L’essenza immateriale dell’economia

Con l’estrazione dei dati il nuovo capitalismo vive nel virtuale, superando la materia e la realtà.

Autore

Francesco Teodori

Data

31 Luglio 2023

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31 Luglio 2023

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Le difficoltà economiche che hanno riguardato le maggiori multinazionali del tech a metà del 2022, ossia Google, Meta, Amazon ed Apple, hanno generato in alcuni l’illusoria convinzione che questa ‘nuova forma di vita’ del capitalismo, ossia un sistema di arricchimento smaterializzato e virtuale, stesse osservando il suo tramonto.

È stata Meta-Facebook il 2 febbraio mostrarsi in difficoltà quando – nonostante gli oltre dieci miliardi di dollari di utile netto realizzati nell’ultimo trimestre 2021 – ha visto la sua capitalizzazione crollare di ben 232 miliardi in meno di ventiquattro ore (il giorno prima ne valeva circa 900) a seguito dell’annuncio che stava perdendo utenti a favore di Tik Tok, soprattutto nella fascia dei più giovani.

Anche Alphabet-Google è stata punita dalla Borsa – meno 180 miliardi in una settimana (da 1.690 a 1.510) – per aver ingrossato ‘solamente’ del 23% (su base annua) i suoi ricavi nel digital advertising. E persino Apple è stata castigata – meno 150 miliardi (da 2.720 a 2.570) – nonostante i risultati superiori a ogni aspettativa del primo trimestre 2022, dopo aver evidenziato il rischio di una perdita fra i 4 e gli 8 miliardi di ricavi nel secondo trimestre, soprattutto per le difficoltà nella gestione delle supply chain.

Amazon è stata nel maggio 2022 l’impresa che ha subito la maggiore caduta di valore in termini assoluti, dopo le presentazioni dei risultati del primo trimestre 2022: alla chiusura del mercato il 22 aprile valeva 1.470 miliardi di dollari (già molto meno dei 1.860 toccati cinque mesi prima), mentre alla chiusura del 29 aprile la sua capitalizzazione era scesa di oltre duecento miliardi a quota 1.260. Quali sono le ragioni?

In primis la logistica e l’aumento dei suoi costi e di quelli del lavoro, ma anche il rallentamento dell’ecommerce in concomitanza con il miglioramento sul fronte della pandemia e dalle crescite inferiori alle attese nel digital advertising (ove anche il leader Alphabet-Google ha subito una contrazione della crescita) e nel cloud computing (ove Amazon mantiene comunque saldamente la leadership).

Una caduta, quella di Amazon, che era stata preceduta qualche giorno prima da quella – percentualmente molto più rilevante – di Netflix: a cavallo fra ottobre e novembre 2021 Netflix, forte dei suoi 220 milioni di abbonati nel mondo, aveva superato la soglia dei 300 miliardi di dollari; alla vigilia della presentazione del 19 aprile ne valeva poco più della metà (157), penalizzata per non essere riuscita nell’ultimo trimestre 2021 ad accrescere il numero di abbonati come il mercato si aspettava; alla chiusura del 29 aprile il suo valore si era quasi ulteriormente dimezzato – 84,6 miliardi – dopo aver annunciato una perdita di 200mila abbonati nel primo trimestre e una aspettativa di perdita di altri 2 milioni nel secondo, sotto il triplice impatto del minor interesse per lo streaming nel post-lockdown, del minor potere di acquisto a causa dell’inflazione e dell’entrata in campo – con tariffe più convenienti per rubare quote di mercato – di nuovi agguerriti concorrenti (quale in primo luogo Disney)1.

Nonostante questa preoccupante flessione, non solo la notte non è ancora calata sul capitalismo virtualizzato, anzi, esso rappresenta sempre di più una incontrovertibile tendenza che oggi caratterizza il meccanismo dell’arricchimento. Lo dimostra infatti la ripresa delle stesse aziende hi-tech nel corso della seconda metà del 2022.

Il progresso tecnologico, vero motore del capitalismo dai tempi della prima rivoluzione industriale, ha permesso che gli antichi modelli di produzione capitalistica, ove il profitto era dato da una combinazione di investimenti e produzione reale, perdessero la loro centralità assoluta nel dispositivo di arricchimento, aprendo la strada a un nuovo capitalismo estrattivo-finanziario-datistico in cui il baricentro del valore viene spostato dall’industria ai server di computer. L’essenza del capitalismo, un tempo concreta, ruvida e metallica, è divenuta impalpabile, immateriale, per l’appunto, virtualizzata.

Da consumatori a consumati

Proprio nell’immateriale si realizza il moderno comportamento consumistico, prima rivolto esclusivamente al regno della merce, e oggi evoluto in una sequela ininterrotta di click. Il linguaggio che parlano le masse consumanti non è più solo quello dei beni ‘concreti’ ma quello dei consumi smaterializzati e in larga parte virtualizzati.

Attraverso i dispositivi digitali come tablet e smartphone è possibile accedere all’universo di consumo sulla Rete, fatto di spettacoli ed interazioni tra individui tramite i social network. Su circa 5 miliardi di esseri umani connessi ad internet 4,6 miliardi usano i social network per una media di due ore al giorno2

Se i rapporti tra esseri umani potevano dirsi mediati dalle merci al tempo delle categorie economiche marxiane, oggi si può affermare senza timore di dubbio che le relazioni tra individui siano in larga misura codificate dal consumo virtuale. 

Se un tempo erano gli oggetti a parlarci, oggi siamo noi ad essere ‘parlati’ dai nostri stessi consumi immateriali. Le nostre scelte di consumo nell’odierno capitalismo immateriale sono un bene prezioso, un’essenziale materia prima che viene prima analizzata, poi condizionata e successivamente estratta per essere venduta sotto forma di modello di comportamento agli inserzionisti, affinché anticipino i nostri gusti e ci inducano a scelte di consumo sempre più in linea con i loro piani marketing.

Tali algoritmi predittivi sono il bene più prezioso del capitalismo virtualizzato, ciò che permette di raffinare e vendere l’enorme mole di dati che ogni giorno le multinazionali del tech raccolgono su di noi. La sola Google analizza più di 3,5 miliardi di ricerche web al giorno, circa 300 miliardi a livello globale in un anno3.

Dunque, mentre ci illudiamo che esista ancora un libero arbitrio nelle scelte di consumo digitali, in effetti siamo noi ad essere consumati per primi.

Siamo noi la nuova merce

I big data costituiscono l’essenza del capitalismo immateriale contemporaneo, la sua vera linfa vitale. Ebbene siamo noi quella linfa. Quei dati siamo proprio noi, ridotti a serie alfanumeriche. 

Gli algoritmi di profilazione, che quasi tutte le aziende che operano in internet usano, si avvalgono delle preferenze individuali che vengono ‘numerizzate’ e inserite all’interno di complessi modelli matematico-statistici che costituiscono il DNA dell’algoritmo, la sua vera forma; l’ammontare di dati raccolti viene poi catalogato e confrontato, sempre statisticamente, con dati precedentemente raccolti.

Più efficace di qualsiasi studio di settore o ricerca di marketing, questo metodo alchemico fonde mefistofelicamente il concetto di plusvalore (il tempo di lavoro maggiorato e non retribuito) con le più avanzate tecniche di analisi e raccolta di dati.

In un certo senso, quindi, ogni volta che facciamo acquisti sul web stiamo indirettamente lavorando per le società che vendono online. 

Molti elettrodomestici oggi sono connessi alla Rete (la cosiddetta Internet of things, l’Internet delle cose) per consentire, attraverso dei sensori ottici e acustici che trasformano suoni ed immagini in dati da aggregare, di raccogliere surrettiziamente il maggior numero possibile di informazioni sul consumatore che li possiede. Un valore, quello dell’internet applicata al mercato manifatturiero, che si prevede arriverà a valere migliaia di miliardi di dollari nel futuro4.

Gli oggetti danno accesso alla Rete e attraverso la Rete è possibile mappare i desideri degli individui, sommo precetto di qualsivoglia intento commerciale.

Reale e virtuale si fondono con l’unico scopo di migliorare e rendere più performante l’esperienza di consumo. 

Se l’essenza del capitalismo è nella produzione e vendita di merce, senza dubbio oggi quella merce sono gli esseri umani. Eppure, tutto ciò non ci turba affatto. 

Estrazione e dominio delle menti

Qualche anno fa il CEO e fondatore di Netflix Reed Hastings disse, usando un paradosso, che il principale competitor dell’azienda di contenuti streaming da lui fondata è ‘il sonno’5. Questa affermazione, apparentemente scherzosa, porta con sé il desiderio del capitalismo virtualizzato di raggiungere l’ultimo traguardo: l’occupazione totale della mente umana.

Attraverso gli schemi statistici degli algoritmi è possibile indirizzare il consumatore-spettatore verso contenuti compatibili con i suoi gusti; ciò al fine di far trascorrere il più tempo possibile l’individuo sul sito web (nel caso di Netflix fruire senza interruzione un numero illimitato di intrattenimenti) per indurlo ad acquistare sempre più o a guardare sempre più ore di quel determinato spettacolo.

Il dominio delle menti passa ancora una volta dalla personalizzazione dei contenuti fatta estraendo le nostre esperienze a nostra insaputa. 

Non più rito collettivo e grande cerimonia pagana, il consumo digitale si ritrae in sé stesso, così come i nuovi consumatori. Tutti più soli. 

Il capitalismo condiziona inevitabilmente i rapporti umani, dunque la smaterializzazione di esso porta con sé, come lugubre strascico, la distruzione dei legami umani reali, in un progressivo ed inevitabile svuotamento di ogni dimensione di senso della vita

Presto, anzi, il nuovo cybercapitalismo farà in modo che tutti noi potremo esistere oltre la realtà tangibile, estendendo l’esperienza della falsa vita nel virtuale; una nuova politica aziendale che genererà nuovo profitto. 

Anime perdute da cui estrarre valore, come «scie di carne cruda pigia-bottoni pronta ad essere divorata» ci muoviamo circondati dalla rete sconfinata. Ogni sensore, ogni schermo sensibile al tocco captano i nostri gesti e li trasformano in ricchezza che ci viene, nei fatti, espropriata6

Tale trasformazione non è tuttavia mai definitiva. La vita ‘vivente’ non viene svuotata del tutto. Si manifesta nelle scelte quotidiane; è ancora possibile tentare di sfuggire alla reificazione totale poiché essa è il mero risultato del nostro volere. Siamo noi a cedere la nostra identità ogni giorno al mercato dei dati in cambio del sollievo dell’essere connessi. La nostra unica arma è la possibilità di scegliere, decidere se abbandonarsi e in quale grado all’esistenza simulata. 

Occorre ripensare la vita quotidiana non solo come entità organica alla ricerca di conforto, bensì come veicolo di affermazione della volontà nel nichilismo digitale.

Note

  1. U. Bertelè, Conti economici delle big tech, spettro della crisi: è la fine di un’era? In “Agenda Digitale”, 2 maggio 2022, https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/conti-economici-delle-big-tech-spettro-della-crisi-e-la-fine-di-unera/
  2. Qui sono disponibili dati sul consumo digitale nel mondo https://wearesocial.com/it/blog/2022/01/digital-2022-i-dati-globali/
  3. S. Zuboff, Il Capitalismo della sorveglianza, Roma, Luiss University Press, 2019, p. 18
  4. Secondo Fortune business insights report il mercato globale dell’IoT è stato valutato in 544,38 miliardi di dollari nel 2022; si prevede che nel 2030 tale valore crescerà fino a 3.352 miliardi nel 2030. In: https://www.fortunebusinessinsights.com/industry-reports/internet-of-things-iot-market-100307
  5. A. Sulleyman, Netflix’s biggest competition is sleep, says CEO Reed Hastings, in “Indipendent”, 19 aprile 2017 https://www.independent.co.uk/tech/netflix-downloads-sleep-biggest-competition-video-streaming-ceo-reed-hastings-amazon-prime-sky-go-now-tv-a7690561.html
  6. Nel 2015 emerse il caso di alcuni televisori Samsung dotati di dispositivi in grado di registrare ogni conversazione delle persone attorno al televisore stesso quando determinate funzioni venivano attivate con il comando vocale, fornendo alla stessa azienda grandi quantità di dati sugli utenti a loro insaputa. Sul sito di The Guardin l’articolo a cui si fa riferimento https://www.theguardian.com/technology/2015/feb/09/samsung-rejects-concern-over-orwellian-privacy-policy 
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