Dopo la natura. Pensare con Gaia

Di fronte all’aggravarsi della crisi climatica, il pensiero di Bruno Latour trova in Gaia fonte di rinnovamento e vettore di radicalizzazione.

Autore

Nicola Manghi

Data

19 Dicembre 2022

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19 Dicembre 2022

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Nel laboratorio

Nel 1975, Bruno Latour cominciava a frequentare il laboratorio dell’endocrinologo Roger Guillemin presso il Salk Institute di San Diego. Vi entrava in qualità di antropologo, deciso – in un esperimento inedito nella storia delle scienze sociali – ad applicare i metodi etnografici non più ai rituali esotici di popolazioni lontane, bensì all’operato degli scienziati. Erano i primi passi di un progetto destinato a rivoluzionare tanto la ricerca sociale quanto gli studi sulle scienze.

Contro lo stereotipo del ricercatore solitario che, un po’ trasognato, interroga la natura, la descrizione offerta da Latour popolava la scienza di una molteplicità di attori, umani e non-umani: le scienziate e gli scienziati, certo; ma anche le fonti di finanziamento, la strumentazione tecnica, i gruppi di ricerca concorrenti, i gruppi d’interesse extra-scientifici, le cavie di laboratorio, etc.

Nel laboratorio si osservano rilevazioni, annotazioni, chiacchiere informali che poi, lentamente, si sedimentano in affermazioni. Una volta che queste hanno raccolto attorno a sé un consenso sufficiente, si tramutano in ‘fatti’. La lezione era sociologica: a garantire l’accuratezza delle affermazioni scientifiche – a sostenere la solidità dei fatti – non sono i netti confini del laboratorio, bensì l’infinità di connessioni che lo mantengono in contatto continuo con il variegato ambiente (economico, politico, culturale) circostante. Le implicazioni, tuttavia, sconfinavano in campo epistemologico e politico: non si può parlare dell’oggettività di un fatto dimenticando la sua storia materiale, non si potranno trattare gli oggetti usciti dal laboratorio ignorando le circostanze particolari della loro caratterizzazione.

Quanto appreso nel laboratorio sarebbe presto tornato utile su terreni ulteriori, difficili da immaginare fino a poco tempo prima. Al volgere degli anni Novanta, mentre un ottimismo liberale si spargeva per il mondo, Latour s’interessava alle questioni ecologiche. Finita la Guerra Fredda, il deterioramento ambientale s’imponeva a una coscienza civica globale cui, molti pensavano, toccava raccogliere il testimone della grande politica novecentesca: finita la storia, archiviata la politica, ecco finalmente il tempo per prendersi cura dei dettagli e metter riparo ai danni collaterali di uno sviluppo industriale che, su entrambi i lati della cortina di ferro, aveva corso troppo rapidamente.

Non era questo, tuttavia, lo sguardo latouriano. Se le ‘primavere silenziose’ si susseguivano ormai già da alcuni decenni, l’ecologia non era riuscita a imporsi, quanto meno nella coscienza collettiva, come faccenda politica. Eppure, nemmeno riusciva a stabilizzarsi come questione tecnica, risoluzione di problemi priva di attriti: la scienza, il parere esperto, non bastava più a comporre i conflitti emergenti.

In una formula, quella che si annunciava non era una crisi della Natura, bensì crisi del concetto di Natura. Crisi epistemologica, dunque: nel laboratorio, Latour aveva constatato che parlare della Natura «non aiuta a comprendere l’attività degli scienziati 1». Ovvero la nozione assume senso e nitidezza solo alla fine, quando le controversie si decidono, al punto che la si potrebbe dire conseguenza della chiusura delle controversie, piuttosto che loro causa. E questo rimane vero anche fuori dal laboratorio: le entità ibride giunte a creare scompiglio – fiumi inquinati, ecosistemi minacciati, piogge acide – erano irriducibili alla dicotomia grossolana di natura e cultura.

Di conseguenza, esse sfuggivano divisione del lavoro tra una scienza deputata ad accertare i fatti e una politica a cui non rimarrebbe – dato lo sfondo ormai oggettivo del contendere – che di comporre i conflitti tra i valori. Crisi anche istituzionale, dunque: né la scienza né la politica apparivano capaci di acquietare i nuovi conflitti, sorti proprio al confine tra le loro rispettive giurisdizioni. Mentre questi conflitti andavano assumendo magnitudine globale, sempre più evidente appariva l’assenza di un’arena capace di raccogliere gli attori interessati, ricomporre le parti, aprire alla pace. In quella congiuntura, allora, Latour si domandava: si può pensare diversamente l’articolazione tra scienza e politica? È possibile, partendo dai conflitti ecologici, emendare le nostre democrazie, immaginando istituzioni capaci di offrire rappresentanza ai ‘non-umani’? Nel gergo in cui si esprimeva: è possibile un ‘parlamento delle cose’? 

Pianeta vivente

Nel 1961, James Lovelock era invitato al Jet Propulsory Lab (JPL) del California Institute of Technology di Pasadena, dove si conducevano esperimenti volti a individuare possibili tracce di vita su Marte, in vista di una sua possibile futura colonizzazione. Lovelock, chimico di formazione e inventore di professione, veniva invitato in qualità di esperto esterno, incaricato di lavorare attorno a un quesito tecnico e sperimentale al tempo: come ricercare tracce di vita sul pianeta rosso? L’ipotesi allora più quotata prevedeva d’inviare sul pianeta un laboratorio microbiologico in grado di ricercare le sostanze caratteristiche della vita, e si discuteva di come equipaggiarlo. Lovelock era scettico: perché immaginare che la vita marziana sia caratterizzata dalle stesse sostanze che caratterizzano quella terrestre? E avanzava una proposta alternativa, svincolata da quei limiti geocentrici: analizzare la composizione dell’atmosfera marziana alla ricerca di una riduzione di entropia, traccia difficilmente equivocabile della presenza della vita.

La sua proposta non ebbe successo, e il progetto Voyager naufragò da lì a qualche anno, vittima dei tagli alla spesa pubblica voluti da Reagan. Ma l’idea che aveva cominciato ad affiorare nella mente di Lovelock era destinata a prendere altre strade. Nel 1965, gli si presentò l’occasione di confrontare la composizione dell’atmosfera marziana con i dati riguardanti quella terrestre, da poco resi disponibili dalle rilevazioni dello spettro infrarosso operate presso l’osservatorio di Pic du Midi. I dati confermavano la sua intuizione, e anzi suggerivano conclusioni ancora più radicali: «Fino a quel pomeriggio, avevo sempre pensato all’atmosfera dei pianeti come a qualcosa da analizzare per rilevare l’eventuale presenza di forme di vita, e nulla più. Adesso che sapevo che la composizione dell’atmosfera marziana era tanto diversa dalla nostra, la mia mente era piena di interrogativi sulla natura della Terra. […] Tutt’a un tratto, proprio come in un’illuminazione, mi venne in mente che se le caratteristiche dell’atmosfera persistevano e rimanevano stabili, doveva esserci qualcosa che la regolava conservandone costante la composizione 2». Si affacciava l’idea che da lì a qualche anno avrebbe preso il nome di Gaia.

La vita contribuisce a mantenere la Terra nelle condizioni di poterla ospitare: a lungo vittima di fraintendimenti, a cui lo stesso lavoro di Lovelock ha qua e là certamente offerto il fianco, e spesso appiattita sull’idea di un pianeta-organismo in grado di autoregolarsi, aleggiando come una sorta di provvidenza geologica sopra gli affari umani, Gaia offre invece una prospettiva inedita sul pianeta e la sua storia. Vista da Marte, la vita s’impone come fenomeno di scala planetaria: non è più questione di organismi e dei loro ambienti, ma di organizzazione generale della convivenza. L’atmosfera che distingue il nostro pianeta, rendendolo così ospitale per la vita, sarebbe infatti inspiegabile nella sua composizione chimica senza la presenza della vita sul pianeta. Ecco che l’apparente paradosso di un pianeta abitabile poiché abitato, allora, piega lo sguardo, costringendolo a modificare i propri presupposti. Guadagnata la prospettiva da Marte, non si ottiene una visione del pianeta finalmente oggettiva; ecco che, invece, visto da lassù, esso «si comporta come un soggetto 3». Quello inerente a un organismo e la soglia che lo distingue dal suo ambiente, così al tempo stesso connettendovelo, non è un quesito epistemico risolvibile da un osservatore ben posizionato, bensì un dilemma ontologico a cui ogni forma di vita incarna il provvisorio tentativo di offrire una risposta. 

Di fronte a Gaia

Se l’apparato concettuale e metodologico sviluppato da Latour per studiare la scienza aveva offerto un taglio differente per mettere tema le questioni ecologiche, l’imporsi della minaccia esistenziale costituita dal riscaldamento globale – l’ingresso nel cosiddetto ‘Antropocene’ – appariva fuori scala rispetto alla sfida politico-concettuale del ‘parlamento delle cose’.

Se Latour aveva costruito il suo pensiero ecologico-politico in polemica con il liberalismo dilagante degli anni Novanta, l’aggravarsi improvviso della (consapevolezza della) condizione planetaria gettava una luce retrospettiva che rivelava anch’esso solidale, in una certa misura, con quel clima di ottimismo generalizzato. I toni s’incupivano, la teoria si radicalizzava, nuovi personaggi concettuali erano acquisiti alla caratterizzazione del dramma; su tutti, Gaia. 

Gaia ‘fa intrusione’ 4 – così si esprime Isabelle Stengers, compagna di pensiero di Latour. Con il suo profilo esigente essa fa intrusione nella storia umana: non come macro-organismo custode del nostro destino, bensì come orizzonte nuovo che impone di ripensare radicalmente cosa significa abitare il Pianeta. La storia non si svolge più sulla scena scarna di un teatro popolato di soli umani; improvvisamente, si scopre la compagnia molteplice e variegata che l’affolla. Ma Gaia fa intrusione anche nel pensiero di Latour, quale concetto utile a pensare la congiuntura contemporanea.

Con Gaia, Latour può mantenere l’idea centrale tanto dei suoi studi nei laboratori quanto della sua ecologia politica, e tuttavia svilupparla in direzioni più radicali: né soggetto né oggetto, né attiva né passiva, né locale né globale, Gaia è «esattamente il contrario della natura 5». Con Gaia al posto della Natura, non si tratta più di restaurare un equilibrio, di rispettare una trascendenza, di adeguarsi a una morale: il mondo è «la vita degli altri 6» – la vita è, di necessità, convivenza. Gaia, insomma, impone – e permette – una definizione nuova dell’ecologia: essa non è più «la scienza della natura, bensì il ragionamento, il logos, su come vivere insieme in luoghi abitabili»7

Insomma, senza più la Natura a fare da argine, il campo della politica e quello dell’ecologia franano l’uno sull’altro: l’ecologia diventa politica, la politica ecologia. È questa, forse, la lezione principale con cui Latour ci lascia – la lezione principale dei tempi che corrono, osservati tramite la lente consegnataci in eredità da Latour. Politica e ecologia diventano una cosa sola: non è più possibile pensare il conflitto dando per scontato il paesaggio che gli farà da sfondo, né si potrà ipostatizzare il paesaggio impedendosi di vederlo attraversato da conflitti molteplici. E questa è la natura di Gaia: trascendenza minacciosa, sì, ma anche e inscindibilmente immanenza da comporre.

Note

  1. B. Latour e S. Woolgar, La vie de laboratoire, La Découverte, Paris, pp. 251-252.
  2.  J. Lovelock, Omaggio a Gaia, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 289.
  3.  M. Serres, Il contratto naturale, Feltrinelli, Milano, 1991, p. 52.
  4. I. Stengers, Nel tempo delle catastrofi, Rosenberg & Sellier, Torino, 2021, p. 66.
  5.  B. Latour, Politiche della natura, Raffaello Cortina, Milano, 2000, p. 307.
  6. E. Coccia, La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza, il Mulino, Bologna, 2018, p. 59.
  7. B. Latour, Coming Out as a Philosopher, in “Social Studies of Science”, 40(4), 2010, p. 605.
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