La gestione sostenibile delle risorse umane è l’approccio strategico e di business corrispondente all’adozione di strategie per la gestione delle persone e volta al raggiungimento degli obiettivi prefissati dall’azienda con un focus preciso su un aspetto rilevante e che conferisce alla suddetta prassi l’accezione di ‘sostenibile’: l’impatto che l’organizzazione ha all’interno ed all’esterno del perimetro nel quale opera, in un arco temporale di lungo termine.
Attualmente, il tema in tal senso è molto ampio e dibattuto e la discussione si inserisce all’interno del filone di studio che va sotto il nome di ‘Sustainable Human Resource Management‘. In quest’ottica, l’HR Management diventa una disciplina cross funzionale basata su una costante interazione tra dimensione ambientale, sociale ed interazione con gli stakeholders interni ed esterni.
Il tema della sostenibilità in chiave aziendale è pertanto la possibilità concreta che l’imprenditore o il titolare di un’azienda ha di interpretare il business in un’ottica olistica e non solo legata al raggiungimento dei KPI’S su base annua. È interessante ai fini della comprensione dell’ampliamento di tale paradigma, soffermarsi su un’analisi di genesi e contesto. La domanda utile allo scopo è: da dove nasce il Sustainable Human Resource Management?
Genesi e contesto
È il 2015 l’anno cruciale che ha segnato uno spartiacque tra un prima e un dopo decisivo ovvero la sottoscrizione da parte di 193 Paesi Membri delle Nazioni Unite di un programma di azione per le persone, il pianeta e la prosperità: nasce così l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
L’Agenda è costituita da 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs) da raggiungere in ambito economico, ambientale e sociale entro il 2030. I 17 Goals rappresentano una vera e propria sfida globale poiché coinvolgono non solo tutti i paesi ma anche imprese private e pubbliche, società civili e operatori dell’informazione e della cultura. In questi anni, la maggior parte delle aziende ha associato la dimensione sostenibile a quella ambientale, concentrandosi unicamente sulla riduzione degli impatti sotto questa lente: tuttavia si tratta di un approccio lodevole ma piuttosto parziale perché non tiene conto del benessere psico-fisico dei dipendenti che contribuiscono attivamente alla crescita delle aziende.
Si è iniziato a comprendere di quanto la sostenibilità non è una questione meramente ambientale e nell’ampliamento del paradigma si è iniziato a parlare di persone e di come potersi soffermare sulla dimensione sociale. Delle cinque aree di intervento proposte dall’Agenda 2030 corrispondenti alle 5P dello sviluppo sostenibile (persone, pianeta, prosperità, pace e partnership), all’area persone, corrisponde il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, ma anche la promozione della salute e del benessere per garantire le condizioni per lo sviluppo del capitale umano.
Aree di intervento
Per rendere operativi gli obiettivi di sostenibilità nelle imprese, gli HR possono agire in due direzioni:
- Corporate: si tratta della diffusione della cultura e dei valori aziendali e rappresenta il passo imprescindibile per poter lavorare secondariamente sugli individui. Nella dimensione corporate gli HR hanno una diretta incidenza sulle prassi e sulle pratiche aziendali vigenti;
- Progettualità: è l’implementazione di strumenti che rendono reale la sfera dei valori a cui si accennava al punto uno. Le iniziative possibili fanno riferimento all’implementazione di un modello di smart working, sistemi di welfare aziendale, programmi di wellness aziendale, di car sharing ed iniziative di Diversity&Inclusion, riduzione del gender Gap.
Il Diversity&Inclusion Management rappresenta il cuore pulsante della gestione sostenibile delle risorse umane poiché ci spinge all’azione: la dimensione della diversità è un dato di fatto e afferisce alle differenze all’interno di un team di lavoro quali orientamento religioso, etnia, disabilità, orientamento sessuale. La dimensione dell’inclusione ci porta a poter prendere atto delle differenze e a volerle accogliere nel contesto lavorativo per eliminare barriere, pregiudizi o qualsiasi forma di discriminazione.
La gestione della diversità e inclusione tra i dipendenti richiede una strategia ad hoc e dedicata la cui prima base di appoggio è da identificare nella promozione di programmi di formazione che possono istruire o potenziare le nozioni acquisite da parte di ogni persona in azienda. La conoscenza dei temi inclusivi è già un punto di partenza che consente di passare dalla dimensione ‘strumento’ a quella di ‘comportamento’.
La seconda area di intervento per una gestione sostenibile delle risorse umane fa riferimento alla riduzione del ‘Gender Gap’ da intendersi come la disparità di genere ossia del divario sociale, economico, politico e lavorativo esistente tra uomo e donna esistente in Italia così come nel resto del mondo. Da intendersi al pari del tema D&I, la differenza di genere non deve essere divisiva ma complementare per generare opportunità.
A tal proposito, il World Economic Forum – il più rilevante appuntamento economico e sociale a livello mondiale, pubblica ogni anno degli studi e dei rapporti finali nei quali viene misurata l’entità del divario di genere in essere.
Lo studio considera ben quattro indicatori di riferimento:
1. Opportunità lavorative e situazione economica;
2. Istruzione;
3. Salute;
4. Concreta partecipazione alla vita politica.
Il trend riporta (anno 2022) l’inesistenza di un paese nel quale ad oggi si è raggiunta una parità al 100%, evidenziando una situazione più rosea unicamente per l’Islanda con un 90,8% di parità di genere.
In ambito professionale, gli HR possono porre l’accento e avere una reale incidenza sulla riduzione del Gender Pay Gap, il divario economico in termini di retribuzione percepita. È interessante al tal proposito chiedersi il perché esistano delle retribuzioni lorde annue più basse per le donne rispetto ai colleghi uomini.
La riposta la troviamo in molteplici cause: minor numero di donne qualificate per le discipline STEM, sospensioni della carriera a causa di maternità o difficoltà nella gestione vita familiare/carriera, mancato accesso alle opportunità da parte delle giovani donne penalizzate nei processi di selezione (se l’azienda assume una giovane donna ‘corre il rischio’ che presto vada in maternità) e molteplici altri pregiudizi difficilmente sintetizzabili.
Conclusioni
Va ricordato che la possibilità di fare la differenza è in capo alle aziende ma concretamente in mano le persone che operano nell’area risorse umane e possono contribuire ad alimentare o stroncare (come sarebbe auspicabile) condotte lesive e pratiche strettamente mosse dai pregiudizi.
Come?
Per esempio promuovendo un work life balance, impostando un processo di selezione ‘sano’ con domande e quesiti che riguardano la professionalità del/della candidato/a e non le sue scelte di vita personali (avere figli oppure no), introducendo dei piani di carriera nei quali ogni collaboratore può di anno in anno fare mente locale sul suo percorso e scegliere di crescere oppure no nel ruolo, azioni di sostegno concreto alla maternità. Queste sono solo alcune idee che ogni azienda può scegliere di declinare in base al proprio settore o ambito di riferimento, l’importante è passare dalla possibilità aleatoria all’azione.