Prospettive Africane nella Biennale ‘Laboratory of the Future’

La differenza dello stile curatoriale di Lesley Lokko nella storia della Biennale e le prospettive dei practictioner africani e diasporici emergenti.

Lesley Lokko. Photo by Andrea Avezù, Courtesy of La Biennale di Venezia

Autore

Alessandra Manzini

Data

4 Dicembre 2023

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8' di lettura

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4 Dicembre 2023

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Lesley Lokko, architetta, accademica e scrittrice di origini ghanesi, è la prima curatrice afrodiscendente nella storia della Biennale Architettura, intitolata nella sua 18esima edizione: The Laboratory of the Future. Nomi celebri, come il premio Pritzker Francis Kéré e David Adjaye, hanno preso parte a questa edizione portando l’eccellenza africana, trainando gli esordienti e i meno noti Guests From the Future

L’esposizione lavora sull’architettura in divenire, nello spazio interstiziale di ciò che l’architettura è come disciplina e quello che è come professione. Lokko ha deliberatamente scelto di inquadrare i partecipanti come practictioner, perché le condizioni ricche e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedono un’accezione diversa e più ampia del termine ‘architetto’. Per Lesley Lokko «l’aspetto interessante di questa Biennale è che il mondo africano e quello della migrazione si sono riuniti (in questa occasione), come un collettivo senza la bandiera di uno Stato».

La differenza dello stile curatoriale di Lesley Lokko rispetto alle altre edizioni della Biennale Architettura è il black factor (fattore nero), è il punto di vista attorno ai cui ruota tutta l’Esposizione: l’African predicament dei pensatori politici africani nella consapevolezza insorgente di Fanon che l’essere umano africano non abbia mai avuto uno schema corporeo, ma una cosmo-visione dell’umano e del cosmo che connette esseri viventi e non viventi compresi nella totalità e nell’unione con la natura. Questa visione è riflessa nella tela di relazioni che Lokko ha dispiegato con il suo lavoro curatoriale, nella differenza percepibile di simboli e significati delle opere curate e selezionate, dall’interpretazione del tema della decolonizzazione e decarbonizzazione nei singoli padiglioni nazionali. L’analisi delle opere e dei testi di accompagnamento confermano questa ipotesi. 

Secondo Lesley Lokko: «nell’architettura la voce dominante è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere ignorano vaste fasce dell’umanità – dal punto di vista finanziario, creativo concettuale – come se si fosse parlata una sola lingua. La storia dell’architettura è pertanto incompleta ed è proprio in questo contesto che le esposizioni sono importanti, perché è il terreno su cui si costruisce il cambiamento». All’entrata dello spazio dell’Arsenale, subito dopo l’invito a vivere l’esposizione come prodotto liminale tra sogno e realtà, Lokko ha scelto di denunciare le difficoltà incontrate nella realizzazione della mostra, accompagnando il suo messaggio dalle sonorità reggae della diaspora afrocaraibica (Those With Walls for Window, di Raphael LionelHaert Cape). Il messaggio introduttivo esplicita il pensiero critico della curatrice rispetto alle logiche dominanti nel mondo dell’arte e della produzione culturale. Lokko è arrivata subito al cuore del problema: «il disequilibrio tra l’abbondanza della risorsa immaginazione e la scarsità dei mezzi per poterla esporre […] la divisione tra Nord Globale e Sud Globale è segnata dalla distribuzione diseguale dei mezzi, che rendono la partecipazione impossibile per alcuni Paesi del mondo». Il riferimento è al caso politico scoppiato a seguito della negazione di un visto da parte dell’ambasciata italiana ad Accra a tre dei sei collaboratori che per due anni hanno lavorato con la curatrice alla preparazione dell’edizione 2023 della Mostra d’Architettura. Il team che Lokko voleva portare con sé è formato da giovani professionisti impiegati nell’African Futures Institute (AFI), la scuola di specializzazione che Lokko ha fondato ad Accra, in Ghana, pochi mesi prima di essere chiamata a curare questa Biennale. Lokko sogna che il gruppo di practictioner emergenti africani e diasporici che partecipano sotto il titolo, Guest from the Future, possa un giorno essere il padrone di casa. 

Practictioner africani e diasporici emergenti

Laboratory of the Future è una mostra divisa in sei parti (Dangerous Liason, Force Majeure, Guests from the Future and Curator Special Projects, quest’ultimi suddivisi in altre tre sezioni). Include 89 partecipanti, oltre la metà dei quali proviene dall’Africa o dalla diaspora africana. L’equilibrio tra i sessi è 50%-50% e l’età media di tutti i partecipanti è di 43 anni, che scende a 37 nei Progetti speciali del curatore, dove l’età media di tutti i partecipanti è di 24 anni. In Laboratorio del Futuro, oltre il 70% delle esposizioni proviene da studi gestiti da un singolo o da un team molto piccolo. Queste statistiche riflettono un cambiamento sismico nella cultura della produzione architettonica in generale, e un cambiamento ancora maggiore nella partecipazione alle mostre internazionali. Lokko commenta i dati: «L’equilibrio si è spostato. Le cose vanno in pezzi. Il centro non regge più. Al centro di tutti i progetti ci sono il primato e la potenza di uno strumento: l’immaginazione. È impossibile costruire un mondo migliore se prima non lo si immagina».

Figura 1 – Loom. Installazione presso il Padiglione Centrale dei Giardini, padiglione di apertura della sezione curata da Lesley Lokko intitolata ‘Force Majeur’. @Courtesy la Biennale di Venezia.

I partecipanti alla 18esima Biennale Architettura parlano dalla posizione creativamente ricca del ‘both/and’, che è propria di coloro che occupano più di un’identità, parlano più di una lingua o si esprimono da luoghi a lungo considerati fuori dal centro. Gli stessi intitolati a partecipare al movimento cosmopolita dell’afropolitismo promosso da Achille Mbembe e Felwine Sarr. I Progetti speciali del curatore rappresentano aree di indagini distinte: cibo, agricoltura, cambiamento climatico, paesaggio, genere e memoria, futuro. Tre di questi – genere, paesaggio e memoria – riuniscono partecipanti di diversa provenienza, suggeriscono nuove risonanze tra soggetto, materia e contesto. Il quarto e più ampio progetto speciale è formato dai Guest from the Future, intrecciati tra le opere di entrambe le sedi ci sono giovani artisti africani e diasporici, il cui lavoro si confronta direttamente con i due temi della mostra, decolonizzazione e decarbonizzazione, fornendo un’istantanea, uno sguardo alle pratiche e ai modi futuri di vedere ed essere nel mondo. In Guests from the Future attivisti, narratori, esploratori di materiali, custodi e visionari sono impegnati a ridefinire il ruolo e la portata dell’Architett* nel XXII secolo. Lokko li ha cercati in tutto il continente africano e la sua diaspora: «Questi individui sia affermati sia emergenti affrontano il futuro, rompono confini, senza paura, carichi della potenza della loro immaginazione, oltre le dicotomie nero/bianco; gender/non-binary, superando i silos disciplinari convenzionali perché i loro contesti lo domandano, rappresentano i practictioner del futuro».

L’incontro tra network: Black Atlantic e Ateliers de la Pensée 

L’African Future Institute (AFI) fa parte del network delle scuole africane emergenti legate agli Ateliers de la Pensée e rappresenta un punto di snodo per la ramificazione di un altro network, che nasce nel cuore dell’Africa Occidentale anglofona ad Accra. Chiamiamo questa rete diasporica, black atlantic, prendendo a prestito l’espressione da Paul Gilroy (e dal suo libro Atlantico nero. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza) e il suo riferimento alla condizione di doppia coscienza, ‘both/and’ già menzionata, come condizione esistenziale dei pratictioner africani diasporici.

Figura 2 – Black atlantic network di practictioner a partire da Lokko e l’African Future Institute

Entrambi i network, quello francofono degli ADLP e quello anglofono black atlantic, lavorano su temi chiave per la discussione del futuro a partire da una terra fertile in commune: l’epistemic blackness africana fino ad abbracciare il concetto di Africa Mondo nel disegno della casa futura. L’epistemologia è la teoria della conoscenza. Si occupa del rapporto della mente con la realtà. Considera il rapporto tra conoscenza, verità, credenze, ragione, prove, fede e affidabilità. In questo spazio considera la diversità epistemica del popolo africano e diasporico in relazione ad altre epistemologie.

Cinque sono sembrate le opere che più di tutte riassumono le intenzioni di Lesley Lokko: la prima è Pilbara Interregnum Seven Political Allegories, che rapisce per la sua capacità di rappresentare uno scenario di guerra epistemica d’immaginazione politica. L’opera multidimensionale esposta nell’Arsenale, a cura di Grandeza Studio, coglie l’opportunità offerta dall’attuale cambio di paradigma energetico per mettere in crisi la mitologia estrattiva, coloniale e capitalista, che trasforma diverse regioni del mondo in aree sacrificate. Caratteristica di queste terre è la presenza di personalità aborigene che divengono protagoniste nella lotta di emancipazione per il riconoscimento di diritti alla natura e di identificazione con i luoghi minacciati dall’estrazione. Il gruppo si chiede se esistano altre cosmologie e altre personalità che abbiano la forza di difendere sul terreno epistemico la terra dall’estrazione come pratica del mito dominante della crescita. Partendo da conflitti minerari irrisolti nel Pilbara, il progetto costruisce un’allegoria per svelare le battaglie geopolitiche ed epistemologiche del nostro tempo. Ecco che il tema della decarbonizzazione e decolonizzazione si incontrano espandendosi oltre i confini dell’Africa per paventare la scala cosmica della minaccia, con la nuova corsa alla colonizzazione di Marte. La seconda è Nebelivka Hypothesis, che mette in luce la genealogia di una città nella regione delle terre nere antropogeniche dell’Ucraina. Una città con impronta ecologica leggera, agli antipodi con il progetto moderno fondato sulla gerarchia, l’estrazione e la predazione. Un sistema di vita urbana che valorizzava la vitalità del proprio ambiente, un sistema sociale acefalo ed egualitario, senza palazzi, templi o altri segni di controllo centralizzato o di stratificazione sociale. 

Territorio di esplorazione epistemica in comune tra i due network è il legame tra cosmologie e forme di vita, con la differenza che il black atlantic network raramente utilizza il termine cosmologie, preferendo parlare di credenze religiose, epistemologia e connessioni spirituali. 

In A Dance of the Mangroves, Dale Adeyemo si chiede come si possa sfuggire al destino di ripetere gli errori del passato imparando dal mondo delle mangrovie che circondano la megalopoli di Lagos, in Nigeria. Ispirandosi alla tradizionale pratica spirituale Yoruba della divinazione, che permette di navigare in un futuro incerto, A Dance of the Mangroves offre un portale attraverso la tavola divinatoria (ọpọ́n Ifá’) nei mondi vitali delle mangrovie della Laguna di Lagos. 

C’è poi Origins, un’installazione che trae ispirazione da un storico paesaggio stratificato Tswana ritrovato in una riserva naturale e da un interesse per l’architettura che esplora il legame con il mondo animista, incorporando varie forme di rappresentazione per ristabilire un legame tra ricerca ed immaginazione, e postulare così un senso del tempo ciclico e africano in cui il futuro come un lontano ricordo – come racconta Lesley Lokko – prende vita: «Per sopravvivere al futuro dobbiamo risalire a un futuro ancora più antico, un futuro che ci integri in un mondo vivente di altri esseri animati e inanimati». 

Infine, la tensione verso un nuovo umanesimo di matrice afrodiasporica esplode nell’installazione Griot concepita dallo Studio Barnes, simbolicamente rappresentata con le tre colonne della Howard University: un’istituzione afroamericana con sede a Washington DC. Il triumvirato di colonne – Migrazione, Lavoro, Identità – non obbedisce alle regole del design colonnare, offre un’immagine di un nuovo futuro, che posiziona l’Africa e i suoi discendenti come forza da riconoscere e venerare. Le forme naturaliformi, sfumate rotondeggianti ristabiliscono l’immanenza dell’unione del tutto vivente.

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