Tra i molteplici impatti ambientali, le conseguenze per la salute umana rappresentano una componente dominante1 nella computazione del cosiddetto social cost of carbon2 e costituiscono dunque un forte incentivo all’implementazioni di politiche di mitigazione e adattamento. Gli effetti sulla salute, oltre a colpire in media la popolazione, si rivelano particolarmente gravi per alcune categorie più vulnerabili. Tra queste, i più colpiti sono gli individui con patologie pregresse, anziani e bambini.
Nell’ultime decade, diversi studi hanno approfondito il ruolo dell’esposizione ad agenti ambientali durante il periodo in utero e nei primi anni di vita, analizzandone gli impatti di breve e di lungo periodo. La letteratura economica, già precedentemente, aveva raccolto molte evidenze empiriche sulla rilevanza di shock, di diversa natura, vissuti in fasi considerate critiche nel processo di formazione degli individui – in particolare prima dei dieci anni di vita – mostrandone la persistenza delle conseguenze3. Tali shock, infatti, interferendo con lo sviluppo e acquisizione di capitale umano – salute, educazione, abilità, esperienza, etc. – finiscono per influenzare, in misura rilevante, i risultati socio-economici raggiunti nel lungo periodo.
L’esposizione all’inquinamento interferisce con il funzionamento del sistema cardiovascolare e respiratorio. Nei feti e nei bambini durante i primi anni di vita, la sensibilità all’esposizione è acuita dalle condizioni fisiologiche, data l’incompletezza nello sviluppo di questi apparati, rendendo i soggetti maggiormente esposti al rischio di ripercussioni negative. Alcune conseguenze possono verificarsi immediatamente, come un maggior rischio di mortalità infantile, nascite pretermine, riduzione del peso corporeo4, comunemente identificato come un significativo indicatore del benessere del neonato. Altre, invece, si manifestano nel medio o lungo termine, come gli effetti negativi sui risultati scolastici – misurati dalle prestazioni agli esami, il numero di anni di educazione o i tassi di diplomati – e sui salari5.
Oltre alla letteratura sugli effetti dell’esposizione all’inquinamento, maggiormente consolidata, più recentemente diversi studi si sono interessati all’analisi dell’esposizione a temperature estreme. Quando fa molto caldo, anche la temperatura corporea sale. La risposta fisiologica consiste in un aumento del flusso di sangue per stimolare la sudorazione tramite la quale il corpo cerca di dissipare il calore in eccesso. Alcune condizioni, come la forte presenza di umidità, la durata dell’esposizione o il tipo di attività fisica in atto possono rallentare o compromettere questo processo, impedendo al corpo di raffreddarsi. La letteratura medica, sebbene non ancora esaustiva e risolutiva sul tema, evidenzia che i bambini, e in particolare i neonati, hanno delle caratteristiche fisiologiche che li rendono più suscettibili. Tra queste, un metabolismo più elevato, che porta a una maggiore produzione di calore a parità di attività, un rapporto superficie-massa più alto, che accelera l’accumulo di calore dall’ambiente esterno, una capacità di sudorazione ridotta e, infine, la maturazione ancora incompleta degli organi e dei sistemi coinvolti nella termoregolazione.
Evidenze empiriche sulla mortalità dovuta all’esposizione a temperature estreme calde, rivelano che i neonati (0-1 anni) sono la fascia più colpita dopo gli anziani6. Conseguenze avverse riguardano anche i primissimi stadi di vita del feto causando risposte di breve periodo a tali shock. Diversi studi hanno infatti riscontrato, anche nel caso di esposizioni a temperature estreme, una maggiore incidenza sulla diminuzione del peso7 alla nascita e una variazione sui tassi di nascita8. Gli effetti si propagano anche nel lungo periodo, con evidenze che mostrano una sostanziale riduzione dei guadagni intorno all’età di 30 anni9, sottintendendo che l’esposizione sperimentata influisce sul processo di acquisizione e formazione di capitale umano.
Oltre a una maggiore suscettibilità per motivi fisiologici, è più probabile che i bambini subiscano una maggiore esposizione a entrambi questi shock ambientali, come diretta conseguenza del maggiore tempo passato all’aria aperta, coinvolti in attività fisiche sportive o di gioco, a scuola o dopo scuola. Nel caso di caldo estremo o di alti livelli di inquinamento, non è difficile pensare che i bambini non siano necessariamente in grado di riconoscere tale disagio, associandolo alla causa, valutandone l’intensità e comunicandolo chiaramente all’esterno. Risulta invece probabile che siano gli adulti a fare delle valutazioni della situazione di rischio sulla base della propria percezione, che però non necessariamente equivale o risulta sufficiente a valutare la condizione sperimentata del bambino. Infine sono nuovamente gli adulti di riferimento – genitori, insegnanti, baby sitter, etc. – a intraprendere potenziali scelte di adattamento, valutando ed evitando il rischio di esposizione a inquinamento o temperature calde10.
In questa prospettiva, vale la pena riflettere su come il tema dell’esposizione a inquinamento e cambiamento climatico si intreccia profondamente, e su più livelli, con quello delle disuguaglianze socio-economiche e demografiche, dando vita a un processo vizioso di aggravamento reciproco.
Partendo dalla disuguaglianza nella distribuzione dell’esposizione e delle responsabilità, è noto che sia nel caso di inquinamento – nonostante la sua dimensione più locale – e ancora di più nel caso del cambiamento climatico – un fenomeno di portata globale – esiste un divario tra i principali responsabili del problema e chi effettivamente subisce le conseguenze più drammatiche. Sappiamo dalla letteratura su Environmental Justice11 che esistono consistenti evidenze scientifiche a testimoniare che gli individui provenienti da contesti socio-economici svantaggiati o discriminati sono esposti a livelli di concentrazione di inquinanti maggiori. Allo stesso modo, le evidenze raccolte finora suggeriscono che il cambiamento climatico avrà un impatto più grave nei Paesi economicamente meno sviluppati e, anche nella comparazione tra gli individui residenti in uno stesso paese, i danni maggiori saranno sofferti dalle categorie socio-economico più svantaggiate12. Si pensi per esempio ai lavoratori all’aperto, che sappiamo spesso coincidere con lavoratori in nero, particolarmente frequenti nel settore agricolo.
La disuguaglianza non si esaurisce nel livello di esposizione sperimentato, ma coinvolge anche le risorse a disposizione per adattarsi, proteggersi o per compensare gli effetti negativi dell’esposizione. Esempi sono l’accesso a tecnologie di raffreddamento o di purificazione dell’aria, la possibilità di pianificare diversamente le proprie attività durante la giornata, di andare in vacanza o comunque spostarsi nei periodi più caldi, nel fare maggiori controlli medici o curarsi più efficacemente nel caso di conseguenze negative dell’esposizione, o di compensare le potenziali conseguenze negative sull’educazione.
In questa prospettiva, rifocalizzando l’attenzione sull’esposizione sofferta dai bambini, emerge un altro canale di potenziale rafforzamento delle disuguaglianze, che è quello intergenerazionale13. L’impossibilità di mettere in atto comportamenti protettivi o strategie di adattamento rende i bambini totalmente dipendenti dalla consapevolezza ma anche dalle risorse nelle disponibilità degli adulti di riferimento. Alcuni esempi concreti sono l’accesso all’aria condizionata o altre tecnologie di raffreddamento (e.g. ventilatori), il tipo di abbigliamento, il livello di idratazione, la decisione sulla programmazione delle attività. Collegando questa forte dipendenza nelle risorse e nei comportamenti con gli impatti di lungo periodo individuati dalla letteratura, emerge che anche l’esposizione a fattori di rischio ambientale può diventare un meccanismo di persistenza delle disuguaglianze per cui i figli di genitori meno educati o abbienti, soffrono danni maggiori che compromettono le loro prospettive future.
In questo contesto, le politiche pubbliche possono svolgere un ruolo cruciale non solo nella mitigazione delle emissioni, con riscontri positivi sia in termine di inquinamento sia di contenimento dell’aumento della temperatura media globale, ma anche supportare l’adattamento. Questo è particolarmente rilevante, dato che le possibilità private sono spesso costose, limitate, influenzate dal livello di informazione e di credenze, spesso inaccurato14, o non sufficienti quando è necessario un forte coordinamento sociale, come nel caso della programmazione delle attività scolastiche. Una capillare adozione di dispositivi di raffreddamento o purificazione dell’aria nelle scuole, campagne di informazione sui potenziali rischi dell’esposizione a temperatura calda estrema e inquinamento e su come i segnali di pericolo si manifestino tra i bambini, una regolamentazione o riprogrammazione delle attività scolastiche all’aperto quando alcune soglie di inquinamento o temperatura sono sorpassate, sono tutte potenziali strategie per ridurre gli effetti avversi dell’esposizione.
Infine, non solo inquinamento e caldo estremo rappresentano di per sé un pericolo per la salute, in particolare nelle prime fasi di sviluppo, ma possono essere particolarmente nocivi anche quando interagiscono l’uno con l’altro15. Le evidenze scientifiche a riguardo sono ancora limitate data la difficoltà metodologica di distinguere l’effetto di queste componenti. Vale la pena però sottolineare che, essendo la riduzione dell’inquinamento un co-beneficio della riduzione delle emissioni – e quindi del contenimento dell’aumento delle temperature -, e data la probabile interazione tra diversi fattori di esposizione, il ruolo di politiche di mitigazione risulta ancora più cruciale.
Note
- EPA, Report on the social cost of greenhouse gases: Estimates incorporating recent scientific advances, 2022.
- Il social cost of carbon indica il costo monetario dei danni globali imputabili all’emissione di una tonnellata aggiuntiva di anidride carbonica (CO2).
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