L’élite in Italia, gli strati imprenditoriali e dirigenti pubblici e privati, è ridotta all’1% della popolazione lavorativa, meno di 250.000 persone. Si è dimezzata rispetto al 2008, prima della crisi finanziaria. Vero che essa è assistita da uno strato di supporto, tecnico-esecutivo, di altri 2 milioni di persone, ma anche questo strato si è contratto di un buon 20% negli stessi anni. Quindi alla guida della società vi è una insufficiente classe dirigente, sia per quantità che per qualità. Infatti l’élite italiana è anziana, maschile, poco istruita (metà non è laureata).
Solo nelle grandi città del comando, la spina dorsale Torino Milano Bologna Firenze Roma Napoli, va un po’ meglio, solo a Milano l’élite raggiunge il 3%. Ma l’Italia è inconfrontabile con la media europea, che è il 4%, e paesi come il Regno Unito dove supera il 10%, la Francia che è al 7%. Vuol dire che la robusta élite pubblico-privata che lì domina, da noi è gracile o assente. Perché? Mancano da noi le sedi e le forme della sua riproduzione sociale. Grandi scuole (come in Francia), grandi aziende (come in Inghilterra, Germania, Olanda, Belgio). La prima condizione per la ripresa del Paese è un ricambio dell’élite, economica e politica. Da parte di chi?
La classe creativa insieme alle figure di supporto (nell’istruzione, sanità etc.) è cresciuta del 23% nello scorso decennio, supera i 7 milioni di persone. Lavora nel pubblico e nel privato, nelle professioni, nelle piccole imprese innovative. Sta bene soprattutto nelle città grandi e medie del Centro-Nord, grazie all’industria innovativa, e a Roma, grazie al settore pubblico e al suo indotto. Ma anche a Napoli, in cui il peso del settore privato eguaglia quello di Milano. È molto più femminile e istruita, quindi aperta al nuovo. Ma non ha ancora capito che un ruolo di classe generale la attende: deve affrontare da protagonista i grandi temi della società, crisi dell’ambiente e diseguaglianze sociali, e dare una finalità alle tecnologie digitali che oggi sono dominate da pochi oligopoli senza scrupoli.
Inoltre occorre che la classe creativa si rivolga alla neoplebe in crisi, e offra ad essa delle diverse prospettive, l’uscita da quella situazione di disagio cui l’élite non ha saputo o voluto dare risposte. La neoplebe è una galassia: unisce figure eterogenee, dei mestieri e del lavoro impiegatizio senza qualificazione, del lavoro operaio e del proletaroide dei servizi. È il 58% della popolazione lavorativa: domina soprattutto nel Mezzogiorno, dove sfiora il 70% in alcune città, mentre a Milano o Bologna è ‘solo’ il 40%. La unisce la bassa istruzione (meno della metà arriva alla licenza media), e uno scivolamento verso il basso, che riguarda la vecchia classe media colpita dalla crisi e i nuovi precari dei servizi (molti immigrati), privi di tutele, insieme ai giovani laureati che fanno lavoretti.
Uno strato enorme, che è cresciuto anche a causa della spesa pubblica tagliata, con il blocco del turnover e la drastica riduzione del welfare pubblico, e con il privilegio di alcuni spazi del comando (il Centro-Nord) rispetto agli spazi della dipendenza (il Mezzogiorno). La lieve riduzione della neoplebe (-4% nel decennio passato) è un segnale debole ma positivo, vuol dire che si possono creare lavori buoni e a maggior contenuto di conoscenza. Che si può interrompere l’uscita di giovani e molti laureati dal Mezzogiorno verso il Nord, e di molti giovani e laureati dal Nord verso Inghilterra, Francia, Germania, un’emorragia che continua da un decennio senza interruzioni.
Nello spazio della dipendenza, il Mezzogiorno, pesano di più le incivilities (abusivismo edilizio, economia sommersa e illegale, evasione fiscale, privatismo) ma anche in Toscana, Lazio, Umbria, Marche. Nello spazio del comando e della neoproduzione creativa (il Nord Ovest e il Nord Est) vi sono invece tratti tocquevilliani (volontariato gratuito, discussione politica quotidiana, partecipazione a riunioni di associazioni, beni comuni). Il compito più urgente è di unire le forze, per rendere il Paese più unito, da parte di una società civile consapevole della grande posta in gioco e del poco tempo a disposizione per invertire la tendenza.
Invece l’Italia esce sempre più divisa dal voto del 25 settembre. Le città del Nord e la classe creativa urbana che le abita hanno votato il centro e il centrosinistra, la neoplebe ha scelto la destra estrema al Nord e i 5stelle nelle grandi città del Mezzogiorno. Anche gli imprenditori si sono divisi, il 30% ha votato l’estrema destra. Molto ampia e in crescita l’area del non voto, l’astensionismo, che è stato certamente alimentato soprattutto dalla neoplebe.
La classe creativa va all’opposizione, e la neoplebe va al governo? Assolutamente no. Oggi la neoplebe è priva di rappresentanze, conta solo come massa di manovra elettorale. Non ha tribuni né capitani del popolo, che siano riconosciuti dalle istituzioni. La retorica nazionalista e anti-globalista situa questa mancanza di potere in una zona grigia, esterna alle istituzioni rappresentative.
Statalismo e presidenzialismo sono slogan che vengono attribuiti alla neoplebe, senza che essa ne colga in alcun modo il significato. Infatti a differenza della ‘città plebea’ di Max Weber, la neoplebe non dispone nella polis contemporanea di propri spazi di potere che siano riconosciuti dalle istituzioni legittime e concorrano alle prese di decisione e al governo della città.
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[In questo suo intervento Paolo Perulli riassume le tesi sostenute nel libro scritto con Luciano Vettoretto e da poco uscito presso la casa editrice Laterza (Neoplebe, classe creativa, élite. La nuova Italia)]