Per molti anni, abbiamo guardato alla Cina solo come la fabbrica del mondo, non come luogo d’innovazione tecnologica. Ciò è dovuto all’erronea idea che l’Occidente si trovi in vantaggio, e che alle altre culture non resti altro che imitarlo, nel tentativo di raggiungerlo.
Per molto tempo è così che abbiamo guardato a un’altra nazione asiatica, il Giappone. In parte ciò non avveniva senza ragione. Certo che i giapponesi copiano: sistema di scrittura importato dalla Cina; buddismo zen originario dell’India; e innumerevoli piccoli ma rilevanti esempi provenienti dalle culture occidentali… Non è quindi un caso se alcuni hanno sostenuto che la ragione dell’eccezionale crescita economica realizzata dal Giappone del dopoguerra sia l’ineguagliabile ‘cultura dell’imitazione’ (Stanlaw 2004: 174).
Tuttavia, coloro che vedono il processo d’imitazione come unidirezionale possono farlo solo ignorando che gli elementi culturali viaggiano invece in più direzioni. Per esempio: la versione contemporanea del buddismo giapponese è in realtà quella che i giapponesi stanno re-importando dall’Occidente, dopo che l’Occidente lo aveva importato a sua volta imparandolo dagli intellettuali giapponesi dell’era Meiji, i quali… a quel tempo… stavano tentando di auto-orientalizzarsi!!! (Ohnuki-Tierney 1990: 204)
Tutto questo per dire che, una ‘cultura dell’imitazione’ non esiste in quanto tale. I fenomeni culturali sono, sempre, idee e pratiche che viaggiano nel tempo e nello spazio senza appartenere a nessuno. E anche per dire che, così come i giapponesi sono stati in grado di portare per anni l’etichetta di imitatori appiccicata da noi, sono stati anche in grado di rielaborare elementi culturali stranieri in un modo riconoscibilmente giapponese.
E una cosa molto simile sta avvenendo in Cina. Per studiare questo fenomeno, il filosofo della tecnica Yuk Hui ha portato avanti una riflessione sulla storia di due concetti chiave: 道 (Dào, lett. “la via”) e 器 (Qī, lett. “macchina”). Per comprendere l’importanza di questa ‘archeologia del sapere’, il pensatore occidentale può immaginarla come analoga alla storia della relazione tra Aretē e Technē.
Dào e Qī sono termini che pensatori taoisti e confuciani hanno utilizzato per comunicare alcuni tra gli elementi fondativi delle rispettive scuole di pensiero. Essi sono concepiti come mutualmente esclusivi e al tempo stesso inseparabili. Il Dào è una forza cosmica che necessita di essere contenuta all’interno della forma immanente del Qī, attraverso l’azione e la creazione e l’utilizzo di strumenti. Viceversa, tali strumenti possono essere pensati come Dào soltanto immaginando che da essi venga sottratta la determinazione in quanto Qī.
Il processo d’immaginazione di uno strumento privato della propria determinazione avviene, nella storia del pensiero cinese, attraverso la narrazione di aneddoti a contenuto moralizzante, come quelli presenti nei Dialoghi di Confucio o nell’opera di Zhuangzi. Famoso, è quello del cuoco che non doveva mai affilare la lama del coltello. Leggendo, è lasciato al lettore il compito di comprendere con l’intuizione, piuttosto che con una definizione precisa e priva di incoerenze logiche. Quindi, è tanto nel linguaggio quanto nel contenuto morale che è presente il paradosso: è possibile comprendere il Dào soltanto quando, pur nell’utilizzo di parole, si sente di non riuscire ad arrivare a comprenderlo a parole, ma col cuore (心 xīn); è possibile agire secondo il Dào solo quando si giunge alla non-azione (無為 wúwéi). Tale comprensione non avviene, pertanto, attraverso modalità euristiche proprie del pensiero filosofico-scientifico, bensì tramite intuizioni, sensazioni, ed emozioni che nel pensiero cinese hanno luogo, fin troppo francamente, nel cuore.
La riflessione di Yuk Hui poggia sulla sua conoscenza nativa del cinese tradizionale, dei singoli caratteri, così come dei radicali che li compongono. Esempio chiave è la sua analisi delle componenti del summenzionato carattere 器. In esso sono presenti quattro “bocche” (口,Kǒu) e un “cane” (犬,Quǎn). Lo studio delle etimologie dei caratteri cinesi insegna che esistono molteplici modalità di analisi, che possono dare risalto ad aspetti grafici, fonetici, simbolici, storici, connessioni con la cultura materiale, e tanti altri tipi di connessioni. Hui sembra dare risalto all’aspetto grafico-simbolico quando scrive che le quattro Kǒu suggeriscono al tempo stesso la nozione astratta di “contenitore” quanto quella ben più concreta di vita, nel senso di forza vitale. La macchina sarebbe quindi un contenitore del Dào nel momento in cui lo circostanzia all’interno dei limiti dello strumento, senza per questo annichilirne la forza vitale. Al cane è riservato il ruolo di “guardia” delle quattro bocche, ma tale ruolo sembrerebbe più che altro indicare che, lungi dal trattarsi di una manifestazione astratta del Dào, la macchina prende corpo nello spazio fisico, quello stesso spazio, cioè, protetto dal Quǎn.
Tutto questo dovrebbe essere sufficiente a far almeno intuire che i presupposti che ci permetterebbero anche solo di cominciare a pensare la tecnologia in Cina sono così distanti da quelli cui siamo abituati a pensare la tecnologia in occidente, che se anche la Cina avesse avuto un proprio sviluppo tecnologico al tempo in la vedevamo solo come fabbrica del mondo, probabilmente non ce ne saremmo accorti.