
Volendo dare un’occhiata alla storia di quello che ha rappresentato l’ecologia nei testi del rock è bene cominciare dagli anni ’60, quelli di Beatles e Dylan.
I puristi potrebbero obiettare che in realtà il rock inizia prima, ma i tempi del primo Elvis non furono così universalmente impattanti nella cultura giovanile e, salvo forse qualche rara eccezione, i testi non si distaccavano molto dai soliti temi.
C’era una sensibilità ecologica nel decennio? La risposta purtroppo non può che essere negativa. Qualcuno cita qualche canzone in merito del folksinger Pete Seeger, ma certo non era nulla che avrebbe potuto rappresentare una coscienza collettiva. Altri citano Dylan e la sua A Hard Rain’s A-Gonna Fall – siamo nel 1963 – e qui è bene cominciare a soffermarsi anche se non è di ecologia che si parla.
In verità Dylan è stato sempre molto enigmatico sui suoi già enigmatici testi, ed ha sempre avuto l’abitudine di smentire le interpretazioni correnti, ma qui siamo in piena guerra fredda, è appena passata la crisi dei missili a Cuba… Impossibile non pensare che quella dura pioggia sia il fallout radioattivo.
Ma vediamo qualche estratto dal testo, costruito come un ipotetico colloquio con un ragazzo (dove sei stato, cosa hai visto, cosa farai ora…): «Ho visto un bimbo appena nato circondato da lupi selvaggi. (…) Ho visto un ramo nero che grondava sangue. Ho visto una stanza piena di uomini con martelli insanguinati. (…) Ho sentito il rombo di un tuono, che ruggiva un avvertimento, ho sentito il ruggito di un’onda che poteva sommergere il mondo intero».
Frasi che è francamente difficile interpretare in altro modo che una visione di un’apocalisse.
E ancora: «Andrò via prima che la pioggia incominci a cadere, camminerò nella profondità della più profonda foresta nera, dove la gente è tanta e le sue mani sono vuote, dove i proiettili di veleno cospargono le loro acque». In quest’ultimo verso comincia ad affacciarsi, sebbene in maniera non indipendente dal resto, che la catastrofe sarebbe passata dalla contaminazione della natura.
All’ecologia vera e propria si arriverà dopo, dicendo che non si era partiti proprio benissimo. La cultura del rock sarebbe stata più tardi ben riassunta da Bruce Springsteen con il suo Born To Run. La massima aspirazione era una macchina di maggior cilindrata possibile – la benzina costava pochissimo ed il fatto che comunque inquinava di più non era contemplato rispetto alla sensazione di libertà – con la quale sfrecciare a grande velocità sulle highways americane.
C’è da dire a loro discolpa che i due luoghi principe del rock, Stati Uniti e Inghilterra, di certo non erano privi di spazi di natura incontaminati e, almeno nel secondo caso, immensi, e quindi la percezione di un inquinamento disastroso non era certo così immanente.
Oltretutto era molto presente da generazioni l’abitudine di vivere boschi e pianure proprio in prima persona: dalla Cabin Culture americana descritta da Henry David Thoreau alla grande tradizione venatoria degli inglesi.
Insomma, la voglia di natura c’è anche se non è ancora molto chiaro che possa essere in pericolo.