Too little, too slow, titolo di un recente Adaptation Gap Report 1, è una frase che efficacemente riassume una valutazione complessiva delle politiche climatiche internazionali degli ultimi anni. Nonostante i sempre più urgenti campanelli d’allarme provenienti dalla comunità scientifica, il trend delle emissioni globali è ancora in crescita e, secondo le attuali proiezioni, le misure implementate finora e quelle previste per i prossimi anni non sarebbero sufficienti neanche a raggiungere gli obiettivi meno ambiziosi degli accordi di Parigi 2.
La lotta contro il cambiamento climatico è indubbiamente un tema di natura estremamente complessa, che comprende dimensioni politiche, sociali, tecnologiche ed economiche – su tutte le quali sarà necessario far leva per scongiurare gli scenari più drammatici. Il divario tra l’entità dell’impegno richiesto su scala globale e l’insufficiente impatto ottenuto finora dagli accordi internazionali sul clima deve essere tuttavia compreso ed interpretato soprattutto alla luce di un fondamentale problema di governance, derivante dall’assenza di un organo sovranazionale in grado di imporre regole ai singoli Stati, e di assicurare che tali regole vengano rispettate.
L’Accordo di Parigi: origini e meccanismi principali
L’evoluzione del sistema di governance climatica globale è una storia fatta di un susseguirsi di accordi, riforme, defezioni e compromessi. Volendone ricostruire la nascita e comprenderne schematicamente le prime fasi di sviluppo, le date da tenere a mente sono il 1988, il 1992, il 1995 e il 1997. Nel 1988 venne creato l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la prima risoluzione sul cambiamento climatico, mentre il 1992 fu l’anno della Conferenza di Rio da cui nacque la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). All’interno del framework della UNFCCC, nel 1995 si svolse la prima Conference of the Parties (COP) a Berlino, mentre nel 1997 la COP-3 portò alla stipula del Protocollo di Kyoto, primo trattato internazionale ad imporre obiettivi di riduzione delle emissioni vincolanti per i paesi industrializzati.
Dal 1995 ad oggi si sono tenute 30 COP, ciascuna delle quali ha contribuito a modellare l’assetto istituzionale e gli obiettivi climatici attuali. Da un’analisi delle varie riforme del sistema di governance, la dinamica che emerge è quella di un progressivo allentamento da schemi top-down di imposizione di obiettivi e scadenze, a favore di un approccio bottom-up. Secondo la logica bottom-up, i singoli stati aderiscono in maniera volontaria agli accordi, determinando e dichiarando autonomamente ciò che ritengono essere il proprio adeguato contributo alla causa globale.
L’architettura bottom-up degli accordi di Parigi, in particolare, ruota intorno agli NDCs (Nationally Determined Contributions), documenti in cui ciascuno stato dichiara gli impegni climatici che si impegna a rispettare per raggiungere gli obiettivi globali. Questo meccanismo «evita il conflitto distributivo intrinseco nelle negoziazioni del Protocollo di Kyoto», lasciando ai singoli paesi il compito di determinare quanto desiderano contribuire allo sforzo collettivo di mitigazione 3. Per comprendere al meglio il funzionamento di questo sistema, è importante notare che, nel corpo principale degli NDC, i singoli Stati sono tenuti a giustificare i motivi secondo cui gli impegni assunti possano considerarsi equi e ambiziosi.
Questo approccio inclusivo, al quale va attribuito il merito di aver contribuito a catalizzare un’adesione quasi universale all’accordo di Parigi, presenta tuttavia alcune criticità. In primo luogo, tutte le promesse e gli impegni dichiarati, per loro stessa natura, non sono legalmente vincolanti. Se già il sistema di enforcement del Protocollo di Kyoto era stato criticato in quanto debole e insufficiente, l’Accordo di Parigi rappresenta un passo indietro in questa dimensione. In secondo luogo, nessun meccanismo garantisce che gli impegni assunti dai singoli Stati siano, nel complesso, sufficienti per il raggiungimento degli obiettivi preposti a livello globale. Al contrario, un’attenta analisi dei ‘climate pledges’ contenuti nei vari NDCs evidenzia un ampio divario tra le promesse climatiche e gli sforzi richiesti per mantenere il riscaldamento globale entro limiti tollerabili 4.
NDC e considerazioni di equità
Come può essere che se ciascun paese si impegna a contribuire in maniera ‘equa e amibiziosa’, la somma dei contributi e degli impegni dei singoli Stati non sommi all’obiettivo richiesto? In prima battuta, la risposta è da cercarsi nella natura ‘comune’ dei beni ambientali, la quale tende a creare un disallineamento tra incentivi privati e sociali e ad incentivare fenomeni di free-riding. In altre parole, ciascun paese spera di poter beneficiare delle politiche climatiche messi in essere dalla comunità globale senza dover essere chiamato a sobbarcarsi i costi ad esse associati.
Ciò che amplifica la tendenza al free-riding negli accordi sul clima è che, in questo contesto ancora più che in altri, non esiste una definizione unica di ‘equo’ e ‘giusto’. Nel corso degli anni, diversi principi allocativi sono stati elaborati e proposti come validi criteri per dividere equamente il peso dell’azione climatica tra gli Stati, ma nessun consenso è ancora stato raggiunto 5. Secondo il principio della capacità a pagare (ability to pay), ad esempio, i costi dovrebbero essere distribuiti proporzionalmente alla capacità e alla disponibilità di spesa dei Paesi; il principio del chi inquina paga, invece, richiederebbe che il peso climatico sia allocato proporzionalmente alla quota delle emissioni dei Paesi, prendendo potenzialmente in considerazione anche la responsabilità storica di ciascuno Stato.
Quale è il rischio di non aver ancora trovato un accordo su quale sia il principio (o la combinazione di principi) a cui fare riferimento? La pluralità di principi di equità tende a creare una ‘zona grigia morale’, terreno fertile per il cosidetto ‘self-serving bias’ – termine che indica la tendenza a confondere ciò che è giusto con ciò che porta vantaggio a sé stessi 6. Muovendosi all’interno di questa zona grigia, gli Stati possono dunque motivare contributi ridotti alla causa globale, giustificandosi sulla base del principio che più si avvicina ai loro interessi. Ad esempio, saranno probabilmente i Paesi che hanno storicamente contribuito solo in piccola parte al riscaldamento globale a invocare il principio di responsabilità storica, mentre quelli con livelli più bassi di PIL pro capite tenderanno a fare riferimento al principio della capacità di spesa. Questa ipotesi è stata recentemente confermata da una ricerca sull’analisi del contenuto degli NDC, dai quali emerge che gli stati hanno una tendenza ad invocare i principi di equità che più si allineano con i propri interessi 7.
Possibili sviluppi futuri (club climatici, convergenza sull’equità)
Per ogni anno che passa senza che siano messi in essere i necessari sforzi a livello di politiche climatiche e di riduzione delle emissioni, il rischio che l’alterazione antropogenica del clima si traduca in eventi estremi e in irreversibili alterazioni degli ecosistemi si fa sempre più concreto. È dunque indispensabile cercare di risolvere, il più in fretta, l’impasse delle attuali negoziazioni sul clima.
Una prima possibilità consiste nel fare ritorno ad un’architettura top-down, in cui l’enfasi maggiore non sia tanto sull’assicurare la più larga adesione possibile, bensì sull’incentivare sforzi concreti da parte degli stati largest emitters, e sulla necessità di rendere vincolanti gli impegni assunti. In questa prospettiva si inserisce la proposta del premio Nobel per l’economia William Nordhaus di creare dei cosiddetti ‘climate clubs’ 8. In sintesi, il climate club si caratterizzerebbe come un accordo tra alcuni Paesi, definito in termini di riduzioni armonizzate delle emissioni, e in termini di barriere commerciali volte a penalizzare non solo gli stati non aderenti, ma anche gli aderenti che non rispettino – alla prova dei fatti- gli impegni assunti. L’idea alla base è quella di far leva su incentivi economici reali per creare uno scenario strategico in cui i Paesi sarebbero portati, per il loro stesso interesse, a entrare nel club e a soddisfare dunque gli impegni climatici richiesti. L’attrattiva di questo approccio risiede nella promessa di promuovere azioni rapide ed efficaci, affidandosi a incentivi economici diretti e tangibili. Un importante caveat, tuttavia, è che il fare affidamento su un regime di sanzioni e barriere commerciali potrebbe aumentare le frizioni e le tensioni nelle negoziazioni internazionali, il che – specialmente in un mondo che continua ad essere frammentato dalle tensioni geopolitiche multilaterali – potrebbe a sua volta compromettere gli sforzi climatici globali.
La seconda possibilità, sicuramente più facile a dirsi che a farsi, consiste invece nell’incrementare gli sforzi necessari per promuovere una progressiva convergenza su criteri di giustizia condivisi e funzionali – ovvero tali da poter essere tradotti in una precisa ripartizione dei compiti tra stati. Far riferimento a norme generali e ambigue, come il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, è stato sicuramente utile per raggiungere un primo livello di consenso internazionale e far carburare il sistema di governance climatica globale, ma tali norme forniscono ben poche indicazioni quando si tratta di determinare praticamente e più precisamente la suddivisione dei compiti e dei costi. In questa fase, ciò di cui il regime climatico globale ha bisogno è dunque di provare a restringere il raggio della zona grigia morale, contrastando la proliferazione di principi troppo vaghi e il loro utilizzo strategico attraverso una discussione razionale su quali principi di allocazione, definiti in precisi termini ‘operativi’, siano legittimi e universalmente condivisibili.Sotto molti aspetti, il futuro appare cupo: gli attuali sforzi in termini di mitigation e adaptation policies sono ancora significativamente al di sotto dei livelli richiesti e, anche a causa di continue promesse non mantenute, una generale diffidenza sembra caratterizzare l’opinione pubblica sulle politiche climatiche internazionali. La COP recentemente tenutasi a Baku, purtroppo, non sembra essere riuscita ad invertire in maniera significativa queste tendenze, lasciando profondamente insoddisfatte molte delle parti coinvolte. Tuttavia, non tutto è perduto: l’accordo di Parigi, pur con le sue criticità, ha segnato una pietra miliare importante ed incoraggiante per il regime climatico globale. È quindi importante non farsi scoraggiare dalla scala e dalla complessità della lotta al cambiamento climatico, ma piuttosto far leva sulla rilevanza e sull’urgenza del tema per catalizzare gli sforzi da parte di tutte le parti coinvolte.
Note
- UNEP, Adaptation gap report 2022: too little, too slow: climate adaptation failure puts world at risk, 2022.
- Y. R. du Pont e M. Meinshausen, Warming assessment of the bottom-up Paris Agreement emissions pledges, in “Nature Communications”, vol. 9, n. 1, p. 4810, 2018.
- R. Falkner, The Paris agreement and the new logic of international climate politics, in “International Affairs”, vol. 92, n. 5, pp. 1107-1125, 2016.
- Climate Action Tracker, Glasgow’s 2030 credibility gap: Net zero’s lip service to climate action, 2021.
- E. A. Page, Distributing the burdens of climate change, in “Environmental Politics”, vol. 17, n. 4, pp. 556-575, 2008.
- L. Babcock e G. Loewenstein, Explaining bargaining impasse: The role of self-serving biases, in “Journal of Economic Perspectives”, vol. 11, n. 1, pp. 109-126, 1997.
- V. Tørstad e H. Sælen, Fairness in the climate negotiations: what explains variation in parties’ expressed conceptions?, in “Climate Policy”, vol. 18, n. 5, pp. 642-654, 2018.
- W. Nordhaus, Climate clubs: Overcoming free-riding in international climate policy, in “American Economic Review”, vol. 105, n. 4, pp. 1339-1370, 2015.