Gunther Anders. Il mondo come immagine

Perché inventiamo cose che non possiamo concepire fino in fondo? Perché tendiamo a rimuovere i possibili esiti di tutto ciò che percepiamo come ‘fuori misura’? Per un difetto d’immaginazione e di responsabilità.

Autore

Pasquale Alferj

Data

29 Febbraio 2024

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29 Febbraio 2024

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Filosofia

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Saggista e scrittore, con una solida formazione filosofica e dotato di uno straordinario talento musicale, Gunther Stern (poi Anders e spiegherò perché), nasce a Breslavia nel 1902 e riceve un’educazione di prim’ordine dai genitori Claire e William Stern, entrambi psicologi sperimentali dell’età evolutiva. Il padre, al tempo molto noto nel mondo universitario, è anche il co-fondatore dell’Istituto di psicologia applicata.

Studia filosofia con Ernst Cassirer, storia dell’arte con Erwin Panowsky e frequenta le lezioni di psicologia del padre. Prosegue gli studi con Edmund Husserl e Martin Heidegger e si laurea con il primo, che frequenta con assiduità durante il periodo di preparazione della tesi. Nel 1925 conosce Hannah Arendt che sposerà nel 1929 e nel 1926 è chiamato come assistente di Max Scheler all’Università di Colonia. La sua carriera universitaria sembra ben avviata. Due anni dopo tutto precipita. A chiudergli ogni possibilità accademica è il parere negativo di Theodor W. Adorno al suo progetto di abilitazione alla docenza in filosofia della musica. Paul Tillich, che all’inizio è favorevole al progetto, invita poi cautamente Anders a scegliere un argomento non musicologico e ad aspettare l’esaurirsi dell’‘ebbrezza’ nazionalsocialista.

A Berlino trova lavoro come giornalista culturale al «Berliner Börsen Courier», dove scrive di tutto, dalla violenza sui minori ai romanzi polizieschi, dal resoconto di un convegno di filosofia alla cronaca di eventi sportivi. Per il direttore del giornale troppi sono gli articoli firmati Stern e gli chiede di firmare in modo ‘diverso’. Gunther lo prende alla lettera e così nasce Gunther Anders, il diverso. 

Dopo il rogo del Reichstag nel 1933, l’atmosfera a Berlino comincia a farsi tesa e decide di lasciare la città per Parigi. Ha così inizio un lungo esilio che lo porta presto negli Stati Uniti. A Parigi la vita è difficile, dura per un sans-papiers come lo è per gran parte degli immigrati tedeschi. Poco dopo lo raggiunge la moglie Hannah Arendt. Nel 1936 divorziano e lui raggiunge gli Stati Uniti, dove sopravvive durante gli anni di guerra, prima a New York e poi a Los Angeles, svolgendo i lavori più disparati, compreso quello di operaio in un’ industria automobilistica. 

Nel 1950, a guerra finita, dopo diciassette anni d’esilio, Gunther Anders decide di lasciare gli Stati Uniti. Dove andare? Tornare in Germania? In quale? Scarta sia quella controllata dai sovietici, sia quella controllata dalle altre potenze. Non riscuotendo la Germania tutta la sua simpatia, opta per l’Austria. Si stabilisce a Vienna e riprende a pubblicare: non testi direttamente filosofici ma saggi letterari, abbozzati già negli anni Quaranta, a cominciare dal quelli sull’amato Kafka. 

C’è un episodio degli ultimi mesi prima della fine della Seconda guerra mondiale e del suo rientro in Europa che lo segna in maniera profonda e indirizza tutta la sua produzione filosofica e letteraria del dopoguerra, e accende il suo attivismo civile. Il 6 agosto del 1945 scoppia la prima bomba atomica su Hiroshima e tre giorni dopo su Nagasaki. Anders alla notizia ammutolisce. Per anni non troverà la forza di reagire, di scrivere1. Quella data definisce una nuova condizione umana e rappresenta una ‘cesura’ grave per la propria vita: è «il giorno zero di un nuovo computo del tempo». 

Nell’agosto del 1958, in occasione della partecipazione a Tokyo a un convegno antiatomico, visita le due città bombardate e osserva gli effetti della bomba sui superstiti. 

La ‘bomba’ è un oggetto che può essere definito, secondo Anders, solo a partire da ciò che non è, alla stessa maniera con cui la teologia negativa descrive gli attributi ontologici di Dio. Non è un’arma né uno strumento ed è pensabile solo fuori dalla coppia concettuale mezzo-fine. Un mezzo è tale solo perché può realizzare un fine. Una guerra nucleare, sottolinea Anders, non può realizzare nessun fine perché la sua ‘dismisura’ è al di là di ogni fine immaginabile. L’ordigno è stato progettato, questo è evidente, ma a chi l’ha progettato non erano altrettanto chiare le sue conseguenze reali del suo uso («Chi progetta un coltello, progetta anche la ferita»). Per Anders la ‘bomba’ non è soltanto la quintessenza della ‘tecnica’, ma incarna la totale alienazione dell’umanità dal suo potere tecnologico. Parte dalla ‘bomba’ per avvisarci dell’asincronizzazione crescente ogni giorno di più tra l’uomo e i suoi prodotti, cioè dello scarto tra il progettare e il fare, da una parte e, l’immaginare, e quindi prevedere, dall’altra. Anders chiama questa discrepanza tra un immaginario debole e una produzione (di oggetti, sistemi, macchine ecc.) fuori misura, ‘dislivello prometeico’. «L’uomo è antiquato – titolo anche del suo libro più noto –, la nostra fantasia e le nostre emozioni arrancano e rimangono indietro rispetto alle nostre opere tecniche». Stiamo edificando, prosegue Anders, un mondo in cui diventa sempre più difficile per l’uomo essere all’altezza del Prometeo che è in lui, perché ciò che gli si chiede è esorbitante rispetto alle capacità della sua fantasia, delle sue emozioni e soprattutto di sentirsi responsabile. Già negli anni Cinquanta del Novecento rileva che ormai viviamo in un ‘mondo tecnico’, e non anche tecnico (distinzione importantissima), dove la ‘tecnica’ «è ormai diventata il soggetto della storia».

Quando il mondo «è scritto in un linguaggio quasi incomprensibile», il compito di chi scrive è cercare di tradurlo in un linguaggio chiaro e audace. Il metodo di Anders è un «ibrido incrocio tra metafisica e giornalismo», che ha per oggetto fenomeni d’attualità; questo carattere ibrido dà luogo a un insolito stile espositivo che colpisce il lettore e lo porta ad affrontare questioni filosofiche fondamentali. E se talune esposizioni appaiono esagerate è perché esistono dei fenomeni che a occhio nudo «si presentano sfocati ed esigono una esposizione amplificata». 

Pensando all’odierna inondazione d’immagini e all’istantaneità con cui siamo collegati tra noi e al mondo, non possono che apparirci acute le analisi di Anders su come l’iperproduzione di ‘macchine’ modifica in profondità la società in generale e poi ogni singolo essere umano in particolare. Ha lasciato un’Europa radiofonica e cinematografica e sta assistendo a un momento decisivo dello sviluppo della televisione negli Stati Uniti. Quest’ultimo ‘dispositivo’ è ormai abbastanza diffuso tra le famiglie americane e attorno a esso è già nata velocemente un’industria.

Facciamo un passo indietro. Di cosa parlavano Husserl e Anders durante le passeggiate che facevano assieme una volta alla settimana nel periodo in cui si frequentavano per via della tesi che il secondo preparava? Per lo più delle teorie della percezione alle quali entrambi erano interessati. Per i due la percezione è un processo fondamentale dell’esperienza umana e per la conoscenza del mondo. Questo interesse porta Anders a studiare, nel periodo americano, le forme artificiali della medialità, cioè a discutere l’influenza dei media sulla percezione e la comprensione umana. Non è l’unico a riflettere sui nuovi media del tempo, ma sono le sue analisi quelle che a distanza di oltre mezzo secolo conservano una particolare attualità. Anders coglie subito un elemento importante: il dispositivo televisivo, la ‘macchina’ non è un mezzo, uno strumento, ma ‘realtà’ che plasma la nostra vita. Il suo occhio di osservatore è vergine, può vedere quello che accade con lo stesso spirito di uno scienziato che osserva nel suo laboratorio lo svolgersi di un esperimento. Anders sviluppa questi temi sempre in L’uomo è antiquato, dove scrive che la produzione di massa degli apparecchi di ricezione ha reso superfluo il consumo collettivo. Secondo la sua analisi, la differenza principale tra il cinema e la radio e la televisione è che il primo, assieme al teatro, offre la sua ‘merce’ in un unico esemplare, come ‘spettacolo per molti’, evento che viene consumato ‘collettivamente’. Nel caso invece di radio e televisione, ai produttori di questi dispositivi interessa una massa ‘suddivisa’ nel maggior numero possibile di acquirenti. In altre parole, ai produttori non interessa una ‘massa ammassata’, ma degli utenti-consumatori pronti a profilazioni sempre più fini. La merce – idee o cose –, sostiene Anders, viene ‘servita e consumata a domicilio’, davanti a ogni apparecchio radio e televisivo. E il consumatore ‘co-opera’ con il suo consumo al processo produttivo e alla produzione di se stesso come ‘uomo massa’. «La produzione ha luogo dovunque ha luogo il consumo». All’uomo massa, al lavoro salariato, in fabbrica o in ufficio, dobbiamo sommare il ‘lavoro a domicilio’, in quanto consumatore. La vista di Anders è lunga e chissà cosa avrebbe detto della nostra ‘era digitale’. 

Scritto negli anni dell’esilio americano, nel capitolo di L’uomo è antiquato anticipato sulla rivista «Dissent», la tesi sostenuta è che si produce per il consumo e che quest’ultimo è ‘produttivo’, è l’elemento centrale del processo che segue lo schema produzione-consumo-produzione, all’infinito. Inoltre, con questi dispositivi di comunicazione il mondo viene a noi e non viceversa. «Allora non siamo più ‘nel mondo’ ma soltanto consumatori di esso». Il mondo (persone, cose, avvenimenti ecc.) che ci viene fornito in casa ha un’importante caratteristica: è un mondo che ci appare familiare. Se ogni cosa, lontana o vicina che sia ci è familiare, la distinzione tra ciò che è importante e ciò che non lo è viene ‘neutralizzata’. La familiarizzazione, sostiene Anders, è un evidente «fenomeno di neutralizzazione e la forza neutralizzante fondamentale» è oggi «il carattere di merce di tutti i fenomeni». La merce produce alienazione e Anders precisa che paradossalmente la familiarizzazione non è l’antagonista dell’alienazione ma la sua radice: «la familiarizzazione giova all’alienazione» e la sua funzione neutralizzante consiste nell’azione di mascheramento della stessa alienazione. La mano che infligge la ferita dell’alienazione è la stessa che cura quest’ultima versando «il balsamo della familiarità». «Feriti dall’alienazione», non ci accorgiamo «che siamo sotto l’effetto della droga della familiarizzazione». La singolare attualità delle questioni messe a fuoco da Gunther Anders negli anni Cinquanta in L’uomo è antiquato – e nel successivo ‘aggiornamento’ nel secondo volume uscito alla fine degli anni Settanta – è un invito a leggerlo. In particolare ‘il dislivello prometeico’ è un concetto molto attuale, utile sia per affrontare la questione del cambiamento climatico (la nostra incapacità di immaginare tutti gli esiti delle nostre azioni) e la medialità dell’uomo moderno (stretto tra attività e passività, evidente nel consumo dei media – e oggi dei dispositivi digitali – e le forze ‘emozionali’ che scatenano), sia per comprendere ciò che si può conseguire con la ‘disobbedienza civile’ non violenta e creativa, forma di lotta che negli ultimi anni di vita Anders radicalizza in modo estremo.

Note

  1. Nel 1959 Gunther Anders iniziò una corrispondenza con Claude Eatherly, il pilota meteorologico che ordinò lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945. Il carteggio sarà reso pubblico da Anders nel 1962 e lo stesso anno pubblicato da Einaudi (La coscienza al bando)
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