Riscoprire l’ascolto per salvare la Terra

È nel vibrare invisibile dei suoni che riemerge il nostro legame più profondo con il mondo.

Autore

Dario Giardi

Data

12 Agosto 2025

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4' di lettura

DATA

12 Agosto 2025

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A volte, la memoria si manifesta non come un pensiero, ma come un suono. Il crepitio di foglie secche sotto i piedi in un bosco d’infanzia. Il lento gorgoglio dell’acqua in un ruscello tra le colline. Le campane del paese che preannunciano il pranzo con i nonni. Questi frammenti acustici non sono solo ricordi: sono chiavi che aprono stanze nascoste del nostro essere.

Tutti, prima o poi, ci confrontiamo con la perdita. La morte di una persona amata ci svuota e ci lascia con l’eco del silenzio. E col tempo, anche le immagini che conservavamo di lei — un volto, un sorriso, un gesto — iniziano a sfumare, come polaroid scolorite. Ma i suoni… quelli restano. Un tono di voce, un passo sulle scale, una risata in una stanza vuota: possono riemergere all’improvviso, nitidi, come se il tempo non fosse mai passato.

Un profumo può accendere un ricordo, certo. Ma l’udito ha una capacità più sottile e profonda: quella di riattivare il sentire. Di restituirci non solo il cosa, ma il come. Come ci sentivamo, in quel momento. L’atmosfera, il clima, persino la luce.

Viviamo immersi in un mondo di stimoli visivi — schermi, cartelloni, notifiche, immagini istantanee — ma è il suono che penetra più a fondo. Non possiamo chiudere le orecchie come facciamo con gli occhi. Il suono ci attraversa, ci plasma, ci modella. E forse, proprio perché non possiamo controllarlo del tutto, ne abbiamo dimenticato la potenza.
In questa epoca di crisi ambientale, forse è tempo di tornare a sentire. Non solo con l’udito, ma con tutto il corpo, con l’anima. Ascoltare, davvero ascoltare, è un atto rivoluzionario. È una forma di resistenza contro l’accelerazione costante, contro l’indifferenza, contro la disconnessione che ci ha resi estranei alla natura — e spesso anche a noi stessi.

Per oltre due decenni ho attraversato il mondo della sostenibilità, dai tavoli delle conferenze internazionali ai laboratori universitari, dai rapporti tecnici alle strategie per la transizione ecologica. Ho visto le grandi parole — climate change, decarbonizzazione, green economy — trasformarsi in slogan, piani, proposte. Ma la mia sensazione, sempre più forte, è che qualcosa di fondamentale ci stia sfuggendo.

Perché, nonostante tutta questa attenzione, i cambiamenti reali restano lenti, parziali, reversibili?

Forse perché abbiamo sbagliato prospettiva. Abbiamo ridotto la sostenibilità a una questione tecnica, a un problema di governance, a un insieme di parametri e incentivi. Ma la crisi ecologica non è solo una questione di dati. È una crisi di coscienza. Una perdita di connessione. Abbiamo disimparato a percepire il mondo che ci ospita.

Entro il 2030, secondo le Nazioni Unite, quasi tre persone su quattro vivranno in contesti urbani. Città che spesso sono costruite per cancellare il silenzio, per sostituire la biodiversità con l’asfalto, per anestetizzare l’esperienza. Eppure, non c’è sostenibilità senza relazione. E non c’è relazione senza ascolto.

L’assenza di ascolto è il primo passo verso l’indifferenza. Se non sentiamo, non riconosciamo. Se non riconosciamo, non ci sentiamo parte. Il suono è l’elemento invisibile che ci unisce a un luogo, a una comunità, a un paesaggio. È l’impronta acustica che ci radica. Una civiltà che perde il suo paesaggio sonoro perde anche la propria anima.

Da questa riflessione è nato il mio saggio E se fosse la musica a salvarci – La memoria dei suoni e la sfida climatica, pubblicato da Mimesis Edizioni. In queste pagine propongo il concetto di memoryscape, un’estensione del soundscape, in cui i suoni non sono solo percezioni, ma portatori di senso, storia, identità. Ogni campana che risuona, ogni fruscio di foglie, ogni canto d’uccello è un tassello del nostro patrimonio collettivo. Non solo ambientale, ma anche emotivo e politico.

Ascoltare il paesaggio sonoro non è un lusso da contemplativi: è un’urgenza politica. Un modo per misurare la distanza tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere. Un’indagine intima e pubblica, come quella suggerita da Papa Leone XIV quando invita a «ricucire le fratture con ponti, non con barriere».

Oggi viviamo circondati dal rumore. Ma è un rumore che non ci parla, che ci isola, che ci disorienta. Distinguerlo dai suoni significativi è il primo passo per tornare a una percezione più piena del mondo. Una percezione che ci rende più umani, più consapevoli, più attenti.

La musica, in questo, è un alleato potente. Non come intrattenimento, ma come linguaggio primordiale, come forma di conoscenza. Le sue vibrazioni non si limitano a riempire lo spazio: lo trasformano. Ci offrono la possibilità di sentire la Terra, e con essa, la nostra stessa fragilità.

Riascoltare il mondo non è un ritorno nostalgico all’Arcadia. È un atto di rigenerazione. È il modo per ricucire il tessuto strappato del nostro rapporto con la natura. Non per salvarla dall’esterno, ma per riscoprirci parte di essa.

In fondo, la sostenibilità non comincia dai dati, ma dai sensi. Dall’orecchio che si tende verso il canto dell’alba. Dal cuore che batte al ritmo del mondo. Dalla memoria di un suono che ci ricorda, semplicemente, chi siamo.

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