Nessi di estinzione climatica

L’uomo è diventato un agente geologico. Gli effetti climatici della sua attività sono evidenti in ogni regione del Pianeta.

Autore

Paolo Perulli

Data

24 Aprile 2023

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DATA

24 Aprile 2023

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«Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra!». L’esortazione dello Zarathustra di Nietzsche non è mai stata più attuale.

Il nesso climatico, come lo ha chiamato Ernst Jünger, mostra come all’arrivo del nuovo, e in particolare di un nuovo clima, seguono un’acclimatazione, un disagio, seguono febbri ed epidemie, e perfino la morte. La profezia di Jünger ci mostra che siamo giunti al muro del tempo con eventi come il cambiamento climatico, la pandemia e la guerra di cui non riusciamo a cogliere la concatenazione.

Siamo in pieno adattamento, ma esso comprende spostamenti di popolazione a causa del clima e guerre che ne derivano in modo diretto o indiretto. 

In questo orizzonte rientra anche l’inverno nucleare, come Alberto Moravia chiamò l’imminente possibile catastrofe nucleare. 

Nella più notevole delle sue interviste, Moravia incontrò Jünger nell’agosto del 1983 nel villaggio vicino a Costanza in cui Jünger abitava. Tutta la natura è in pericolo, egli esclama, e la guerra nucleare è solo un aspetto di questa minaccia che incombe sulla Terra: l’inquinamento atmosferico, l’alterazione geologica sono altrettante cause di crisi. Ma nessuno sta reagendo a questa minaccia, né le religioni né l’etica sembrano esserne all’altezza. Il primo a rendersene conto è stato Nietzsche.

La minaccia è di natura planetaria, è originata in Occidente ma ormai coinvolge tutto il mondo. Del resto, rallentare il progresso tecnico da cui la minaccia originale è in contraddizione con l’esperienza pratica. L’etica del capitalismo anzi, si potrebbe aggiungere, ha fortemente radicata l’idea che la tecnica possa essere la soluzione a qualsiasi evento critico. Questo moltiplica le minacce, climatiche ambientali geologiche atomiche ecc., cui la tecnica dovrebbe rispondere. Ma in questo modo vediamo barcollare la tecnica in un vicolo cieco. Questa illusione può essere risolta, per Jünger, solo con la formazione di uno Stato universale (che egli aveva preconizzato già nel 1944, in piena Seconda guerra mondiale, con il suo scritto La Pace, steso nel 1941 e che circolò clandestinamente in quegli anni cruciali). Di qui l’importanza pratica della visione filosofica di Jünger elaborata decenni fa: mettere limiti alla corsa sfrenata verso l’ignoto, che possa essere fermata da un ‘accordo planetario’ che riesca ad esempio a creare il tabù della guerra, il tabù dello sfruttamento illimitato. È la stessa idea di Bruno Latour nei suoi scritti più recenti: occorre una ‘negoziazione planetaria’. Ma occorrerebbe creare un Tipo umano che sia all’altezza della catastrofe ormai annunciata.

Sono passati quarant’anni dalla profezia di Jünger, e oltre un secolo dall’esortazione di Nietzsche: nulla di questo auspicio sta avvenendo.

Al contrario: stiamo sperimentando nuove minacce e nuovi rischi, adattandoci a essi senza essere ‘fedeli alla Terra’. Moravia scriveva «sì, la fine del mondo è già cominciata col disastro ecologico. Ma al contrario della fine del mondo nucleare, la fine del mondo ecologica ha tempi relativamente lunghi. Forse potremo ancora invertire la direzione». Eppure questa inversione non sta avvenendo, prolunghiamo al 2050 o al 2100 quanto dovremmo fare oggi, anzi ieri poiché I limiti dello sviluppo, che annunciava un limite invalicabile all’azione umana di esaurimento delle risorse naturali, è un testo di cinquant’anni fa.

«Non credo che bisogna essere catastrofici» concludeva Moravia. La paura, la fine dei tempi potrebbe essere perfino un passaggio obbligato verso lo Stato universale auspicato da Jünger. Il quale è stato il primo, negli anni Cinquanta del Novecento, a capire che l’uomo con le sue opere stava creando un nuovo strato terrestre, che è insieme geologico e spirituale.

Quale senso rivesta per la terra l’attività umana sta in questa evidenza: l’uomo è diventato un fossile-guida di un nuovo strato terrestre. Oggi, decenni dopo, lo chiamiamo Antropocene. Ma è stato anticipato da Jünger nel 1959, Al muro del tempo.

In quegli stessi anni Clima e storia, uno studio del 1966 (edito in Italia nel 1969) dell’archeologo statunitense Rhys Carpenter già annunciava che esiste una relazione stretta tra civilizzazione e cambiamento climatico. In quel caso, era la crisi del II° Millennio Avanti Cristo a essere indagata, quando la civiltà micenea sprofondò in una decadenza inspiegabile. Ne parla Platone nel Timeo, a proposito di Atlantide. Spiega che un’antica civiltà è scomparsa a causa di terremoti e inondazioni in una sola notte. Questo il mito tramandato da Platone.

In chiave storica si è pensato all’attacco esterno dei Dori, o a sommosse interne per spiegare la caduta: entrambe non sono spiegazioni soddisfacenti. Carpenter mostra invece che è stato il mutamento del regime climatico a determinare quella grande discontinuità: è intervenuta la siccità a provocare l’abbandono di terre non più fertili, lo spostamento massiccio di popolazioni, le guerre e le carestie con le distruzioni dei palazzi del potere che erano anche i granai dell’epoca. Tutto questo ci ricorda qualcosa che in forme certo diverse sta avvenendo oggi.

Un secondo importante precedente storico riguarda un periodo più vicino a noi, quello della conquista coloniale delle Americhe. In quei secoli, tra fine 1500 e 1600, il pianeta ha conosciuto un raffreddamento che è stato definito Piccola età glaciale. Oggi si ritiene che la catastrofica eliminazione di nativi americani (tra il 70 e il 95% della popolazione dei due continenti) causata dalla conquista abbia potuto determinare l’abbandono di terre coltivate e l’aumento delle foreste, un contro-effetto serra che ha sequestrato enormi quantità di anidride carbonica e determinato il calo delle temperature medie 1

La storia si ripete? No, per due motivi principali. Il primo è che oggi tutto avviene a una scala planetaria, non più regionale o continentale. Non sono il Mediterraneo orientale o le Americhe a subire il cambiamento climatico ma l’intero Pianeta. Il secondo motivo è che stavolta non un effetto collaterale e imprevisto, ma l’attività umana consapevole provoca il cambiamento climatico, l’innalzamento della temperatura ‘catastrofico’ cui assistiamo dall’inizio della rivoluzione industriale a oggi, lo scioglimento dei ghiacci, il riscaldamento, acidificazione e deossigenazione degli oceani, le inondazioni e la desertificazione.

Lo ha studiato un altro storico, Dipesh Chakrabarty, che si pone la domanda sull’abitabilità del pianeta e sulla nostra vita su di esso. Con enormi incognite, e interrogativi senza risposta, sulla mutazione in corso e su quella che egli definisce la ‘frattura morale’ dell’Antropocene. Si tratta di temi critici poco comuni al pensiero storico occidentale. Non a caso lo ha mostrato Chakrabarty che è oggi il maggior studioso post-coloniale, in Clima, storia e capitale (una serie di saggi uscita tra il 2009 e il 2014, editi in Italia nel 2021).

La tesi è sorprendente. L’Antropocene è l’esito non intenzionale di una serie di processi innescata dalla modernità capitalistica e globale. Non possiamo quindi ridurre l’analisi della crisi climatica alla storia del capitale e alla crisi del capitalismo, ma dovremmo adottare una visione di specie, quella umana. Le quattro tesi in cui si articola il discorso sono le seguenti:

Tesi 1. L’uomo è divenuto un agente geologico. Mentre in passato il rapporto tra uomo e ambiente era visto dagli storici come un rapporto lento e quasi fuori dal tempo, ora l’uomo non è più solo un agente biologico ma detiene una potenza geologica, in grado di cambiare i più fondamentali processi fisici della Terra. L’impatto dell’azione umana sul pianeta a scala geologica è un’acquisizione scientifica recente: prima si pensava all’uomo come prigioniero del clima, ora l’uomo crea il clima nel senso che lo altera immettendo sostanze, provocando emissioni o togliendo risorse naturali all’ecosistema su una scala infinitamente più grande che in passato. Da quando? A partire dalla Rivoluzione industriale, e con un tasso che cresce in modo esponenziale. Chi non considera questo, come gran parte degli economisti che continuano a proporre i loro modelli di crescita, si colloca fuori dalla Storia.

Tesi 2. L’Antropocene mostra che la specie umana è un killer planetario, distrugge la biodiversità, provoca un cambiamento climatico globale, concentra il 90% della popolazione, che è oggi di 8 miliardi di persone, in città povere (il pianeta degli slum) in cui non è immaginabile la sopravvivenza umana senza che avvengano ulteriori irreversibili processi di disordine globale. Il periodo dell’Olocene è finito, il primo annuncio dell’Antropocene è del 2000, da parte del biologo marino Eugene F. Stoermer: «Considerando il grave e crescente impatto delle attività umane sulla Terra e nell’atmosfera, e a tutti i livelli incluso quello globale, riteniamo più che appropriato evidenziare il ruolo centrale dell’umanità nella geologia e nell’ecologia proponendo l’utilizzo del termine ‘Antropocene’ per l’attuale epoca geologica». Gli umani, con il loro numero crescente e l’utilizzo di combustibili fossili e altre attività collegate, sono diventati un agente geologico che li colloca tra i fattori determinanti dell’ambiente del Pianeta. 

Tesi 3. L’ipotesi geologica sull’Antropocene ci obbliga a mettere in relazione le storie globali del capitale con la storia della specie umana. Il termine specie è usato dai biologi, che propongono una distinzione tra la storia documentata, gli ultimi diecimila anni che ci separano dall’invenzione dell’agricoltura e dalle prime città (in particolare gli ultimi quattromila anni di cui esiste una documentazione scritta), e la storia profonda, la combinazione di cambiamenti genetici e culturali che hanno creato l’umanità in centinaia di migliaia di anni. Vengono così messi in tensione il ‘planetario’ e il ‘globale’: il planetario significa la vita del nostro Pianeta nel cosmo, mentre il globale significa solo la nostra vita sul Pianeta. In tal modo la storia recente, quella dell’industrializzazione, porta sì alla crisi attuale, ma emergono altri fattori di più lungo periodo collegati alla storia della vita dell’organico sulla Terra, le connessioni tra le diverse specie, i pericoli per la sopravvivenza della specie umana legati all’estinzione di massa di altre specie. Vista così, la crisi del cambiamento climatico non ha alcun ‘significato’ umano, perché dal punto di vista del pianeta inorganico parlare di crisi non ha alcun senso. E neppure si può distinguere tra responsabilità di una parte, l’Occidente, e di un’altra, il resto del mondo oggi emergente: questa distinzione ha una base nella storia del capitale, ma ora siamo costretti a pensarci come specie e a programmare un uso delle risorse più saggio da parte dell’intera specie.

Tesi 4. Il mondo senza di noi. È la tesi più forte ed estrema che si colloca al limite della comprensione storica. La crisi del cambiamento climatico è più che una crisi del capitalismo. E quindi non ci sono vie di fuga per individui e gruppi sociali privilegiati, come è stato in passato in occasione di altre crisi, e come magari qualcuno ipotizza anche oggi. Ci sono questioni di giustizia enormi tra nazioni, territori, generazioni: questo è certo, e fa della crisi climatica una crisi politica. Eppure oggi una collettività di umani emerge dal senso condiviso di una catastrofe.

A differenza della fenomenologia della storia hegeliana che assumeva in sé i particolari e gli opposti giungendo così alla ‘fine della Storia’ in uno Stato universale e omogeneo, la possiamo chiamare ‘Storia universale negativa’. Alla fine della Storia, come ha spiegato il filosofo hegeliano Alexandre Kojève, non ci saranno più i conflitti politici, sociali, etnici, religiosi ecc. che hanno segnato l’umanità ed entreremo nell’animalità. Finita l’epoca dello zoon politikòn la specie umana sarà simile agli altri animali? Finirà l’odio verso l’animale che sembra legato al nostro bisogno di nascondere la originaria affinità tra uomo e animalità2?

Il tema della specie umana, due secoli dopo On the Origin of Species by Means of Natural Selection or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life di Charles Darwin, si ripropone in modo del tutto nuovo e ridiventa centrale. Adesso la selezione naturale si sta rivolgendo contro l’umano. Chakrabarty, in debito esplicito con il pensiero critico di Theodor W. Adorno e di Walter Benjamin, risale alla fonte che pure non cita: è quella frase di Nietzsche, «rimanete fedeli alla terra!», da cui siamo partiti. E che si completa con quell’altra, il 109 della Gaia Scienza: «Guardiamoci bene dal pensare che il mondo sia un essere vivente […] Il vivente è solo una specie dell’inanimato, e una specie molto rara».

Note

  1. A. Gosh, La Maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi, Neri Pozza, Venezia, 2022.
  2. J. Derrida, L’animale che dunque sono, Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 2006
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