Trent’anni di Boom sono parsi corroborare questa aspirazione alla scientificità; ma i successivi cinquant’anni di crisi lo hanno messo in discussione, mostrando tutti i limiti di un approccio che confondendo i modelli con la realtà si era perso per strada due dettagli belli grossi: l’essere umano, con i suoi condizionamenti culturali, e il pianeta terra, con le sue risorse limitate. Come scriveva nel 1970 Cornelius Castoriadis, all’epoca direttore del dipartimento di studi sullo sviluppo dell’OCSE, l’economia è tutt’altro che ‘oggettiva’ sia per quanto riguarda i fondamenti che per quanto riguarda le finalità. Con la sua riflessione, l’economista-filosofo aveva posto le basi per quella che sarà poi la filosofia dell’economia.
Va detto che con l’espressione ‘filosofia dell’economia’ si possono intendere almeno quattro cose. La prima è il pensiero economico dei filosofi, soprattutto fintanto che non esisteva una disciplina autonoma e quindi temi come produzione e distribuzione della ricchezza, moneta, valore, interesse, scambio venivano trattate nelle opere di Aristotele, Tommaso d’Aquino o Adam Smith. La seconda cosa è quella che Marx chiamava critica dell’economia politica, ovvero la denuncia dei presupposti ideologici della disciplina che regge le decisioni di politica economica, critica che ritroviamo anche in autori non-marxisti come per esempio Georges Bataille. Terza cosa è la filosofia degli economisti, ossia la riflessione che gli specialisti hanno prodotto sulla propria disciplina: autori come Joseph Schumpeter o Friederich Hayek, più recentemente Amartya Sen, hanno scritto pagine di teoria che fanno da sfondo alla loro visione del mondo. Infine la quarta cosa che possiamo intendere parlando di filosofia dell’economia è una branca specializzata della filosofia.
Solo quest’ultima accezione risulta oggi ancora attuale. Il pensiero economico dei filosofi ha cessato d’interessarci dopo metà Ottocento, quando la divisione dei saperi ha iniziato a rendere vana ogni pretesa di sapere totale; la critica dell’economia ha esaurito la sua spinta propulsiva con la crisi del marxismo; quanto alla filosofia degli economisti, ha cessato di essere rilevante dal momento che questi ultimi hanno rinunciato a essere degli umanisti e sono diventati dei tecnici specializzati assai poco interessati alla storia della disciplina.
Ma in cosa consiste dunque questa branca recente che è stata chiamata filosofia dell’economia? Essa a sua volta si articola in tre direzioni. La prima è di ordine epistemologico: si tratta di riflettere sui fondamenti scientifici della disciplina, i modi in cui essa produce una verità più o meno esatta. Un’opera di riferimento in tal senso è la Methodology of Economics di Mark Blaug, pubblicata trent’anni fa. In Italia, il programma epistemologico è incarnato da Francesco Guala, autore appunto di una Filosofia dell’economia per il Mulino. Mezzo secolo fa invece Castoriadis, che aveva lavorato sui dati della crescita dei paesi OCSE nel decennio 1960-1970, denunciava l’arbitrarietà dei calcoli economici: per parlare di un aumento o di una diminuzione del prodotto bisognerebbe disporre di criteri solidi per definire che cosa sia il valore, chi lo ha generato, dove, come, quando. Ma non è possibile, perché ogni teoria del valore – contrariamente al prezzo, che è un fatto – è fondamentalmente metafisica. A questo tema si è interessato più recentemente il francese André Orléan. La filosofia dell’economia, in questo senso, serve a esplicitare i presupposti taciti della razionalità economica per fare emergere i suoi limiti predittivi. Per esempio, come notava Castoriadis, gli economisti si sono dimenticati di ‘mettere a bilancio’ il consumo delle risorse naturali, dando per scontata la loro abbondanza. Negli stessi suoi anni, Gunnar Myrdal metteva in discussione ogni pretesa di oggettività delle scienze sociali.
La seconda direzione della filosofia dell’economia si confonde con la filosofia sociale e riguarda lo statuto ontologico che vogliamo concedere all’individuo che sta al cuore del paradigma neoclassico: si tratta soltanto di uno strumento metodologico, un idealtipo senza spessore, oppure di un’entità concreta? Quanto è corretto, insomma, far coincidere la società con il mercato e le persone con degli attori perennemente impegnati in un calcolo razionale per massimizzare l’interesse? Il dibattito risale al Methodenstreit che più di un secolo fa opponeva i primi marginalisti austriaci alla Scuola storica tedesca; questi ultimi infatti sostenevano che le motivazioni degli attori sociali fossero determinate da schemi culturali e che non fosse dunque possibile giungere a una scienza universale assiomatica. Filosofo dell’economia, in questo senso, è stato Karl Polanyi. Così la filosofia dell’economia invita a ridimensionare le pretese imperialistiche dell’individualismo metodologico, che serve a chiarire alcuni fenomeni sociali ma di certo non può spiegarli tutti. Per questo, notava ancora Castoriadis, non è possibile affidare le grandi decisioni politiche a degli esperti, in quanto queste non riguardano problemi tecnici bensì orientamenti valoriali di ordine storico-sociale.
Proprio per questo, infine, la filosofia dell’economia si presenta anche come riflessione sui presupposti dell’economia normativa, cioè quel segmento di disciplina che si interroga su come le cose dovrebbero essere (in opposizione all’economia positiva, che descrive le cose come sono). Qual è la migliore allocazione delle risorse? Quella che garantisce il massimo livello di benessere per un massimo di persone, secondo lo schema utilitarista? Ma come si quantifica allora questo benessere, e in che misura è soggettivo e legato a soddisfazioni immateriali? E se invece fosse opportuno tenere in considerazione anche la questione dell’equità, come fanno i teorici della giustizia sociale, per minimizzare l’invidia e il risentimento? Questi sono i grandi temi della riflessione di John Rawls, un filosofo, e Amartya Sen, un economista.
Abbiamo bisogno, oggi, della filosofia dell’economia per contrastare la pretesa dell’economia a sostituire la filosofia, ossia a stabilire i fini dell’attività umana e determinare i mezzi per raggiungerli. Perché questi fini non sempre coincidono con la massimizzazione dell’interesse individuale, e raramente possono essere raggiunti derubricando i fattori storico-sociali a semplici residui di irrazionalità. Abbiamo bisogno della filosofia dell’economia per riflettere su cosa sia il valore e cosa abbia valore, perché soltanto rivalorizzando quella natura che abbiamo devalorizzato possiamo sperare di rimettere in piedi un’economia sostenibile.