Abitare il Vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo (ed. UTET) è il titolo-manifesto del libro che il sociologo Bertram Niessen dedica alle prospettive di vita urbana dopo il trauma della pandemia.
Tre sono i pubblici di riferimento a cui il testo esplicitamente si rivolge: chi è interessato alle trasformazioni contemporanee della città, della cultura e della politica; quelli che sono alla ricerca di utensili teorici e pratici per nuove costruzioni di senso; studenti e ricercatori delle discipline che indagano la città.
In realtà il pubblico d’elezione è molto più ampio, e si allarga a chiunque voglia capire come sono diventate le città e sente l’urgenza di confrontarsi con una visione lucida su come potrebbero diventare.
Il libro si basa su un’equivalenza: le città sono la nostra vita. Ne sono lo specchio, il prodotto. E, al contempo, la determinano.
Nel suo lungo percorso di artista, sociologo e indagatore di culture e sottoculture urbane, Niessen ha imparato sul campo che le città sono in continuo movimento e scaturiscono da un’interazione complessa di piani diversi – infrastrutturale e culturale, economico e politico – e che «ogni percorso di trasformazione che le riguarda coinvolge tutti quelli che ci vivono e anche molti che per i motivi più diversi ci hanno a che fare».
Capire come sono diventate dopo l’impatto della pandemia significa trovare il coraggio di guardare negli occhi il caos che permane ancora dentro di noi e che si riverbera nei luoghi dove si svolgono le nostre esistenze.
Il dito nella piaga
Nella sua ricognizione, l’autore è ben attento a evitare ogni tipo di scorciatoia semplificatrice o tesa a denegare la gravità dei problemi che abbiamo di fronte.
Un esempio illuminante in questo senso è la rilettura che fa della new economy teorizzata negli anni Zero dal ricercatore statunitense Richard Florida. In quella visione ingenua e seduttiva sarebbe stata la classe creativa – scienziati, ricercatori universitari, designer, pubblicitari, artisti, attori, scrittori e musicisti – a trasformare le città con nuove estetiche, idee e contenuti, rendendole il regno di lavoratori culturali altamente specializzati, che avrebbero creato un nuovo stile di vita.
Tutto bene, quindi? Non proprio. Perché per realizzare una visione così ambiziosa erano necessarie robuste politiche pubbliche, che dovevano intervenire su più livelli contemporaneamente e, soprattutto, con l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze socioeconomiche. Aspetti del tutto ignorati, nella convinzione magica – e ideologica – che ognuno poteva arrivare al successo liberando il proprio potenziale creativo.
La crisi di identità che attraversa le città dopo la pandemia è dovuta a un particolare ‘effetto stereo’, in cui si continua a riprodurre senza variazione questo modello – come se nulla fosse successo – mentre molti dei suoi protagonisti sono di fatto nell’impossibilità di praticarlo, perché soggetti a una situazione di insostenibilità materiale e psicologica sempre più evidente.
Oggi il lavoro artistico, culturale e intellettuale è diventato più povero e precarizzato, con una costante perdita di senso e di potere economico: un esito drammatico e molto amaro per chi ha inseguito la propria realizzazione personale tramite un lavoro creativo e un po’ alla volta si è ritrovato a muoversi in un campo di gioco fatto da carriere frammentarie, orari massacranti, pochi introiti e nuove forme di auto-sfruttamento.
Prima di scaricare la responsabilità sulla carenza di imprenditorialità e la mancanza di talento di chi ha fatto questa scelta, conviene dare un’occhiata a qualche semplice indicatore macroeconomico e, per quanto riguarda l’Italia, a come si è sviluppata la politica degli investimenti pubblici. I dati che Niessen cita sono raggelanti e fanno molto riflettere.
Secondo il rapporto Benessere equo e sostenibile dell’Istat 2021 sulla spesa pubblica, per i servizi culturali nel 2018 sono stati spesi nel nostro Paese solo 5,1 miliardi di euro. Una cifra sconfortante se paragonata ai 14,8 miliardi della Francia, ai 13,5 della Germania, ma anche ai 5,5 della Spagna. Non è un caso che i lavoratori del settore culturale siano tra le categorie storicamente meno tutelate e tra quelle che hanno subito in modo più devastante gli effetti della precarizzazione, con una polarizzazione delle risorse economiche disponibili che sta contraendo sempre di più la classe media.
La narrazione dominante secondo cui il duro lavoro, l’intraprendenza e la buona volontà sono condizioni sufficienti per generare benessere appare, nei fatti, inadeguata e mostra sempre più la corda. Occorrono nuove metriche, nuovi sguardi, elaborazioni teoriche che abbiano il coraggio di proporre idee scomode e imperfette, ma vive.
City branding: una pratica ambigua per ridefinire le città
Non è un caso che, a partire dal titolo, nel libro si parli sempre di città, al plurale. Questo perché, in un’epoca globalizzata, ogni città per prosperare deve competere con le proprie ‘colleghe’ e, per farlo, utilizza sempre di più gli strumenti del marketing. Occorre diventare attrattivi per aziende, investitori e persone disposte a trasferirsi e quindi bisogna ‘posizionare’ la città nel modo giusto, per farla scegliere dai potenziali acquirenti. Da qui la nascita del city branding.
Analogamente con quello che avviene per prodotti e aziende, il valore di una città è determinato da un mix di elementi materiali e immateriali, i cosiddetti ‘asset intangibili’: la reputazione di un marchio, le relazioni e le community che si sviluppano intorno ad esso, le competenze e l’affidabilità di chi lo alimenta con il proprio lavoro, il particolare alone di atmosfere e significati che si viene a creare. Questi aspetti intangibili si saldano con quelli più classici e misurabili e diventano sempre più importanti nello stabilirne il valore complessivo, che emerge come ‘fattore differenziante’: quel particolare quid che mi distingue da tutti gli altri concorrenti, mi fa scegliere e mi fa ricordare.
Poiché è una tecnica applicata massicciamente da tutti, il city branding sortisce l’effetto paradossale di appiattire l’identità dei luoghi, delle persone e dei gruppi sociali che quelle città le abitano e le attraversano.
Capitale simbolico e ricerca dell’autenticità
Più le operazioni di city branding risultano ben condotte ed efficaci, e più assistiamo al fenomeno della cosiddetta gentrificazione, che in buona sostanza significa: gli abitanti originari di un quartiere riqualificato e reso più attraente sono sostituiti da nuovi abitanti, appartenenti a classi più abbienti.
Questo schema si ripete puntualmente in ogni centro urbano – a New York come a Roma, a Leeds come a Lisbona – e ha una serie di costanti. Prima fra tutte, quella che Niessen definisce ‘la ricerca dell’autenticità’, un bisogno diffuso che chiama in causa il legame che lega gli intellettuali progressisti, il loro sistema di valori e i modi in cui questi valori vengono messi a frutto.
Risultato: si produce un capitale simbolico sempre più rilevante, che attira gli investitori immobiliari nell’area circostante e contribuisce a disinnescare e annacquare quell’unicità tanto desiderata. Il tutto, poi, è aggravato da un altro paradosso: più la cultura diventa elemento trainante per riuscite operazioni di branding e meno nei fatti diventa soggetta di attenzione, progettualità e finanziamenti da parte dell’investitore pubblico.
Prospettive e possibili risposte
Come se ne esce? Occorre prendere il toro per le corna e mettere mano a massicci interventi strutturali. Un buon esempio in questo senso può essere puntare su una nuova edilizia residenziale pubblica, investendo in particolare sulle cooperative di abitanti a proprietà indivisa, che edificano e gestiscono abitazioni delle quali i soci potranno godere, senza però diventare nominalmente proprietari individuali. Una soluzione mutualistica, che fa prevalere il diritto dell’abitare rispetto alle logiche puramente speculative del mercato immobiliare, e che può tutelare i territori nel loro complesso.
Ma le politiche pubbliche e le iniziative mutualistiche non nascono da sole. Cè bisogno di un lavoro intenso e costante di elaborazione culturale, di progettazione economica e soprattutto di mobilitazione politica.
C’è poi il tema del ‘prendersi cura’ o ‘avere cura’, che testimonia una nuova sensibilità nel vivere la città con cui fare i conti. Secondo Niessen si può fare in due modi.
Il primo è costruire l’identità di individui e organizzazioni a partire dall’identificazione di un ‘altro’ marginale e svantaggiato – povero, vecchio o malato – su cui riversare la propria attenzione. In questa forma rinnovata di filantropia, che può dare vita a esperienze umane bellissime, si annida il rischio di un’asimmetria di potere – come quella tra genitori e figli – che non è detto venga ripianata nel corso della relazione.
Il secondo è concepire la cura tra soggetti: pensare e praticare, cioè, le relazioni partendo dal presupposto che il confine tra salute e malattia è una costruzione sociale, e che tutti abbiamo qualcosa che non va e che può essere preso in cura da qualcun altro.
La cultura resta ancora uno degli strumenti principali di riorganizzazione degli equilibri di potere, di presa di parola e di intervento sul reale. Per questo, una trasformazione culturale è quello di cui abbiamo bisogno, in un momento in cui le crisi locali e globali si sono sommate fino a costruire una tempesta perfetta in grado di spazzarci via. Ci occorre una trasformazione che provi a costruire mondi di simboli, pratiche e valori in grado di opporsi alla crisi climatica, all’esplosione delle nuove diseguaglianze economiche e sociali, al divampare della guerra. Dobbiamo perseguire programmaticamente nuove ritualità, immaginari e sperimentazioni, e trovare nuovi modi di legarli agli spazi delle città che abitiamo, progettando il disordine.
Questo ci porta ad affrontare il vero elefante nella stanza: il tema del conflitto. Come segnalano i filosofi argentini Miguel Benasayag e Angélique Del Rey nel loro Elogio del conflitto, la ‘versione soft‘ della rimozione consiste nell’escludere dal discorso pubblico tutto ciò che non fa ricorso alla razionalità strumentale (l’utilità) o a quella comunicativa (l’intenzionalità). Ogni manifestazione dell’essere umano deve risultare logica, determinabile, perfettamente aderente a un progetto. La ‘rimozione hard del conflitto’ arriva a bandire ogni forma di alterità e di devianza, per dare vita a un mondo trasparente, sempre uguale a se stesso, nel quale il dissenso è inconcepibile perché considerato l’equivalente di un automatico scivolamento nella barbarie e nella violenza.
Eppure, come saggiamente ci fa notare l’autore, far emergere le conflittualità latenti – nelle relazioni, nelle identità, nei territori – è il modo migliore che abbiamo a disposizione per evitare che la violenza strutturale che si accumula negli ingranaggi della società degeneri davvero.
Quello che è accaduto nel 2020 ha di fatto archiviato definitivamente la prospettiva urbana del xx secolo: la questione ora è capire come possiamo partecipare alla vita della nostra epoca. Una sfida enorme, che i singoli individui non possono certo pensare di affrontare da soli. Serve allora un nuovo modo di confrontarsi, basato sul dialogo e il confronto diretto e non sulla polarizzazione e la rimozione del conflitto, e un patto di solidarietà fra le generazioni che porti a ridefinire la concezione di bene comune e le coordinate in cui si può costruire una nuova idea di comunità urbana.