La guerra santa – parte 1

Il poema fondativo dell’Occidente è una guerra civile. Il concetto di ‘forza’ è al centro dell’Iliade. L’analisi di Simone Weil e Rachel Bespaloff.

Autore

Tommaso Scarponi

Data

31 Ottobre 2022

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31 Ottobre 2022

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Motivi dell’Iliade in Simone Weil e Rachel Bespaloff

Alberto Ventura in memoriam

In un lungo arco di tempo a eventi felici si alternano eventi dolorosi. Chi, all’infuori degli dèi, resta intatto dal dolore per tutto il tempo della sua vita?

Eschilo, Agamennone

La prima idea

La guerra narrata nell’Iliade genera e domina la mente occidentale. La coscienza europea non è che l’impronta lasciata da questa immagine perpetua. L’intero pensiero dell’Occidente ha le sue radici remote in Omero, tutto orbita intorno a quella visione apocrifa.

Già al tempo dei sapienti greci la mente era una progenie dell’Iliade: un intrico mnemonico di versi e sentenze che, trovando la propria ossatura nella narrazione di quella guerra, costituiva lo schedario fondamentale alla formulazione di ogni pensiero e di ogni gesto. La Grecia antica pensava con e in Omero. Il frammento B 53 di Eraclito («Conflitto di tutte le cose è padre [Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι]») non poteva che uscire da una bocca greca, e da un orecchio greco immediatamente essere compreso. Perché questo πόλεμος è l’armonico opporsi delle parti interne alla stessa anima – esattamente come la guerra fra greci e troiani, che parlavano l’identica lingua, e adoravano i medesimi dèi. È la stessa anima che, lacerata, scatena le proprie viscere, le une contro le altre. Il poema fondativo dell’Occidente è una guerra civile, un massacro fratricida.

Fra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, nell’ora di massima tenebra della notte europea, Simone Weil e Rachel Bespaloff andavano interrogando l’Iliade. Senza nemmeno conoscersi, due servitrici della prosa perfetta cercavano nel poema di Omero il segreto e il sigillo della condizione umana – puntando alla stessa parola, all’ombra della quale l’intera Iliade si accende: la forza.

Violenza e grazia

Il saggio di Simone Weil1 comincia descrivendo le azioni della forza. Essa è ciò che muta chi le è sottomesso in cosa, e tratta l’uomo alla stregua di un cadavere. Nell’Iliade l’eroe non è che «una cosa trascinata dietro a un carro nella polvere» 2. La forza è la violenza che si manifesta in ogni azione umana, è il cuore nascosto dell’intera storia, e le menzogne dell’ideologia del ‘progresso’ trovano nel poema omerico lo specchio lucidissimo dell’unica verità: non esiste un tempo presente e giusto, capace di giudicare la feroce barbarie del passato – perché la forza è un male connaturato alla stessa umanità.

Decaduto allo stato di bruta materia e di ‘mezzo’, l’uomo vive «una vita che la morte ha congelato molto prima di averla soppressa» 3. E tale miseria è compiuta quando al sopraffatto non è più possibile sentire la miseria che abita. La forza 4schiaccia e inebria: l’uomo è convinto di possederla e di servirsene per distruggere il nemico e raggiungere i propri desideri. Ma è un’illusione. E nell’Iliade non vi è figura umana che non sia schiava di questo inganno. I vincitori finiscono per soccombere, allo stesso modo dei vinti, nel baratro preparatogli dalla forza. Perché l’ebbrezza della forza impedisce a chiunque di vedere il limite delle proprie risorse, e allo stesso tempo sospinge verso una brama di onnipotenza. Dall’inganno della forza sgorga la stessa hybris: «È la tentazione dell’eccesso a essere pressoché irresistibile» 5.

Del resto, un uso moderato della forza, capace di sottrarsi all’ingranaggio, «richiederebbe una virtù più che umana, tanto rara quanto una costante dignità nella debolezza» 6. Impossibile, una volta patita la forza, evitarne la proliferazione. Impossibile, allora, anche salvare gli altri dalla propria violenza: «Quando ci si è dovuti mutilare di ogni aspirazione a vivere, per rispettare la vita degli altri occorre uno sforzo di generosità da spezzare il cuore» 7. Perché alla forza non si sfugge «se non per una specie di miracolo» 8. E questo miracolo è esattamente la grazia concessa a Priamo e Achille: in loro si compie il puro trionfo dell’amore, «l’amicizia che sorge nei cuori di due nemici mortali» 9. È amore indicibile quello che lega il re troiano all’assassino di suo figlio. Nello spazio del loro pianto notturno, la furia del poema si attenua, fino a uno dei rari momenti di placido distacco dai propri ‘motivi’. Ma questa stessa pace miracolosa è destinata ben presto a rifondersi nell’ardore saettante del mondo: perché tutto ciò che sfugge all’imperio della forza è amato, certamente – ma è un amore doloroso, a causa della distruzione totale che su ogni cosa è minaccia sospesa.

Così, «il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore […]. È possibile amare ed essere giusti solo se si conosce l’imperio della forza e si è capaci di non rispettarlo» 10. Ma la legge della forza sembra appartenere alla struttura dell’uomo, ai suoi nervi e alle sue ossa. Come resisterle?

Orrore e bellezza

Rachel Bespaloff 11 vede nella narrazione omerica l’insuperata immagine dell’universo, di quel groviglio inestricabile che appare nella violenza della storia, e nella totale estraneità di questa all’anelito umano alla giustizia. Omero è letto attraverso Eraclito ed Empedocle: l’arché universale è l’inesausto conflitto, l’unico ed eterno movimento nel cui ritmo ogni cosa si forma e si distrugge. La guerra è il perfetto riflesso della legge cosmica: essa incarna «la via che conduce all’unità del gigantesco divenire che crea, disintegra, ricrea i mondi, le anime e gli dèi […] il Tutto non fa da sfondo: è l’Uno – attore, impresario, regista invisibile del dramma in cui uomini e dèi lottano senza distinzione» 12. La vita e le catastrofi dell’intero universo appaiono e sono rivissute nell’epopea omerica, che connette il singolo evento alla legge eterna: mediante la storia,

Omero tocca il fondamento dell’orrore nell’universo, un orrore che non conosce epilogo né redenzione. Non è intorno alle mura di Troia che l’inseguimento del predatore [Achille] e la fuga della preda [Ettore] si protraggono all’infinito, ma nella cerchia del cosmo 13.

Nulla di ciò che è (proprio per il fatto di esistere) può sottrarsi alla distruzione del divenire. In questa certezza sta l’angosciosa fermezza dell’uomo omerico. Tutte le sue risorse sono figlie della disperazione, mezzi che non conducono alla salvezza. Perché l’unico fondamento dell’uguaglianza è l’infelicità in cui vive ogni uomo. La forza, per la Bespaloff, è lo scatenamento cieco delle potenze, umane o cosmiche che siano. Nulla si salva da questa cecità, neanche il vincitore sopravvissuto al duello 14. L’Iliade non distingue buoni e cattivi, vincitori o vinti. Ogni figura umana è trascinata nel gorgo eterno dei soccombenti, e le «rivendicazioni della giustizia si riducono a un mormorio di lacrime e lamenti dinanzi alle ginocchia di marmo della necessità» 15. E dove conduce questo vortice discenditivo, se non nell’indifferenza di castigo ed espiazione, di innocenza e colpevolezza? La caduta, in Omero, è una «caduta eterna di un divenire creatore nella morte e nell’assurdo» 16.

Nel tessuto del suo saggio, parallelamente al terrore del dolore insensato, la Bespaloff tesse un secondo motivo, contravveleno complementare al primo: la bellezza che sopravvive alla caduta. Nell’indicare l’immortale anelito umano alla felicità, la poesia omerica intende «strappa[re] alla bellezza riconquistata il segreto della giustizia negato alla storia». Ma questa bellezza – e qui sta il groviglio tragico del poema – è immanente alla forza stessa. Elena è il simbolo di questo incrocio fatale, del carattere nefasto e distruttivo della bellezza: «Qui, lungi dall’essere una promessa di felicità, la bellezza incombe come una maledizione […]. Come la forza, la bellezza soggioga e distrugge, emancipa e libera».

Ma chi risponde di questa torsione, di questo gioco perverso che vede la bellezza mutarsi nella furia distruttrice della storia? Non certo l’uomo. La Bespaloff imputa la colpevolezza del divenire alla spensieratezza degli dèi, agli immortali spettatori che osservano gli uomini, i quali, «pur non essendo causa di nulla, sono responsabili di tutto – in primo luogo di se stessi».

FINE PARTE PRIMA

Note

  1. Cfr. S. Weil, L’«Iliade» ou le poème de la force (1937-1940), in «Les Cahiers du Sud», Marseille 1940-1941; tr. it. in Id., La rivelazione greca, a c. di M.C. Sala e G. Gaeta, Adelphi, Milano 2014.
  2. Ivi, p. 34.
  3. Ivi, p. 38.
  4. Cfr. Ivi, p. 43: «Il forte non è mai assolutamente forte, né il debole assolutamente debole, ma entrambi lo ignorano […]. Dove il pensiero non ha posto, non ne hanno né la giustizia né la prudenza […]. Mentre usano il loro potere, non sospettano mai che le conseguenze dei loro atti li faranno piegare a loro volta […]. Così coloro ai quali è stata concessa in sorte la forza periscono per avervi fatto troppo affidamento».
  5. Ivi, p. 48. Cfr. Ibidem: «Così la violenza schiaccia quelli che tocca. Essa finisce con l’apparire esterna a chi la esercita e a chi la subisce; nasce allora l’idea di un destino sotto il quale i carnefici e le vittime sono parimenti innocenti, i vincitori e i vinti fratelli nella stessa miseria».
  6. Ibidem
  7. Ivi, p. 53
  8. Ivi, p. 55
  9. Ivi, p. 56
  10. Ivi, pp. 61-62
  11. Cfr. R. Bespaloff, De l’Iliade (1939-1942), Brentano’s, New York 1943; tr. it. di S. Mambrini, Adelphi, Milano 2018.
  12. Ivi, p. 53
  13. Ivi, p. 14
  14. Cfr. ivi, p. 12: «l’uomo del risentimento, nell’Iliade, non è il debole, ma l’eroe che ha saputo piegare tutto alla sua forza»; p. 13: «Achille non decide della guerra, è la guerra che decide di lui»; p. 16: «si chiami Achille o Ettore, il vincitore assomiglia a tutti i vincitori, il vinto a tutti i vinti»; p. 17: «La forza si conosce e gode di sé solo nell’abuso in cui abusa di se stessa, nell’eccesso in cui si dissipa»; p. 26: «condannato all’ingiustizia, Achille può solo scegliere se imporla o subirla».
  15. Ivi, p. 22
  16. Ivi, p. 31. cfr. ivi, p. 32: «Innocenza e colpevolezza si confondono in Elena come nell’immenso cuore della massa guerriera sparsa nella pianura ai suoi piedi»; «La guerra, la si fa, la si subisce, la si maledice o la si celebra; come il destino, non la si giudica» p. 51; p. 52: «Nell’epopea la guerra appare innanzitutto come l’estensione spinta al parossismo dei cicli della furia che devasta la natura, dei grandi sconvolgimenti cosmici. Le immagini dell’Iliade rievocano la selvaggia fraternità tra l’uomo e gli elementi»; p. 57: «Che pieghi la materia allo spirito o lo spirito alla materia, è sempre la stessa forza che, identificandosi al vertice della sua parabola con il dono creatore, si trascende nell’oggetto che forgia per poi ricadere sotto la propria legge, esaurirsi e disgregarsi».
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