La nuova ricchezza delle nazioni

La differenza di ricchezza tra nazioni è una delle questioni fondamentali che le scienze sociali si trovano ad affrontare ed è naturale che esistano teorie diverse sulle origini di queste disparità e sulle loro conseguenze. 

Autore

Daron Acemoglu

Data

26 Ottobre 2023

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26 Ottobre 2023

ARGOMENTO

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Dentro la crisi

Dimenticando le basi istituzionali dei mercati abbiamo creato un’equazione sbagliata tra libero mercato e mercato non regolato.

La nuova ricchezza delle nazioni, di Daron Acemoglu – Democratizzare la finanza per far crescere la green economy, di Hazel Henderson

Le differenze geografiche o culturali contano, ma non spiegano tutto

Aprile 2010 – La differenza di ricchezza tra nazioni è una delle questioni fondamentali che le scienze sociali si trovano ad affrontare ed è quindi naturale che esistano teorie diverse sulle origini di queste disparità e sulle loro conseguenze. Una delle spiegazioni preferite dai media e dagli studiosi è quella geografica. Secondo questa teoria, la geografia favorirebbe determinate zone del mondo, condannandone altre alla povertà a causa del clima, dell’assenza di fiumi navigabili o delle malattie. Penso che da un punto di vista logico non vi sia nulla da eccepire su questa spiegazione, ma da quello empirico non ritengo sia molto convincente. Gli uomini hanno dato vita a civiltà sofisticate in zone geografiche estremamente diverse, dai deserti ai tropici, dalle zone temperate alla tundra. Analizzando l’origine delle società umane, si osserva che esse sono nate in zone molto più tropicali rispetto a quelle dove vivono oggi la maggior parte delle popolazioni e, fino al 1500, prima che gli europei conquistassero il resto del mondo, molte delle civiltà più prospere e sviluppate erano situate vicino ai tropici. Sembra quindi che nelle zone tropicali nulla abbia seriamente ostacolato l’ascesa di quelle civiltà.

Naturalmente si può affermare che da allora le cose sono cambiate. Si potrebbe dire che ciò che cinquecento anni fa non costituiva una barriera allo sviluppo economico lo sia diventato oggi. Ritengo, tuttavia, che anche questa non sia una spiegazione molto convincente perché, se ci pensiamo,  gli ostacoli geografici allo sviluppo potrebbero essere legati, molto probabilmente, all’agricoltura. Infatti, è molto più semplice svolgere attività intellettuali o produttive in ambienti diversi, al contrario dell’attività agricola che dipende molto dalla terra, dal clima e da altro.

Negli ultimi duecento-trecento anni, in ogni caso, la spinta più forte alla crescita economica è venuta dall’industrializzazione. Se l’ambiente tropicale fosse stato un impedimento, questo ostacolo si sarebbe evidenziato nel periodo precedente l’avvio dell’Età moderna. Osservando le aree relativamente ricche nel 1500 e anche nel 1600, constatiamo che esse hanno subito un declino negli ultimi duecento, trecento anni. La cultura in tutto questo gioca un ruolo molto evidente ed è possibile trovare un’associazione empirica tra alcune importanti caratteristiche culturali e la spinta allo sviluppo. Gli abitanti di un paese dotato di un’economia di mercato funzionante avranno un atteggiamento in linea con le istituzioni di mercato, mentre nei paesi schiacciati dalle dittature, dove i mercati non funzionano e i servizi pubblici sono carenti, l’atteggiamento culturale della popolazione è quello di adeguarsi. Le caratteristiche culturali contribuiscono indubbiamente all’equilibrio, perché ne sostengono le specifiche strutture sociali. Ritengo tuttavia che le caratteristiche culturali siano essenzialmente un adattamento all’ambiente in cui vive una popolazione. Non vi è nulla di immutabile nella cultura di una società da impedirle di progredire verso l’industrializzazione e la crescita economica. Molte teorie culturali sono legate a culture particolari, come dire che la cultura cinese o l’etica protestante sarebbero dei motori di crescita economica o la stimolerebbero, mentre le culture con altre caratteristiche, come quella musulmana, quella cattolica o la cultura iberica costituirebbero degli ostacoli. Ritengo che anche questa tesi non sia sostenuta da alcuna evidenza. I fatti dimostrano l’importanza della fiducia che le persone ripongono negli altri e nei mercati, l’importanza della conoscenza dei meccanismi di sviluppo delle istituzioni di mercato e del commercio, ma non dimostra che le caratteristiche culturali siano immutabili, né che siano alla base della crescita economica e della sua evoluzione nel tempo.  

Capire se un’istituzione è buona o cattiva

Istituzione è una parola che si usa spesso nel linguaggio comune. La utilizziamo per significare cose diverse e, sfortunatamente, è la parola che molti studiosi hanno scelto anche per spiegare le differenze di ricchezza tra le nazioni. Ritengo che la spiegazione migliore del significato di questo termine sia quella proposta da Douglas North. È una spiegazione relativamente ampia che definisce le istituzioni come le regole del gioco che governano  l’interazione tra gli individui. In questo caso tali regole possono essere sia formali sia informali. Nel primo caso, per esempio, si tratta di costituzioni e istituzioni politiche che concedono o tolgono il diritto di voto ai cittadini e che determinano quali tipi di governi sono eletti. Per esempio, quali tipi di beni possono essere considerati come proprietà privata, quali attività economiche possono essere svolte ecc.? Nel secondo caso, le regole informali determinano il funzionamento delle istituzioni di mercato, la gestione del potere politico nella società, anche se le modalità di funzionamento e di gestione non sono scritte nella costituzione.  

L’istituzione è quindi un insieme generico di regole che governa l’interazione con gli altri nella vita quotidiana. Nella sfera economica l’interazione  è importante. Sono le istituzioni economiche che definiscono le interazioni economiche, le istituzioni politiche che definiscono le interazioni politiche, le istituzioni sociali che definiscono le intenzioni propriamente sociali ecc. Tutto ciò ha un effetto fondamentale, sugli esiti economici. Perché dunque pensiamo che le istituzioni siano importanti? Perché sono connaturate all’economia. Intendo dire che dopo tutto l’economia si distingue dalle altre scienze sociali perché si occupa di incentivi che indirizzano le azioni degli individui. L’economia si rivolge all’individuo, ai nuclei familiari o alle imprese, e anche all’economia politica, ai politici o ai partiti, e cerca di  capire come questi interagiscono tra loro, che tipo di azioni svolgono. Alla fine, l’elemento chiave sarà ovviamente ciò che risulta più vantaggioso per loro, adesso o in futuro. 

Nel contesto economico saranno le regole, come per esempio le barriere  all’entrata, che decideranno la competitività di un’industria, la possibilità di possedere la terra come proprietà privata, a determinare se potrò poi ipotecarla o se sarò disposto a investire per aumentarne la produttività o  se, al contrario, dovrò temere di perdere qualsiasi cosa io riesca a produrre. Quindi, l’effetto delle istituzioni sugli esiti economici, e dunque sulla performance, è parte integrante delle spiegazioni economiche che noi spesso forniamo. L’ipotesi dell’importanza delle differenze istituzionali per capire le differenze tra nazioni è, dopo tutto, una spiegazione prettamente economica. Naturalmente la domanda è: ma è questa la spiegazione giusta? E qui esiste una letteratura sempre più vasta che dimostra l’importanza degli elementi che compongono le istituzioni. In un certo senso, quello che  stiamo ancora cercando di capire è quali siano realmente i microelementi costitutivi di quelle buone e di quelle cattive. In generale è facile dire quali  sono le istituzioni cattive. Quelle della Corea del Nord, che bandiscono la proprietà privata, proibiscono qualsiasi tipo di partecipazione politica e impediscono ogni attività di mercato, saranno considerate istituzioni cattive, mentre prevedere l’esistenza della proprietà privata sarà ovviamente  un elemento positivo per qualsiasi tipo di attività che richieda un investi mento. Ma al di là di questo, quale tipo di sistema legale dovremmo avere, quale livello di intervento pubblico dovremmo consentire in alcuni tipi di  mercato? Penso siano questi i microelementi istituzionali che dobbiamo  comprendere e su essi c’è ancora molto da fare. Una risposta non ambigua  ad alcune di queste domande è che le barriere d’entrata sono quasi sempre negative, mentre la risposta alle altre è che dipende dal contesto. Quindi è per questa ragione che penso sia difficile dire che l’intervento pubblico  è sempre negativo o sempre positivo. Dipende sia dal tipo di intervento di cui stiamo parlando sia dal momento storico – per esempio, dal grado di  industrializzazione di un paese –, perché per le economie meno sviluppate  l’intervento pubblico potrebbe essere la giusta spinta per avviare il processo di crescita economica. 

Potrebbe, per esempio, essere utile quando l’innovazione è meno importante e sono molto più importanti le attività imitative. Ma lo stesso  tipo di intervento pubblico potrebbe essere disastroso quando parliamo  di un’economia come quella degli Stati Uniti, che è molto più dinamica,  dove esistono numerosi micro contratti e micro relazioni tra le imprese, i fornitori e i finanziatori. Penso quindi che definire alcuni elementi delle istituzioni come buoni o cattivi dipenderà, in ultima analisi, dal contesto a cui ci riferiamo.

Si cresce anche senza democrazia 

Il rapporto tra democrazia e crescita economica è stato al centro di molti dibattiti. Gli scienziati sociali e filosofi che vi hanno partecipato non sono  purtroppo giunti a risposte conclusive. Una teoria ancora attuale, molto di  moda circa vent’anni fa e nota come la teoria della modernizzazione, sostiene che per una nazione è sufficiente crescere perché si verifichino molte cose positive come, per esempio, la conquista della democrazia, il rispetto dei diritti umani, il raggiungimento della stabilità, un maggiore illuminismo. Tutte queste conquiste sarebbero le conseguenze, più o meno dirette, della crescita economica. Penso che l’esperienza degli ultimi cinquant’anni, e in particolare degli ultimi venti, dimostri che la teoria della modernizzazione non è corretta. Le nazioni possono crescere e subire trasformazioni  strutturali importanti, ma i cambiamenti che secondo tale teoria dovrebbero verificarsi, talvolta non si verificano. Non è detto, quindi, che la crescita o una maggiore istruzione porti automaticamente alla democrazia.

Questo fatto è stato ampiamente dimostrato dagli eventi che hanno seguito la Grande Depressione e preceduto la Seconda Guerra Mondiale. L’affermarsi  della democrazia non segue una ricetta semplice. Considerando la situazione da questo punto di vista non vedo perché il rapido processo di crescita  economica in Cina debba condurre alla democrazia senza alcun tipo di importante conflitto sociale. Ovviamente in Cina c’è chi spinge per una maggiore democrazia, ma lo spirito della Piazza Tian’anmen è stato sconfitto  e sono seguiti altri vent’anni di regime autoritario. Quando ci sarà un’altra  ondata di protesta, vedremo se sarà nuovamente sconfitta o meno. Per ora  le forze non democratiche in Cina sembrano forti, il controllo del potere  politico da parte del Partito Comunista è saldo e non penso vi siano ragioni per credere che tra cinque o sei anni arriverà la democrazia. Penso che la tendenza segua questa direzione, ma non dipenderà solo dalla crescita, dipenderà soprattutto dalla tecnologia. È un fatto che in paesi come Cina o Iran il popolo ha accesso a Internet e l’informazione è più libera rispetto a  venti o trent’anni fa quando esisteva solo la stampa, facilmente controllabile da parte del regime. Questa maggiore libertà ha ampliato gli orizzonti  dei giovani di questi paesi e ha agevolato l’articolazione delle istanze politiche. Penso che ciò rappresenti la spinta maggiore verso la democrazia, piuttosto che la semplice ipotesi della modernizzazione. Resta la domanda  relativa all’effetto della democrazia sulla crescita economica e ovviamente  anche qui l’esperienza cinese è illuminante. Dimostra chiaramente che si  può crescere per un lungo periodo di tempo senza democrazia, cosa che  la Cina ha fatto con regolarità per trent’anni. Possiamo quindi affermare  che la democrazia non è assolutamente necessaria o che potrebbe persino  essere deleteria per la crescita economica? Non credo. Penso che in questo caso l’evidenza empirica sia molto mista, molto poco decisiva. Mentre  quella valutabile riguarda il periodo postbellico, per il quale disponiamo di dati facilmente quantificabili sia sulla crescita economica sia sulla democrazia. Ma osservando i trend più lunghi della storia, un modello ricorrente, importante da evidenziare, è che i paesi non democratici, oligarchici o dittatoriali, possono crescere per lunghi periodi, per venti, trenta o anche cinquant’anni, ma alla fine l’assenza di democrazia politica si ripercuoterà  sull’organizzazione economica. In particolare, queste società non saranno  pronte ad accogliere le novità e a tagliare i privilegi accumulati dagli apparati politici o economici. A un certo punto, la crescita economica diventerà  una minaccia per il potere politico monopolizzato dal sistema dittatoriale  o oligarchico, o per i profitti delle imprese e degli individui che beneficiano realmente del sistema esistente. I sistemi non democratici, tempo trenta o quarant’anni, entreranno in crisi e tale crisi potrà portare o a un cambiamento del sistema politico o a una fase di stagnazione che innescherà  un processo degenerativo. È già successo molte volte. È successo nella Repubblica delle Sette Province Unite dei Paesi Bassi, è successo a Venezia, è successo nella Roma Repubblicana.  

Conflitti sociali e istituzioni

La ragione per cui alcuni paesi si ritrovano con delle istituzioni cattive è una domanda da 60 milioni di dollari. Se si riuscisse a dimostrare in modo  empiricamente convincente che le differenze istituzionali determinano delle  differenze di crescita, allora nel giro di venti, trenta o quarant’anni la crescita raggiungerebbe livelli molto diversi e sarebbe questa la spiegazione  più semplice delle enormi differenze che osserviamo oggi. Alcuni paesi sono stati in grado di approfittare delle opportunità economiche e sono cresciuti a un tasso del 2% annuo, altri non sono cresciuti, sono rimasti fermi, e  negli anni si è scavato un abisso tra le nazioni. Ma se le cose stanno così, perché alcuni paesi hanno scelto, fin dall’inizio, delle cattive istituzioni? La verità è che brancoliamo nel buio. Non sappiamo quali istituzioni funzionino: alcune hanno puntato sul socialismo, altre sul capitalismo, e quelle che avevano puntato sul capitalismo hanno fatto la scelta corretta, ex post. Penso ci sia del vero in tutto questo, ma la parte più importante della risposta alla domanda sul perché i paesi hanno istituzioni diverse è che la crescita non è un processo omogeneo che apporta benefici a tutti. Qualsiasi tipo di cambiamento tecnologico e di attività economica crea vincenti e perdenti.

Ci sono individui e imprese che traggono benefici dal processo di crescita  mentre altri ne sono danneggiati. Lo stesso discorso si applica alla sfera  politica. Un sistema politico aperto, che incoraggia la competizione nella politica e, di riflesso, nelle istituzioni economiche, porterà a un aumento  delle attività economiche. Questo significa che, alla lunga, il potere politico di un monarca assoluto o di un dittatore è destinato a esaurirsi. Così, sia nella sfera economica sia in quella politica, la crescita economica o le istituzioni che la promuovono distruggeranno i profitti di lobby potenti, creando delle tensioni. Alla fine, semplificando un po’, si può dire che i paesi con buone istituzioni sono quelli che riescono a integrarle nel processo di crescita o quelli che riescono a sopraffarle con la forza affinché non diventino una barriera. D’altra parte, le società che si ritrovano con delle istituzioni cattive sono quelle che non riescono a fare nessuna di queste due cose. Restano fedeli alle lobby e ai politici, agli individui o alle imprese che vogliono mantenere lo status quo ante, pur sapendo che non porterà alla crescita economica. Così, alla fine, le differenze istituzionali sono intimamente legate al conflitto sociale, perché ci sarà conflitto sulla modalità di suddivisione dei profitti ottenuti dalla crescita. E ci sarà conflitto anche sul  fatto che il processo di crescita debba effettivamente continuare con tutte le sue conseguenze distributive e il modo in cui questo conflitto sarà risolto determinerà il tipo di istituzioni che la società si darà. 

Per riformare, va cambiato il ruolo delle istituzioni  

Su questo punto il mio parere si discosta da quello di coloro che hanno analizzato i dettagli della crisi finanziaria, ovviamente molto importanti.  Perché si è esaurita la liquidità? Com’è che i cambiamenti e il deteriora mento dei bilanci delle banche hanno innescato i gravi problemi che si  sono poi estesi all’economia reale? Tutto ciò è importante, ma penso che  non si debba trascurare l’aspetto istituzionale di quanto è accaduto. Dopo tutto la finanza è un settore in cui le istituzioni svolgono un ruolo centrale, perché i rapporti finanziari sono molto complessi e devono essere regolamentati all’interno di un quadro istituzionale. Gli Stati Uniti e l’Europa, per esempio, hanno seguito la via della deregolamentazione finanziaria. Ma deregolamentare non significa «togliere» le istituzioni dalla finanza, significa semplicemente modificarne il ruolo. E allora, che tipo di contratti  si potranno stipulare, quali prodotti si potranno vendere? Quando questi  prodotti saranno messi sul mercato chi ne assumerà i rischi? Quale sarà la copertura fiduciaria dei dirigenti bancari? Come saranno gestite le procedure di fallimento? Questi sono tutti aspetti istituzionali che avranno effetti importanti sull’assunzione di rischio nel settore finanziario. Penso che l’assunzione del rischio sia un sottoprodotto della finanza. La finanza si occupa, appunto, di trasformare la struttura della scadenza dei beni. La  ragione per cui, in un’economia, abbiamo così bisogno della finanza, è perché il denaro deve necessariamente arrivare nelle mani delle persone che investiranno a lungo termine. Ma questa operazione comporta dei rischi e dobbiamo decidere come gestirli. Questo significa che dobbiamo avere un  modo per distribuirli sia in tempi normali sia in tempi di crisi.

Penso che uno dei problemi che hanno provocato la crisi finanziaria sia la struttura  di incentivi creata dal nuovo equilibrio istituzionale, conseguente alla deregolamentazione parziale, accompagnata dall’assicurazione sui depositi,  dai problemi del too-big-to-fail (troppo grandi per fallire) e dalla fede, implicita, del settore finanziario nell’intervento salvifico del governo che, nel peggiore dei casi, avrebbe concesso un prestito. Per questa ragione molte grandi società finanziarie si sono esposte con estrema audacia a gravi rischi  e l’assunzione del rischio ha giocato un ruolo importante nella crisi. Anzi,  si può affermare che ne sia stato un elemento centrale. Per comprendere la crisi finanziaria bisogna dunque considerare un elemento istituzionale molto importante: dobbiamo chiederci quali passi istituzionali dobbiamo compiere ora che ne stiamo uscendo. La mia risposta a questa domanda è condivisa da molti economisti.

Abbiamo bisogno di un profondo processo  di riforme che definisca la nuova regolamentazione dei mercati finanziari e l’attuale sistema di incentivi per l’assunzione del rischio. Dobbiamo affrontare gli aspetti macro prudenziali della finanza. Non è sufficiente limitarsi alle singole istituzioni finanziarie, ma è necessario occuparsi dell’intero sistema, vale a dire sia della liquidità sia dell’assunzione del rischio, e penso che l’unico modo per farlo sia attraverso un’esauriente regolamentazione finanziaria. Purtroppo, in questo momento, le priorità dei policy maker sono altre: impedire il ristagno dell’economia e assicurarsi che vi sia una ripresa. Le problematiche normative non sono in cima all’agenda. Esiste poi un  altro aspetto dell’intero processo di regolamentazione inerente all’economia politica. In ultima analisi, la finanza richiede molta expertise, conoscenza e specializzazione e chi le possiede realmente sono i banchieri che, alla  fine, sono quelli che devono essere regolamentati. È quindi molto difficile trovare un sistema che utilizzi le informazioni corrette e il giusto grado di  expertise, impedendo gli incentivi eccessivi per l’assunzione di rischio. Ed è  anche molto difficile, dal punto di vista dell’economia politica, riuscire ad  affidare queste regolamentazioni al vaglio della politica. Chi ha l’expertise non sempre vedrà di buon occhio l’arrivo di nuove regole che limitano le  possibili opportunità di guadagno nell’attuale fase di fine crisi e inizio ripresa. Per quanto riguarda la regolamentazione, ci sono due dimensioni di difficoltà. Innanzitutto, come facciamo a creare un corretto quadro normativo basato non solo sulle informazioni provenienti dagli insider, ma anche su quelle di persone informate ed esperte negli ambiti della regolamentazione del sistema finanziario, dei prodotti finanziari, dei bilanci delle banche e del comportamento di assunzione del rischio? Resta poi l’aspetto politico, vale a dire che per entrambe le regolamentazioni, una volta stabilito cosa è  giusto fare, dobbiamo trovare la volontà politica necessaria per far passare tale normativa, nonostante la resistenza di giocatori potenti, sofisticati e bene informati presenti sul mercato. 

Molte buone ragioni per sperare

Sostenendo che bisogna ripensare la ricchezza delle nazioni, voglio sottolineare il mio riferimento a Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith. Se uso il  termine «ripensare» è perché Adam Smith ha scritto molte cose giuste, anche per quanto riguarda l’economia politica. La mia riflessione si riferisce  a quest’ultima, agli incentivi politici e osservo che, andando avanti, questi  ultimi sono fondamentali anche per l’economia mondiale. Penso che nel  mondo di oggi vi siano delle grandi forze generate dalla globalizzazione e dalla tecnologia, che sarebbero in grado di trascinare nel sistema mondiale i paesi con le più diverse storie e caratteristiche, permettendo loro di  crescere insieme nel mondo e di colmare il divario con le nazioni ricche. Questo è quello che succede con l’India e la Cina. Tuttavia, nei prossimi  venti, trent’anni, ci saranno ancora molte nazioni che non saranno in grado di compiere questo passaggio perché le loro strutture politiche sono totalmente inefficienti. Mentre ci saranno paesi come la Corea del Nord e la Birmania, schiacciati dalle dittature, che soffocheranno completamente la crescita economica per le ragioni che abbiamo già detto e forse, ugualmente importante, ci saranno tutti gli «Stati falliti», come quelli dell’Africa Occidentale o Orientale, come la Somalia, la Liberia e la Sierra Leone che  sono ancora coinvolti in guerre o conflitti civili che ostacolano gravemente  qualsiasi tipo di attività economica. Penso che entrambi questi fattori freneranno la crescita di molte nazioni, mentre un numero sempre maggiore  di paesi riuscirà a evitare queste insidie e sarà in grado di sfruttare i benefici  che la tecnologia mondiale e i mercati mondiali più integrati offrono già  ora. Penso, infine, che ci siano molte ragioni per sperare, ma che al tempo stesso non esistano ricette per garantire che tutte le nazioni beneficeranno automaticamente di questo processo di crescita economica.


 Daron Acemoglu è stato ospite delle FEEM Lectures il 14 dicembre 2009. Il testo che qui pubblichiamo è la trascrizione delle parti centrali della Lecture «Rethinking the Wealth of Nations». I titoletti sono redazionali. Ho conservato, nel tradurlo, il tono colloquiale del contributo.

Fonte/Testo originale: Daron Acemoglu ‘La nuova ricchezza delle nazioni’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 1, aprile 2010, Il Mulino.

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