Lewis Mumford. Il riformatore che non si arrende

Sarebbe un errore grave cercare solo nel campo della tecnica la risposta a tutti i problemi originati dalla tecnica stessa.

Autore

Pasquale Alferj

Data

20 Settembre 2023

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4' di lettura

DATA

20 Settembre 2023

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Storico della città come prodotto culturale, letterato, urbanista, pioniere della pianificazione regionale, sociologo, Lewis Mumford è stato un importante intellettuale americano che ha interamente vissuto il ‘secolo breve’ (nasce nel 1895 e muore nel 1990). Scrittore prolifico, generoso didatta, conferenziere instancabile.

I suoi libri, in particolare quelli dedicati alla storia urbana – La cultura della città e La città nella storia – hanno nutrito generazioni di architetti e urbanisti americani, ma a partire dagli ultimi anni della Seconda guerra mondiale anche europei. The culture of city è stato letto e studiato nelle scuole clandestine di Architettura di Polonia, Olanda e Grecia; è stato discusso e usato da Patrick Abercrombie nel suo progetto di ricostruzione della Grande Londra, ma anche dai giovani architetti italiani al lavoro nei progetti di ricostruzione urbana del dopoguerra.

Ciò che ancora oggi affascina di Mumford è la sua ‘irrequietezza disciplinare’. Un’irrequietezza cercata, rivendicata e dichiarata a partire dal suo primo libro del 1922, Storia dell’Utopia, dove confessa di aver iniziato la sua carriera come ‘generalista’, rinunciando ai vantaggi dello ‘specialista’. 

Le figure che hanno esercitato un’influenza decisiva su di lui sono Patrick Geddes, soprattutto, e Thorstein Veblen. Insieme sono tre geniali autodidatti, costruttori di ‘visioni sinottiche’, dunque di un nuovo modo di vedere e concepire il rapporto tra città e società e il progresso. Il ‘generalista’, scrive Mumford, è «una persona (…) interessata più a ricomporre i frammenti in una immagine ordinata e significativa, che a occuparsi specificatamente delle singole parti». 

Per Mumford lo ‘specialista’, non procedendo per associazioni, non riesce a riconoscere le relazioni tra le cose e a cogliere le connessioni tra fenomeni a prima vista distanti tra loro. «Solo rinunciando ai particolari – spiega – si può vedere il disegno complessivo, e d’altra parte, non appena diventa visibile questo disegno, possono apparire anche nuovi particolari sfuggiti persino all’indicatore più meticoloso e capace che ha scavato gli strati sepolti». 

È questo particolare metodo – processuale, esplorativo e non procedurale – che lo porta a scoprire, come sosterrà in Tecnica e cultura, nel 1934, che «lo strumento basilare della moderna era industriale» è stato l’orologio e non la macchina a vapore. Questo prima di David Landes e di Jacques Le Goff, che gli riconosceranno la primazia. 

Tecnica e cultura è il primo volume della quadrilogia alla quale Mumford ha dato il nome di ‘Renewal of Life’. Gli altri tre sono La cultura della città (1938), La condizione dell’uomo (1944) e The Conduct of Life (1951; non tradotto). Quattro libri che, come ha scritto, ricapitolano la sua evoluzione personale. Il tema centrale della sua ricerca, che a gradi diversi attraversa tutte le sue opere, è la tecnica. Le basi della riflessione sono contenute nel primo libro, Tecnica e cultura, studio storico di grande ampiezza, in cui secoli di storia – dal paleolitico all’età contemporanea – vengono narrati con una scrittura efficace, piena di ‘cortocircuiti’ a livello di pensiero che ricordano il modo di procedere di Arnold Toymbee e Fernand Braudel.

In Mumford, il rapporto tra tecnica ed evoluzione della società e della cultura è continuo.  Esse si ‘influenzano’ mutualmente, fuori da ogni determinismo a senso unico, attraverso un processo di interazioni e retroazioni dal quale ognuna esce ridefinita e arricchita. Seguendo l’insegnamento del suo ‘maestro’ Patrick Geddes, Mumford distingue tre grandi epoche nelle rivoluzioni tecniche che si sono succedute a partire dal Rinascimento agli anni ‘30 del Novecento. Ondate che mescolano e redistribuiscono ‘le carte delle società’, perché ogni epoca corrisponde a un nucleo tecnico che condiziona sia l’ambiente e i paesaggi, sia il lavoro e la vita quotidiana degli abitanti. Alle due epoche delineate da Geddes, l’eotecnica (1750-1870) che corrisponde alla prima rivoluzione industriale (quella del complesso carbone, acciaio, macchina a vapore, ferrovia) e la neotecnica (elettricità, petrolio, automobile), Mumford aggiunge la ‘paleotecnica’ (1400-1750), che è poi la prima, nella quale vengono poste le basi scientifiche della rivoluzione industriale. Esemplare, questa parte, perché contiene riflessioni sull’origine di alcune tecniche che richiamano per vivezza ‘immaginativa’ alcuni scritti di Elias Canetti ‘sociologo’. A partire dalla visione della componente tecnica quale fattore che ‘istituisce’ la società, Mumford introduce la concezione della ‘megamacchina’ che svilupperà successivamente, negli anni Sessanta in Il mito della macchina

La macchina di cui parla nell’ultima parte di Tecnica e cultura non è un dispositivo qualsiasi e non si mostra subito nella sua reale sostanza: quella di un’organizzazione sociale complessa, quindi non qualcosa di meramente tecnico. Con il suo metodo che procede, come detto, per analogie e associazioni di dee, indica come le piramidi dei Faraoni e la lunga muraglia cinese sono il prodotto di ‘macchine’ estremamente potenti. A rendere possibile la realizzazione di queste opere, con una dimensione fisica allora sconosciuta, sono state una rigida divisione del lavoro e una burocrazia molto estesa e competente. La prima ‘macchina’ – scrive – «è una macchina umana, con uomini come ingranaggi, sostituibili con l’evoluzione e il perfezionarsi delle tecniche».

L’ottimismo che emana Tecnica e cultura cede il passo, negli anni ‘60 del Novecento, a un atteggiamento più pessimistico nei confronti della ‘megamacchina’, che Mumford intende sempre più come ‘dispositivo tecnico’, cioè circuito del ‘disporre di’ e dell’essere ‘a disposizione di’, un ‘dispositivo’ che abolendo la separazione mezzi-fini, vede nel suo accrescimento continuo il fine supremo che tende ad annullare l’autonomia dell’uomo.

Mumford non ha però mai rinunciato alla convinzione che lo sviluppo tecnico non va rifiutato a priori. C’è sempre un margine di scelta per ‘rallentare’ l’accelerato sviluppo tecnologico e ‘contenere’ gli esiti più pericolosi della megamacchina. Pensando a Herman Melville, l’autore che più lo ha affascinato, afferma: «Tutto serve a rallentare la corsa di una nave che rischia di perire, tutto serve per allontanare il momento in cui la Balena Bianca sfascia il vascello annientando l’equipaggio».

Di Lewis Munford abbiamo esaminato solo un aspetto della sua straordinaria attività che riteniamo particolarmente significativo del suo percorso intellettuale. Abbiamo tralasciato la sua ampia riflessione di storico e urbanista. Rilevante è il suo contributo alla concezione dell’idea seminale, ancora oggi influente, della regional city, elaborata con il gruppo della RPAA, ossia della pianificazione regionale intesa come organico sistema di sviluppo insediativo basato sul decentramento e sull’organizzazione degli spazi aperti agricoli e naturali per contrastare il dilagare della metropoli.

Per chi volesse approfondire, consigliamo l’agile antologia curata da Chiara Mazzoleni (Lewis Mumford, In difesa della città, Testo & Immagine, Torino 2001) pubblicata nella collana fondata da Bruno Zevi – interlocutore diretto in Italia di Mumford, con Adriano Olivetti e Carlo Doglio). L’autrice, oltre ad essersi occupata di Doglio, ha anche ricostruito la ricezione di Mumford in Italia: dall’aggiornamento dell’insegnamento universitario sui temi della pianificazione territoriale nelle facoltà di architettura all’influenza sugli urbanisti impegnati nella ricostruzione delle città dopo la Seconda guerra mondiale.    

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