Aprile 2013 – In quale misura chiederci che cosa sia la fiducia ci obbliga a trasformare il nostro sguardo sulla società di mercato e sul sapere economico che la studia?
È questa la domanda che André Orléan, economista, direttore di ricerca del CNRS e dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales, membro del Consiglio Scientifico dell’Autorità dei Mercati Finanziari e presidente dell’Associazione Francese per l’Economia Politica, formula a partire dalle sue ricerche. La questione prende nei suoi scritti una duplice forma: quella di una critica delle teorie economiche che, non sapendo rendere conto della fiducia, si rivelano in ultima analisi incapaci di spiegare lo scambio economico stesso 1 e quella di un’analisi dello stretto legame che la fiducia intrattiene con la moneta (presentata nel libro La monnaie entre violence et confiance, di cui è co-autore insieme a Michel Aglietta, e ne L’empire de la valeur. Refonder l’économie, pubblicato poco più di un anno fa) 2.
In entrambi i casi si tratta, per lui, di riconoscere che le teorie economiche oggi più diffuse, che si riferiscono sostanzialmente all’economia neoclassica, non riescono a rendere conto dei loro stessi oggetti, presentano degli angoli ciechi che ne compromettono i fondamenti teorici e intaccano il valore delle loro spiegazioni e previsioni. La constatazione di questa impasse fa tutt’uno con la sfida per superarla, anche al prezzo di una rivoluzione concettuale profonda: negare la separazione che isola l’economia dalle altre scienze sociali e mettere in discussione quella concezione dell’ordine economico che lo pone come completamente autonomo rispetto all’ordine sociale. I fenomeni economici pensati come fenomeni sociali, cioè come caratteristici di una vita collettiva irriducibile alla somma delle volontà, dei calcoli o degli interessi dei suoi membri, appaiono così sotto una luce inattesa, che restituisce loro una nuova intelligibilità e apre al contempo nuove possibilità di rapportarsi praticamente a essi.
In questa intervista abbiamo chiesto ad André Orléan di riprendere i nodi principali della sua riflessione sulla fiducia, illustrandoci al contempo le poste in gioco essenziali del progetto che lui stesso definisce, come recita il sottotitolo del suo ultimo libro, una rifondazione dell’economia.
Potrebbe spiegarci perché non si può parlare di moneta senza parlare anche di fiducia?
Per capirlo bisogna partire da una constatazione: gli approcci economici neoclassici, o contrattualisti, che hanno cercato di spiegare che cosa sia la moneta, hanno fallito. Il loro tratto distintivo è un’idea strumentale della moneta: ciò che motiva gli attori è l’utilità dei beni, pensata come una sostanza che preesiste agli scambi e sulla quale si fonda il valore di ciò che è scambiato; la moneta è, dunque, solo uno strumento che facilita le transazioni e per questo è neutra, senza influenza sui rapporti economici reali. Essa non è desiderata in quanto tale, ma solo in vista dei beni utili che gli attori ricercano. È, quindi, qualcosa che si aggiunge in sovrappiù e non un elemento che consente di rendere conto degli scambi o dell’azione. Secondo questa prospettiva, allora, la spiegazione dell’adesione alla moneta, e quindi anche della fiducia monetaria, si fonda su un contratto, una convenzione, e quindi sulla volontà degli attori di accordarsi per semplificare gli scambi. È, in fondo, una teoria contrattualista della moneta.
Ma, a ben pensarci, se riflettiamo per esempio sull’attuale crisi dell’euro, c’è qualcosa di paradossale nel pensare che la moneta (e il desiderio stesso di moneta) abbia questa neutralità e sia priva di ogni influenza sull’economia reale, quando non facciamo altro che parlare di essa. Nel mio lavoro cerco di prendere sul serio questi fatti e di spiegare che l’economia di mercato funziona in senso esattamente opposto rispetto alla teoria contrattualista e strumentale: è il desiderio di moneta a essere costitutivo della società di mercato.
È questo desiderio, e non la ricerca di beni utili, a esserne alla base. In questo senso possiamo dire che la moneta non è al servizio dell’utilità, ma viene prima, poiché è in essa che il valore di mercato si esprime. Quest’ultimo non è quindi una sostanza, riducibile al lavoro o all’utilità, ma qualcosa di tutt’altra natura: una potenza d’acquisto che, espressa dalla moneta, si trova a essere riconosciuta e desiderata da tutti.
Per questo posso concludere che la moneta è l’istituzione fondamentale dell’economia, ciò che rende possibile che ci siano scambi, valutazione e valore. Ed è in questo modo che arrivo a chiedermi quale sia la natura della fiducia collettiva che fa sì che tale istituzione – assumendo il termine nel suo senso sociologico, come qualcosa di irriducibile alle volontà e agli accordi particolari degli agenti – possa esistere.
Soffermiamoci su questo punto per capire meglio che cos’è e come opera questa fiducia collettiva.
Occorre innanzitutto riconoscere che niente nella natura intrinseca, sostanziale, della moneta garantisce che essa sarà sempre accettata, consentirà di ottenere dei beni e conserverà il suo valore. La moneta è sempre una promessa, una promessa di liquidità. Per questo pone inevitabilmente il problema della fiducia e della credenza, la credenza che il segno monetario conserverà le sue proprietà e permetterà di acquistare le merci desiderate nel momento in cui lo si vorrà. Si può ricordare che Simmel, ne La filosofia del denaro, scriveva che il denaro è sempre del credito, poiché il suo valore riposa sulla fiducia, aggiungendo però poi che si tratta di un credito molto particolare, perché l’entità debitrice non è né un individuo né una persona giuridica, ma la comunità di mercato. La moneta e la fiducia nella moneta ci richiedono allora di pensare un impegno assunto dalla società nel suo insieme, dalla società come totalità. Ed è per questa ragione che un tale impegno, così come il rapporto di fiducia che intratteniamo con la moneta, non può essere pensato in termini di contratto.
Come si potrebbe pensare allora?
Ho trovato diversi modelli, che rinviano all’idea di un’adesione collettiva, di polarizzazione mimetica, di affetto comune, di potenza della moltitudine. Sono, in qualche misura, dei concetti intercambiabili per quel tanto che ci consentono di pensare l’idea di un investimento passionale nella moneta. Mi sono riferito principalmente a tre approcci per articolare quest’idea: René Girard e le sue riflessioni su quel processo (di polarizzazione mimetica) che si innesca quando, grazie alla designazione di una stessa vittima, un gruppo si riunisce ed esprime la sua unità.
Ho poi compreso che, nel caso della moneta, non è tanto la violenza a essere in gioco quanto piuttosto la costituzione del sacro, ma il processo è in fondo simile, perché si tratta sempre di una forma di esclusione, della creazione di un’esteriorità, che rende possibile l’unità della comunità. Durkheim è un secondo riferimento, in particolare il suo concetto di coscienza collettiva e di autorità del sociale. E, infine, l’idea spinozista di una messa in comune degli affetti che produce un affetto comune superiore in potenza e in estensione. È questo che si trova alla base della fiducia nella moneta: la potenza che acquista in virtù di un’adesione collettiva o di un affetto comune che emerge a partire dagli investimenti di ciascuno.
Ha detto che questa potenza, questo affetto comune, emerge dagli investimenti di ciascuno: perché allora non si tratta di una semplice somma di affetti e di volontà individuali?
Perché bisogna innanzitutto riconoscere che ciò che fa nascere i desideri che convergono sulla moneta non è una semplice disposizione singolare, ma si colloca sul piano dell’organizzazione collettiva e della natura stessa dei rapporti di mercato: il fatto che ci sia una divisione del lavoro sempre più imponente, che ciascuno, assegnato a una funzione particolare, abbia sempre più bisogno di scambiare con gli altri e che l’insieme delle produzioni alimenti il desiderio di potere d’acquisto.
Si tratta proprio di un potere, che gli attori devono poter esercitare. Questa è una necessità non semplicemente soggettiva, ma è inscritta in questa particolare forma di relazione sociale che si produce con la divisione del lavoro. Tuttavia, è nelle interazioni tra gli attori che questo affetto comune emerge. Possiamo, per capire meglio la questione, rileggere un passaggio delle Regole del metodo sociologico che amo molto, in cui Durkheim scrive:
un sentimento collettivo, che emerge in un’assemblea, non esprime semplicemente ciò che c’era di comune tra tutti i sentimenti individuali. È qualcosa di radicalmente altro, […] è una risultante della vita comune, un prodotto delle azioni e delle reazioni che si innescano tra le coscienze individuali […] se tutti i cuori vibrano all’unisono non è per un accordo spontaneo e prestabilito, ma perché una stessa forza li muove nello stesso senso 3.
Il sentimento collettivo è allora un prodotto delle azioni e delle reazioni tra individui, ma non come una semplice composizione di sentimenti individuali: è «qualcosa di radicalmente altro», è una potenza che si pone su un altro piano rispetto a quello delle volontà particolari. Questa è la cosa, difficile ma importante, da pensare. Perché è lì che si radica la fiducia e perché è questo che fa della moneta qualcosa che non è sullo stesso piano degli altri beni. Essa viene separata da essi, è «eletta», cioè accompagnata da una rappresentazione collettiva che le attribuisce delle proprietà nuove, altre rispetto a quelle della sua semplice costituzione materiale.
È per questa sua posizione particolare che può attrarre ed esprimere degli affetti comuni. Si può dire allora che c’è qualcosa come una «sovranità della moneta», una specifica potenza che acquista sul gruppo e che al contempo lo definisce, poiché è proprio nella moneta che l’individuo della società di mercato fa esperienza della sua appartenenza a una totalità che lo supera, lo regola e lo protegge. Nel mio approccio, quindi, il coordinamento dell’ordine di mercato è in primo luogo una coordinazione che avviene attraverso la moneta.
Che cos’è allora una crisi di fiducia, cioè una crisi monetaria, in questo modello?
Nella teoria che propongo la crisi ha sempre la forma di una dissidenza. Come accennavo, la moneta si accompagna a una rappresentazione sociale del valore, che costituisce un vincolo sempre molto forte per gli agenti. È quel che chiamavo «la sovranità della moneta». Si può osservare la forza di questo vincolo, così come le tensioni che possono accompagnarlo, nell’obbligo che pesa sui governi europei di pagare in una moneta che, a differenza di prima, non dominano del tutto.
Proprio per la forza del vincolo che essa esercita, ci sono sempre, nel tessuto sociale, degli interessi che cercano di trasformare la moneta. Per esempio, nell’Ancien Régime, la moneta metallica era riservata all’aristocrazia e i borghesi erano di fatto esclusi dal suo uso: l’invenzione della lettera di cambio è stato un modo di aggirare i vincoli che quella moneta poneva.
Tentativi di questo genere sono strutturali, e, per questo, un sistema funzionante non può essere eccessivamente rigido: deve autorizzare una pluralità di monete, ma controllandole, richiedendo per esempio che possano essere rimborsate in moneta centrale. La crisi si manifesta allora quando questa capacità di regolazione viene meno, quando gli interessi che cercano di aggirare l’ordine monetario sono sufficientemente potenti da produrre una vera e propria scissione. Sono momenti – che possono essere molto conflittuali e violenti – in cui si cerca di creare un’altra espressione e un altro controllo del valore perché non si ha più fiducia nell’ordine monetario esistente e nella sua regolazione.
Potrebbe farci qualche esempio?
Penso, per esempio, alle crisi legate all’inflazione o all’iperinflazione, come quella che scosse la Germania alla fine della prima guerra mondiale, quando, per far fronte ai debiti di guerra e a quelli legati alla spesa pubblica, si aumentarono le imposte sui capitali. Questo suscitò forti resistenze, che cercarono di sbarazzarsi del marco, di indebolirlo, producendo la crisi di questa moneta, per aggirare l’obbligo di pagare tali imposte. Ci sono anche altre forme di crisi di fiducia nella moneta. Possiamo pensare, per esempio, al caso delle monete complementari, in cui gruppi più o meno grandi decidono di creare una moneta tra loro. È quello che è accaduto in Argentina dopo la crisi, quando le persone non avevano più accesso alla moneta ufficiale, perché non avevano più un lavoro, ma potevano ancora vendere dei prodotti e offrire dei servizi.
Che cosa potremmo dire, a partire da questo modello, della crisi attuale dell’Europa?
L’Euro è un buon esempio sia delle tensioni provocate da una moneta collettiva sia del fatto che dietro la sua gestione ci siano dei progetti politici differenti. Le condizioni di emissione non sono infatti mai un problema semplicemente tecnico, ma politico, che in questo caso è quello del rapporto coi paesi indebitati: dovranno seguire delle politiche deflazioniste di riduzione del debito a qualsiasi costo o potranno essere loro concessi dei prestiti? Rispetto a tale questione, è in atto una vera e propria lotta tra progetti politici differenti, che corrispondono a credenze collettive diverse, tra l’idea tedesca di una moneta forte, da un lato, e il progetto francese, in alleanza con i paesi del Sud dell’Europa, di emissione monetaria per evitare la deflazione e il rigore, dall’altro. Il problema dell’Europa è allora proprio questo: l’assenza di rappresentazioni comuni e quindi di un progetto politico che supporti la fiducia che i cittadini hanno e avranno nell’euro e nella tenuta stessa dell’Europa.
Da che cosa dipende, secondo lei, questa difficoltà?
Nella gestione della fiducia monetaria lo Stato ha un ruolo molto importante: il problema è che in Europa c’è una moneta senza che ci sia uno Stato e la politica monetaria che ci vincola non è l’oggetto di un’adesione democratica ma l’effetto delle scelte di un corpo burocratico. Un paese con una sovranità politica può, per esempio, utilizzare l’arma monetaria per gestire il suo debito: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone hanno un deficit e dei debiti maggiori dell’Europa, eppure il problema del debito non assume le stesse proporzioni che da noi, perché questi Stati possono gestirlo grazie alla loro Banca centrale, che acquista il debito e fa abbassare i tassi di interesse. Da parte loro, gli operatori sanno di non rischiare su questo debito poiché è garantito dalla moneta di questi paesi.
Nel sistema dell’Euro, invece, è come se le nazioni avessero una moneta esterna, poiché, di fatto, tutte dipendono da una Banca centrale che, però, è lasciata alla burocrazia e ai rapporti di forza. E così è possibile che gli Stati, che subiscono l’obbligo di pagare il debito, vogliano tornare alla loro moneta, per aggirare o ricontrattare il vincolo che pesa su di loro. L’altra possibilità sarebbe quella di una politica e di una sovranità europea, che possa controllare la moneta, ma mi pare impraticabile: la sovranità politica non si inventa, o c’è o non c’è, non la si può produrre tramite delle elezioni europee. La sola possibilità risiede, secondo me, nell’intergovernamentalità, nelle decisioni che i diversi governi statali prendono collettivamente. Ma gli interessi in campo sono così violenti che anche questa via risulta molto incerta.
Per comprendere meglio questo nesso tra progetto politico, fiducia e moneta potremmo ritornare alle tre tipologie di fiducia presentate nel libro La monnaie entre violence et confiance?
In quel libro distinguevamo tre meccanismi di produzione di fiducia e di unanimità nella lotta contro le scissioni monetarie: la fiducia metodica, che è la più semplice e salda, quella che si forma nelle pratiche quotidiane quando le cose funzionano e l’uso della moneta non pone problemi. In questo caso la moneta non è un oggetto di riflessione da parte degli attori economici e non pone problemi quanto al suo valore. Segue poi la fiducia gerarchica, che riguarda le istituzioni, la Banca centrale in prima istanza, e la loro capacità di gestione monetaria. Infine, la fiducia etica, che riposa sul fatto che dietro la moneta vi è un’adesione a delle norme, a un modello, a un progetto sociale globale. È per questo che la moneta non è neutra, perché esprime una visione dei valori di una società. Prendere atto di ciò ci permette di riconoscere che la fiducia etica, il progetto di organizzazione della società, si traduce in diverse dottrine monetarie che si sono susseguite, o contrapposte, nella storia. Per esempio io penso, seguendo il filo di questo ragionamento, che l’atto di nascita dello stadio attuale del capitalismo, il neoliberalismo, è da attribuire a Paul Volcker, direttore della Banca federale americana, che, all’inizio degli anni Ottanta, ha messo in atto una violenta politica di lotta contro l’inflazione, a costi sociali altissimi e con profonde conseguenze per i paesi in via di sviluppo indebitati con gli Stati Uniti. Per passare a un nuovo stadio del capitalismo bisognava trasformare l’elemento più importante: la moneta. Per questo è possibile dire che, rispetto alla politica monetaria, la fiducia etica è quella di più alto livello.
Pensa che questa fiducia sia presente in Europa?
No, la fiducia etica manca in Europa e, mancando, non produce più legittimazione né adesione collettiva dei popoli al progetto europeo. La rappresentazione della moneta che domina in Europa è quella tedesca che, come dicevo, ruota attorno all’idea di una moneta stabile, anti inflazionista, che renda possibile una giusta concorrenza. È una visione che subordina a questi imperativi i diritti sociali legati all’esercizio della cittadinanza (come l’istruzione, la sanità o le pensioni). Ma una tale visione – bisogna riconoscerlo – non funziona e produce una fiducia svuotata di una vera progettualità.
La scelta – che, lo ribadisco, non è tecnica, ma associata a un progetto politico e monetario – di limitare fortemente la possibilità che la Banca centrale europea acquisti il debito dei paesi europei ha delle conseguenze ben determinate: si segue una politica deflazionista per rimborsare il debito e le popolazioni soffrono. A questo proposito mi viene in mente una bella osservazione di Habermas:
Adesso la massa di coloro che non appartengono alla categoria di quelli che dalla globalizzazione hanno tratto lauti guadagni una volta di più è chiamata alla cassa per pagare le conseguenze sull’economia reale di un prevedibile difetto di funzionamento del sistema finanziario. E questo non avviene in valori monetari, come per i possessori di azioni, ma nella pesante valuta della loro esistenza di ogni giorno 4.
Quale trasformazione della scienza economica è secondo lei necessaria per indagare questa interdipendenza tra moneta, fiducia e diversi progetti di società?
La rifondazione dell’economia che propongo si basa in primo luogo sul riconoscimento che la moneta è un’istituzione come le altre, il rapporto economico è un rapporto sociale come gli altri, e l’economia è, di conseguenza, una scienza sociale come le altre. Come cerco di spiegare nel mio libro L’Empire de la valeur, questo implica una trasformazione radicale dell’idea di valore: gli economisti hanno costruito un concetto molto particolare di valore, pensato come la misura di qualcosa che esiste e che precede gli scambi, l’utilità. Ma è davvero difficile spiegare, in questa prospettiva, la passione che spingeva alla corsa all’oro, ma anche i fenomeni quali la bolla di Internet, che restano incomprensibili in termini di razionalità individuale. Io propongo un modello alternativo, che potremmo dire durkheimiano, in cui il valore non è la misura di qualcosa ma una potenza di trasformazione. È, cioè, qualcosa che investe e trasporta gli attori, che accresce la loro potenza di vita e la loro capacità di azione.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione concettuale, che mette in causa i fondamenti del discorso economico, in primo luogo l’idea di utilità, e capovolge la considerazione stessa della società di mercato. Le teorie economiche presentano, infatti, degli attori che hanno un rapporto con degli oggetti, li amano, ne hanno bisogno. E il mercato è il luogo in cui si incontrano per scambiare. In questo modello, lo scambio è, allora, già adattato agli attori, non pone loro problema, perché non è niente di più che il prolungamento immediato del loro giudizio di utilità. È un luogo vuoto, di semplice registrazione.
Al contrario, nella visione che io propongo, ciò che viene per prima è quella potenza di scambio che si esprime nella moneta e il problema degli attori è allora adattarsi a essa, capire come avere a che fare con questa potenza sociale che li precede e che è la moneta. In tale prospettiva, l’economia diventa allora un discorso nato per aiutare gli attori sociali a trovare delle soluzioni al problema di adattarsi a una tale potenza di scambio: le teorie sui prezzi e sull’utilità sono state delle invenzioni che hanno cercato di rispondere a questa preoccupazione. Proprio in questo consiste, secondo me, il carattere performativo dell’economia.
La trasformazione dell’idea del valore è, allora, ciò che mi permette sia di ristabilire un legame tra l’economia e le altre scienze sociali sia di ripensare la decostruzione della moneta operata dalle teorie economiche. Di fronte alle credenze che ponevano la moneta come un bene in sé, gli economisti hanno voluto mostrare che la moneta era in realtà un falso idolo e che ciò che contava veramente era l’utilità. Trasportati da questo atto di demistificazione non hanno però visto che, se certo quelle credenze erano delle rappresentazioni, queste ultime, però, fanno parte a pieno titolo della realtà. Come abbiamo osservato parlando della fiducia etica e della crisi del progetto europeo, le rappresentazioni della moneta contano e sono un tratto inaggirabile della realtà che chiede di essere pensato. È quello che un’economia sociologica – così come la penso – dovrebbe fare, se vuole davvero spiegare il rapporto tra la fiducia, la moneta e le credenze collettive in cui emergono i diversi progetti politici che le accompagnano.
Fonte/Testo originale: Ferrando Stefania, ‘La fiducia tra economia e antropologia. Intervista ad André Orléan’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 1, aprile 2013, Il Mulino.
Note
- Si vedano ad esempio gli articoli: A. Orléan, La théorie économique de la confiance et ses limites, in «Cahiers de SocioÉconomie», in La confiance en question, a cura di R. Laufer e M. Orillard, Paris,
L’Harmattan, 2000, pp. 59-77; e Sur le rôle respectif de la confiance et de l’intérêt dans la constitution de l’ordre marchand, in «Revue du MAUSS», n. 4, secondo semestre 1994, pp. 17-36
- A. Orléan e M. Aglietta, La monnaie entre violence et confiance, Paris, Odile Jacob, 2002; A. Orléan, L’empire de la valeur. Refonder l’économie, Paris, Seuil, 2011. Dell’autore si trova, in traduzione italiana, una raccolta di saggi: Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, Verona, Ombre Corte, 2010.
- É. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique, Paris, Flammarion, 1988, p. 103.
- J. Habermas, Dopo la Bancarotta, intervista condotta da Thomas Assheuer e pubblicata in «Die Zeit», n. 46, 6 novembre 2008; traduzione dal tedesco di José F. Padova