Per farla finita con l’immaginario della crisi

Se è innegabile che assistiamo a sconvolgenti trasformazioni storiche, non è inevitabile che per parlarne si sia scelta la parola crisi.

crisi sociale

Autore

Raffaele Alberto Ventura

Data

5 Settembre 2022

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6' di lettura

DATA

5 Settembre 2022

ARGOMENTO

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La fortuna del concetto di crisi nel dibattito pubblico e istituzionale inizia negli anni ‘70. Non è soltanto il segno di una condizione storica peculiare caratterizzata da trasformazioni economiche, politiche, sociali che si sottraggono in maniera sempre più vistosa alle previsioni dei paradigmi dominanti all’interno di ogni disciplina. Infatti si tratta anche di una specifica scelta terminologica che classificando come scarti, eccezioni, parentesi, interruzioni o anomalie gli effetti imprevisti di queste trasformazioni vorrebbe in qualche modo ‘salvare’ quei paradigmi, secondo un classico schema di ‘puntellamento’ della scienza normale ben studiato dai filosofi della scienza dopo Kuhn, in particolare da Lakatos.

La crisi è dunque contemporaneamente il nome, vaghissimo, di un fenomeno reale (o, per meglio dire, di una costellazione di fenomeni strettamente intrecciati che andremo a evocare) e il dispositivo concettuale per mezzo del quale rifiutiamo di fare i conti con il fallimento dei nostri strumenti di conoscenza e di procedere alla loro revisione radicale. 

È noto, e misurabile con strumenti bibliometrici e quantitativi, che il termine ‘crisi’ abbia avuto una grande diffusione nell’ultimo mezzo secolo. Il suo ingresso nel dibattito pubblico coincide con le crisi petrolifere della prima metà degli anni ‘70, che per qualche anno serviranno da spiegazione esogena a fenomeni economici le cui cause si riveleranno poi ben più profonde e strutturali, e prosegue nella seconda metà del decennio con il rapporto della commissione Trilaterale sulla Crisi della democrazia. Crisi economica, crisi sociale, e da lì, crisi politica.

«Crisi di legittimazione» scriverà Jurgen Habermas proprio in quegli anni tentando una fortunata sintesi tra marxismo e teoria dei sistemi.

Ma sono tanti, all’epoca, a tradurre nelle loro diverse discipline la percezione di un meccanismo socio-economico rotto, disfunzionale, allorché nei due decenni precedenti ci si era illusi non soltanto di avere definitivamente regolato il ciclo economico con le politiche keynesiane, ma altresì di avere instradato la società occidentale, e magari anche il resto del mondo, sui binari della modernizzazione e dello sviluppo. Le certezze del progressismo liberale iniziano a infrangersi anche nei suoi templi: per esempio l’OCSE, nel quale iniziano a circolare rapporti pessimistici sulla ‘Crisi della società moderna’.

La trasversalità di questo parlare di crisi non è certo garanzia di uniformità di vedute; tutt’al contrario, il ricorso a questo termine finisce presto per mascherare le divergenze ideologiche dietro un significante vago. Bisogna tuttavia cercare di delineare a grandi linee gli aspetti di questa crisi di cui si inizia a parlare negli anni ‘70, in maniera tanto frequente da costituire presto un vero e proprio rumore di fondo che intesse oggi la nostra intera esistenza. C’è dunque in principio una crisi di natura economica, ossia la crisi del paradigma dominante all’epoca, solitamente riassunta evocando l’anomalia della ‘stagflazione’, coesistenza impossibile tra stagnazione e inflazione.

Il modello keynesiano viene lavorato ai fianchi dalle critiche concomitanti dei marxisti (si pensi alla teoria della crisi di Ernest Mandel) e di quelli che verranno poi chiamati neo-liberali — il cui successo nella battaglia delle idee verrà sancita dai premi Nobel a Hayek e Friedman. Il resto è storia, quella di una revisione del paradigma keynesiano, che tuttavia fallirà nel risolvere gran parte dei problemi emersi in quegli anni, creandone invece di nuovi. A margine di questo dibattito, e di fronte al fallimento delle politiche di modernizzazione nei paesi del Terzo Mondo (come si diceva all’epoca), si impone anche la visione critica degli economisti dello sviluppo di matrice marxista, dai teorici della dipendenza alla scuola del sistema-mondo, che rivelano l’inconsistenza di certi capisaldi del pensiero economico dominante, come per esempio la legge dei vantaggi comparati.

Ma non è soltanto economica la crisi degli anni ‘70, bensì anche sociale e culturale. Il Sessantotto studentesco incarnò, tra le tante cose, una ‘domanda di senso’ che la società industriale non era in grado di garantire. Poco prima le rivolte dei neri a Watts, nella periferia di Los Angeles, secondo l’interpretazione di uno dei più brillanti ideologi sessantottini — ossia Guy Debord — aveva rivelato al mondo che nemmeno la crescita continua della capacità produttiva bastava a cancellare le differenze di status all’interno di società profondamente diseguali.

Costretto a produrre bisogni sociali in quantità per alimentare la domanda necessaria ad assorbire i surplus produttivi determinati dal progresso tecnologico e dalla concorrenza sui mercati, il sistema capitalista aveva prodotto più bisogni di quanti non fosse possibile soddisfare.

Questa idea, conforme al neo-pessimismo culturale dell’estrema sinistra marxista o più precisamente post-marxista (da Marcuse a Castoriadis), non era poi molto distante dalla chiave di lettura che di questa crisi culturale davano negli stessi anni sociologi più ‘integrati’, come Daniel Bell nel suo influente Cultural contradictions of capitalism, Fred Hirsch in Social limits to growth o persino lo stesso rapporto della commissione Trilaterale, con i suoi toni tocquevilliani (cioè liberali-conservatori). E questa convergenza non è un caso, visto la fitta rete d’influenze reciproche, note e meno note, che le sta dietro.

Secondo la maggior parte di questi autori, la crisi culturale non era una conseguenza della crisi economica, ma era semmai la crisi economica una conseguenza della crisi culturale. La crisi politica non poteva che seguire, poiché, appunto, a erodersi era sempre di più il principio di legittimità sul quale reggono i poteri.

Possiamo affermare di vivere ancora oggi in questa stessa ‘crisi’ di lungo corso, in quanto le cause così attentamente identificate all’epoca non sono ancora state rimosse. Ma bisogna appunto intendersi sul significato che porta con sé l’uso della categoria di crisi, che oscilla tra l’utilizzo marxista di ‘crisi terminale’ (che dovrebbe porre fine alla storia del capitalismo, si veda in Henryk Grossmann) e quello, ormai invalso nell’uso comune, di una ‘febbre’ passeggera del sistema (dalla crisi ci si aspetta sempre di ‘uscire’).

Entrambe queste accezioni appaiono oggi insoddisfacenti, sul piano metodologico, in quanto se da una parte il processo di modernizzazione capitalistica ha dimostrato nel corso degli anni una straordinaria resilienza, per cui come ha notato recentemente Branko Milanovic al collasso di un modello capitalistico ne può soltanto seguire un altro più efficiente, magari simile a quello cinese, dall’altra le febbri che lo colpiscono appaiono anch’esse come ricorrenti, persistenti, strutturalmente insormontabili, in qualche modo strutturali alla sua regolazione. Su questo paradosso appaiono ancora attuali le parole di Schumpeter, che pur difendendo l’efficienza del ciclo delle ‘distruzioni creatrici’ che colpiscono il sistema non ha potuto fare a meno di concludere la sua grande opera su Capitalismo, socialismo e democrazia con la constatazione che il malessere prodotto da queste scosse continue (in particolare sulla classe istruita) rischia continuamente di essere motore di crisi culturali e da lì politiche. Difficile, dicevamo, negare perlomeno l’attualità di questa riflessione in società che godono ancora di uno straordinario benessere materiale pur soffrendo un crescente malessere morale, di cui il voto populista pare essere il sintomo.

Di fronte a queste linee di tensione, diffuse in diverse sfere della vita sociale, pare sia stato dimenticato il monito dei teorici degli anni ‘70 (e anche dei rapporti ufficiali: OCSE, Trilaterale) a svincolarsi dalle analisi esclusivamente economicistiche delle disfunzioni del sistema. Senza cadere nella vuota retorica dell’anti-economicismo o sottovalutare l’importanza della crescita del PIL, bisogna rilevare che una pianificazione statale che ha come sola unità di misura quella contabile, commerciale o finanziaria si priva della griglia di lettura necessaria per soddisfare una domanda politica che eccede queste sole dimensioni, connesse a tutte le altre, forse persino da loro dipendenti.

Se è innegabile che assistiamo a sconvolgenti trasformazioni storiche, non era inevitabile e non è neutrale che per parlarne si sia scelta la parola ’crisi’. Molti osservatori hanno denunciato in questo termine un dispositivo di potere, in quanto l’invocazione ripetuta della crisi va a costituire un’atmosfera di emergenza permanente: a eccezione (politica, economica, climatica, sanitaria) corrisponde stato di eccezione, poteri speciali, sospensione di garanzie, accettazione di condizioni in altro contesto inaccettabili.

Giorgio Agamben ha esaminato questo paradosso dai tempi di Homo sacer fino ai suoi ultimi, umorali, interventi sulla pandemia. Ma nemmeno Agamben può negare che la retorica emergenziale reagisce spesso, come appunto nel caso della pandemia, a qualcosa di reale.

Ed è questo reale che viene assorbito nell’immaginario della crisi, col risultato di scindere — l’etimologia, alla fine, come sempre, ci ha riacciuffati — la società in due fazioni: da una parte chi denuncia la natura fantasmatica del problema (non esiste nessuna crisi) e dall’altra chi crede di poterla risolvere (la crisi è superabile). E se invece avessimo a che fare con qualcosa che esiste ma non è superabile? In questo caso il termine ‘crisi’ risulta insoddisfacente.

Svincolarsi dall’immaginario della crisi appare allora come un passo necessario per esaminare le trasformazioni, epocali e drammatiche, che stiamo vivendo: poiché un sistema dinamico è sempre necessariamente in crisi, la crisi è la legge stessa del suo divenire; la più funzionale delle macchine produce degli scarti, consuma energia, distrugge le condizioni ambientali del suo stesso funzionamento, e deve perciò essere continuamente rivoluzionata.

L’emergenza dell’immaginario della crisi negli anni ’70 non manifesta necessariamente in sé una discontinuità più grande di quelle vissute in precedenza nella storia umana, semmai l’irruzione di una sconvolgente verità in un mondo che l’aveva rimossa: è impossibile arrestare la storia e regolarne i cicli, impossibile rimuovere dall’animo umano le aspirazioni che rendono gli individui tanto irrequieti.

Per venti o trent’anni abbiamo semplicemente confuso l’eccezione con la regola — e quando la regola ha iniziato a riaffiorare abbiamo scelto di chiamarla crisi.

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