessantemente viene mossa dalla luna, tutti utilizzi fortemente reversibili e, allungando lo sguardo oltre l’orizzonte, anche sostenibili ed economici.
Vero è che non sempre l’ecologia è in grado di fornire razionali all’operare dell’economia, come capita invece nel passaggio tra fonti non rinnovabili e rinnovabili. Nei casi in cui i danni subiti dall’ambiente sono troppo elevati occorre investire, spesso senza l’aspettativa di un guadagno a breve o medio termine, per ripristinare uno stato funzionale.
La radice oikos (casa) comune ai termini economia ed ecologia non racconta di una circolarità annuale perduta, ma di una storia a venire in cui la convenienza economica delle azioni umane va valutata con lo sguardo lungo imposto da quest’epoca e mediata dagli occhi europei di chi abita ancora in città nate duemila anni fa e giunte fino a noi, sia pur energeticamente inefficienti, ma in ogni caso molto differenti da quelle transeunte fatte di legno e cartongesso degli americani, dagli inferni collettivi cinesi o dalle capanne annuali di terra e fango degli africani. Nessuna ecologia può immaginare il mondo come fosse il Paradiso Terrestre popolato da due soli individui, senza tener conto dei numeri reali e dei nuovi equilibri che questi impongono, come il nuovo problema malthusiano di una popolazione che è passata in un secolo da 1,5 a 7 miliardi di individui. Una popolazione in gran parte dotata di telefono e connessione al web, che esprime una pressante richiesta di democrazia economica e che insiste sulle stesse risorse.