Il riuso temporaneo nella riqualificazione urbana: fase di crescita organica o gentrification? (parte 2)

Riuso temporaneo e spazi di lavoro condiviso sono strumenti di rigenerazione urbana che si collocano tra gentrification e crescita organica guidata dalla collettività.

Autore

Giulio Focardi

Data

8 Agosto 2023

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DATA

8 Agosto 2023

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Il riuso temporaneo

Come costruire ex-novo quel nucleo di intenti, di esperienze, di visioni che sono alla base di un quartiere? È possibile proporre un modello in grado di accompagnare la trasformazione di un quartiere in un’ottica di crescita organica?

I risultati dello studio ESPON 2020 mettono in luce quanto sia difficile accompagnare un quartiere esistente in un processo di trasformazione guidato, o tentare di far nascere un quartiere da zero. Si tratta di un’impresa titanica, non solo per la difficoltà realizzativa, ma anche per la necessità di riprodurre in breve tempo dinamiche sociali che usualmente richiedono tempi molto più lunghi, sempre in bilico tra le necessità di trasformazione socio-economica e il rischio della gentrification e della spersonalizzazione.

Per ridurre il rischio che un intervento di rigenerazione urbana venga percepito come un corpo estraneo e incontri critiche e resistenze, si cercano di applicare pratiche di co-progettazione e di progettazione partecipata e viene molto spesso proposta l’apertura parziale al pubblico di alcune zone dell’area oggetto di intervento attraverso il riuso temporaneo degli spazi.

Il riuso temporaneo degli spazi viene solitamente inteso come utilizzo di spazi per iniziative profit o no-profit con finalità artistica, culturale, o di intrattenimento1 e gode di ampio consenso sia da parte dei fruitori che da larga parte del mondo della cultura e delle istituzioni, in quanto risponde a un bisogno reale di aggregazione dei cittadini e offre una sede economica e visibile a progetti sociali e culturali che altrimenti non potrebbero permettersela.

Oggi il riuso temporaneo è una costante nel panorama urbano di qualsiasi centro urbano di medie e grandi dimensioni e viene da più parti visto come «un lubrificante dello sviluppo urbano e un mezzo di cambiamento sociale»2, rendendo possibili pratiche di sperimentazione in ambito urbano in contesti controllati e normati, ma comunque con una ridotta pressione rispetto al ritorno economico3.

I limiti del riuso temporaneo

Tuttavia molti osservatori rilevano anche i limiti e i rischi di una pratica basata largamente sulla messa a disposizione gratis o a costo simbolico da parte di privati di aree destinatarie di interventi speculativi. In particolare viene sottolineato da più parti come «l’inserimento di usi temporanei nelle politiche urbane della città li abbia cooptati nell’apparato tipico della ‘città creativa’ neoliberista»4, perché porta la concentrazione di attività a sfondo ludico, sociale e culturale in una zona definita della città e le rende in qualche modo dipendenti dai voleri della proprietà dell’area, creando legami stretti tra le élite economiche e l’attivismo civico, l’associazionismo locale e il settore culturale, col rischio conseguente che il riuso temporaneo sia una strategia che finisce per privilegiare principalmente élite e gruppi di potere5.

Le pratiche di riuso temporaneo possono, sì, costituire delle piattaforme di sperimentazione per progetti e interventi di tipo sociale e culturale, ma allo stesso tempo rischiano di essere esperienze decontestualizzate rispetto alle reali necessità locali, estemporanee e non inserite in una strategia di lungo periodo e alcuni notano che «uno spazio di opportunità per alcuni diventa vulnerabilità per altri»6.

In particolare, diverse voci sollevano critiche rispetto al valore inclusivo e di promozione sociale di interventi che popolano temporaneamente dei luoghi destinati poi a divenire tutt’altro, senza la costruzione di quella rete stabile di legami, esperienze comuni e relazioni indispensabile per avviare dinamiche di quartiere e favorirne la crescita organica7.

Gli spazi di lavoro condiviso

Una pratica che spesso si compenetra o si affianca al riuso temporaneo è quella della costituzione di spazi di lavoro condiviso, ovvero luoghi di lavoro destinati a ospitare piccole attività indipendenti all’interno di un ambiente unico, o comunque con divisioni interne leggere, con servizi comuni.

Gli spazi di lavoro condiviso si rivolgono a fasce di utenti molto diversificate, ma in generale quelli attivi in zone in via di rigenerazione si propongono come opportunità per artigiani, artisti, piccole aziende e liberi professionisti di avere un luogo di lavoro giovane e rilassato a un costo ragionevolmente basso rispetto alla media di mercato e sono spesso scelti da chi sta avviando un‘attività o lavora in ambiti emergenti, assumendo per taluni il ruolo di «intermediari cruciali nel facilitare la crescita imprenditoriale e l’innovazione locale»8.

Il fatto che la tipologia delle attività ospitate negli spazi di lavoro condiviso sia il frutto di libera iniziativa imprenditoriale e non sia predefinita viene spesso vista come un esempio di autorganizzazione in contesti di post funzionalismo urbano, dove «i confini tra le funzioni urbane sono diventati sfumati, dove diverse funzioni coesistono nello stesso spazio e dove funzioni inedite emergono attraverso l’appropriazione dei luoghi da parte dei cittadini»9.

In ambito urbano la forma più diffusa di spazi di lavoro condiviso è il coworking, ovvero una tipologia di spazio di lavoro condiviso destinato ad ospitare prevalentemente liberi professionisti o lavoratori digitali, il cui ufficio può facilmente essere ridotto ad un computer poggiato su una scrivania.

Esistono altre forme aggregative legate al ‘fare’ che si coagulano attorno a uno spazio, quali FabLab, Makerspace ed Hackerspace. Tuttavia questi attori sono solitamente realizzati in forma associativa pura con finalità divulgativa o hobbistica e, in virtù della loro vocazione digitale, spesso sono avulsi dal contesto socioculturale locale.

Gli spazi di coworking spesso vengono avviati in contesti in via di riqualificazione, offrendo ai propri coworkers i vantaggi del basso costo derivante dal contesto di precarietà e l’attrattiva delle attività ludico-culturali offerte dai vicini progetti di riuso temporaneo, ma possono anche rimanere parte del contesto urbano una volta riqualificato poiché, essendo spazi commerciali, possono talvolta evolversi per offerta e pricing.

Tali esperienze possono avere una maggiore probabilità di resistere nel territorio al mutare delle condizioni di contesto, in quanto soggetti economici con pretese di autosufficienza, superando i limiti della temporaneità10.

Tuttavia, appare difficile vedere in tali spazi sia quel valore sociale che viene attribuito alle esperienze di riuso temporaneo, sia la connessione con le esigenze dirette del territorio. Di fatto, si tratta di un profilo d’uso che prevede l’inserimento di attività imprenditoriali avulse dal contesto preesistente e, in altri termini, appare una forma di gentrification anticipata, che viene messa in atto ancor prima della fine del processo di riconversione dell’area e che ne anticipa, in qualche misura, la forma finale.

Spazi Community Driven e il Modello Multifactory

Una soluzione può essere la costituzione di ambienti di lavoro Community Driven, ovvero spazi di lavoro caratterizzati da un sistema di governance orizzontale e da organi decisionali partecipati.

Una proposta in tal senso arriva dal Modello Multifactory, sviluppato allo scopo di creare spazi di lavoro condiviso a governance orizzontale basati sul concetto di supporto circolare, gestiti direttamente dalle comunità che vi lavorano ed eterogenei rispetto alle attività inserite, coinvolgendo dunque al proprio interno attività artigianali, artistiche, liberi professionisti e piccole imprese11.

Una Multifactory nasce come esperienza di sviluppo in parallelo di un gruppo e di un luogo, che viene autogestito dal gruppo stesso seguendo un modello di riferimento e adattandolo alle esigenze locali e del contesto. 

Una Multifactory nasce all’interno di contesti di rigenerazione, non come progetto temporaneo ma con prospettive di medio periodo. Nel corso del tempo le aziende che ne fanno parte cambiano, ma se l’avvicendamento è abbastanza graduale, avviene un passaggio di testimone che tramanda quanto costruito dalla comunità nel tempo e che rimane sotto forma di costruzione di una comunità stabile12.

La Multifactory è, dunque, un ambiente che inocula in un contesto di re-urbanizzazione una comunità di lavoratori eterogenei per censo, disponibilità economiche, livello di sviluppo dell’attività e li costituisce in un ente di gestione autorganizzato e partecipato13.

La stabilità propria della comunità, unita alle pratiche di condivisione della presa di decisioni porta alla definizione di valori condivisi, che definiscono un carattere unitario al gruppo.

La rigenerazione degli spazi avviene ad opera della comunità stessa, che poco per volta individua gli ambiti di azione in funzione del mutare delle esigenze interne e di contesto e trova gli strumenti di finanziamento delle attività.

Un gruppo coeso e portatore di valori condivisi che si attiva direttamente in un’opera di rigenerazione all’interno di un territorio si radica, crea legami con l’esistente e accompagna la trasformazione del quartiere, avviando nel tempo anche azioni di RSI in forma collettiva, a beneficio del quartiere. É stato notato come una Multifactory, operando in un contesto di rigenerazione è un ambiente «ove vengono realizzate attività di sviluppo economico-sociale che non si traducono in prestazioni di servizi contendibili sul mercato» e dunque, sebbene sia un ambiente popolato da attività economiche, o quanto meno collocabili in un mercato almeno potenziale, nel suo complesso costituisce un ambiente che può rientrare tra le attività di interesse pubblico, per quanto non propriamente identificabile quale servizio sociale in senso classico, ovvero una prestazione diretta a superare una situazione di bisogno14.

Dunque una Multifactory, è uno spazio di lavoro popolato da aziende non necessariamente appartenenti al contesto socio-economico di riferimento del quartiere e non si connota per essere un soggetto fornitore di servizi assistenziali. Tuttavia, proponendosi come un soggetto unitario, attivo localmente e portatore di uno spettro di potenzialità, diviene un landmark e un attore sociale del processo di rigenerazione, stimolando la frequentazione reciproca tra residenti e newcomers e tra classi sociali differenti e offrendo grazie all’eterogeneità professionale dei membri opportunità di crescita professionale a una fascia ampia di persone, di estrazione molto differente.

Esempi in tal senso esistono a Mantova, a Bergamo, a Roma e in Brianza, con le esperienze rispettivamente di R84, basata in una parte della ex-raffineria IES, di Risma11, basata in una parte delle ex-cartiere Pigna, di Officine Zero, inizialmente basate nella ex-officina ferroviaria di Portonaccio e di Infatti9, basata in una parte dell’ex-mobilificio Stilmobil.

Tali esperienze hanno un carattere sicuramente pionieristico, ma dimostrano come sia possibile coniugare il riuso degli spazi e la loro rifunzionalizzazione con le esigenze della proprietà in un’ottica di rigenerazione che entri in contatto col quartiere di riferimento e ne aiuti lo sviluppo organico, mettendo a confronto il nuovo con l’esistente.

Note

  1. C. Colomb, Pushing the urban frontier: temporary uses of space, city marketing, and the creative city discourse in ‘2000s Berlin, Journal of urban affairs’ (34), 2012, pp. 131-152.
  2. A. Madanipour, Temporary use of space: Urban processes between flexibility, opportunity and precarity, in “Urban Studies” (55-2), 2018, pp. 1093-1110.
  3. Idem
  4. F. Bragaglia, N. Caruso, Temporary uses: a new form of inclusive urban regeneration or a tool for neoliberal policy?, in “Urban Research & Practice” (15), 2020, pp. 194-214.
  5. C. O’Callaghan, P. Lawton, Temporary solutions? Vacant space policy and strategies for re-use in Dublin, in “Irish Geography” (48-1), 2016, pp. 69–87
  6. C. Colomb, Op. Cit.
  7. C. O’Callaghan, P. Lawton, Op. Cit.
  8. V. Avdikos, J. Merkel, Supporting open, shared and collaborative workspaces and hubs: Recent transformations and policy implications, in “Urban Research and Practice” (13)4, 2020.
  9. M. Di Marino, K. Lapintie, Emerging Workplaces in Post-Functionalist Cities, in “Journal of Urban Technology”, 2017, pp. 1-21.
  10. C. Babb, C. Curtis, S. McLeod, The Rise of Shared Work Spaces: A Disruption to Urban Planning Policy?, in “Urban Policy and Research” (36-4), 2018, pp. 496-512.
  11. G. Focardi, L. Salati, Co-Manufacturing and New Economic Paradigms, Hershey (PA, USA), IGI Global, 2019.
  12. J. Kociatkiewicz, M. Kostera, M.Parker, The possibility of disalienated work: Being at home in alternative organizations, in “Human Relations” (74-7), 2021, pp. 933–957.
  13. G. Focardi, L. Salati, The Rise of Community Economy. From Coworking Spaces to the Multifactory Model, Sarajevo, Akcija, 2018.
  14. F. Midiri, Promotion of competition and judicial union: the events of local public services, in “Quarterly Public Law” (133), 2016.
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